Vizi capitali (7)
di Renato Boccardo
Si conclude oggi al Festival di Spoleto (ore 17, chiesa di San Domenico) il ciclo di prediche sui 7 vizi capitali. Pubblichiamo qui stralci dell’omelia di Renato Boccardo, arcivescovo di Spoleto, sull’«Avarizia». Sul sito «www.avvenire.it» il testo integrale di tutte le prediche.
Un giovane desidera entrare in monastero. Il maestro dei novizi lo interroga per sapere se è veramente deciso ad abbandonare il mondo: «Se tu avessi tre monete d’oro le daresti ai poveri?». Di tutto cuore, padre. «E se avessi tre monete d’argento?» Ben volentieri. «E se avessi tre monete di rame?» No, padre. «E perché?», domanda il monaco stupefatto. «Perché le ho!». Possedere è legittimo. Il problema inizia quando il denaro e i beni posseggono noi. O ci ossessionano.
La Scrittura considera l’avarizia un grave peccato. Il denaro infatti sfida Dio, giacché ne occupa il posto: «Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza» (Mt 6, 24), dice Gesù. Se noi fossimo davvero liberi nei confronti del danaro, ci risulterebbe così difficile pagare le imposte o le contravvenzioni? Come l’orgoglioso, il lussurioso ed il goloso, anche l’avaro è definito peccatore e vizioso non perché ama un qualche bene di questo mondo, ma perché il suo amore per questo bene è smisurato. Massimo il Confessore spiega che il peccato inizia non con il possesso del denaro, ma con il suo «cattivo uso», quando cioè il danaro cessa di essere un mezzo e diventa un fine. «Io sono ciò che ho», ripete di sé l’avaro, e pone nell’avere la radice del suo essere.
Di ogni realtà egli cerca il dominio esclusivo, economicamente quantificabile, e non un gioioso godimento. Esistono due specie di avarizia: materiale e spirituale. Louis de Funès, il grande comico francese, non pagava mai il taxi in moneta ma con un assegno. «Aveva infatti notato – racconta il commediografo Pierre Ricard – che i tassisti invece di riscuotere gli assegni preferivano conservarli per mostrarli ai colleghi: Hai visto? È un assegno di de Funès. Risultato: Louis risparmiava denaro». Ciò che è vero per il denaro vale anche per ogni altro genere di beni: mobili, macchine, abiti, scarpe, francobolli, vecchi libri... li si accumula e li si ricerca in maniera sfrenata, come se potessero appagare la sete che ci divora.
Alla base di tutto ciò, come radice, troviamo l’amore per il danaro, senza il quale nessuno di questi beni sarebbe accessibile. I Padri della Chiesa distinguono tre momenti in questa avarizia materiale: l’attaccamento del cuore al danaro, cioè l’avarizia in senso proprio; il desiderio di acquisire incessantemente nuovi beni, cioè la cupidigia o l’avidità; l’ostinazione nel possesso, cioè l’assenza di generosità. La possessività non si riferisce solo al denaro. Essa si può riferire anche al tempo. Balzac diceva del padre di Eugénie Grandet che «sembrava economizzare tutto, anche il movimento».
Al contrario, santa Teresa di Gesù Bambino offriva a Dio il tempo delle sue giornate perché ne potesse disporre a suo piacimento. La vita associativa e la vita politica conoscono personaggi che non arrivano mai a «staccare la spina» e a lasciare spazio ai più giovani. Nell’ambito del volontariato civile ed ecclesiale succede spesso di incontrare persone molto generose che diventano come «proprietarie» delle loro responsabilità e si attaccano gelosamente al loro servizio e ai loro piccoli poteri come l’edera si abbarbica al muro. «Ci sono dei volontari – mi diceva un prete – che danno veramente tutto, salvo le dimissioni».
Una tale possessività genera confusione, irritazione ed impazienza. San Francesco d’Assisi la denunciava frequentemente. San Giovanni della Croce sapeva riconoscere nei fedeli i segni di cupidigia spirituale: evoca, per esempio, quelli che sono «insaziabili di libri che trattano di spiritualità». E precisa: «Ciò che rimprovero è l’attaccamento del cuore, l’importanza attribuita alla fattura o al numero e alla bellezza degli oggetti, cose molto contrarie alla povertà di spirito». Il peccato rende ciechi. E l’avaro si protegge innanzitutto giustificandosi. Già nel XVI secolo, san Francesco di Sales constatava che non si confessava il peccato di avarizia: «Nessuno al mondo vorrà mai ammettere di essere avaro! Tutti negano di essere contagiati da questo tarlo che inaridisce il cuore.
Chi adduce a scusa il pesante fardello dei figli, chi la necessità di crearsi una solida posizione. Non si possiede mai abbastanza; si trova sempre un motivo per avere di più». Il denaro si riferisce alla nostra relazione alla sicurezza, che è uno dei bisogni fondamentali dell’uomo. Dopo aver tentato diverse spiegazioni, nessuna delle quali però appare sufficiente – sete di potenza, volontà di accedere a una condizione di super-rispettabilità dovuta al volume del conto in banca, riflesso che tenta di sostituire con il denaro qualità o nobiltà umane di cui ci si riconosce carente – gli antropologi hanno dimostrato che è finalmente alla paura della morte che tenta di rispondere l’ossessione della fortuna economica. Risparmio maniacale, accumulo di beni: quali sintomi migliori per rivelare una oscura paura del domani, cioè della morte? Il taccagno non ripone la sua fiducia in Dio ma nei suoi averi, non dorme tra due guanciali ma sul suo denaro, è inquieto e ansioso in permanenza. «Il ricco, anche quando non subisce alcuna perdita, teme di subirne», spiega ancora san Giovanni Cristostomo, e aggiunge che una volta raggiunta la ricchezza permane «la preoccupazione di conservare tutto quanto si è acquisito con tanta fatica».
San Francesco d’Assisi temeva talmente la «febbre dell’oro» da proibire ai suoi frati di toccare anche la più piccola moneta. Perché, a forza di suscitare preoccupazione, il denaro accaparra lo spirito. E prima o poi giunge ad occupare insidiosamente il primo posto; ciò che è proprio dell’idolo. Figlie dell’avarizia sono, secondo san Gregorio Magno, l’insensibilità del cuore, come avviene per il ricco del vangelo, indifferente al povero Lazzaro che geme alla sua porta (cf Lc 16, 19-30); l’inquietudine nel possesso; la violenza nell’appropriazione (quante famiglie unite si sbranano al momento dell’eredità?); il furto e anche il tradimento. Senza parlare della tristezza. Giovanni Verga racconta nel suo Mastro don Gesualdo che quando il protagonista si accorge di essere malato decide di dare un ultimo saluto alle sue amate proprietà: «Disperato di dover morire, si mise a bastonare anatre e tacchini, a strappar gemme e sementi. Avrebbe voluto distruggere d’un colpo tutto quel ben di Dio che aveva accumulato a poco a poco. Voleva che la sua roba se ne andasse con lui, disperata come lui». L’avarizia è un fardello che appesantisce il cuore, ritarda la conversione, il cambiamento di vita, impedisce l’adesione a Dio. Al di là della sfera personale, infine, la cupidigia produce anche effetti devastanti su scala sociale: in Brasile, l’80% delle terre appartiene a meno del 10% della popolazione; le ricchezze di numerosi Paesi africani sono saccheggiate da qualche despota; quanti siti naturali nel mondo sono violati e danneggiati per procurarsi guadagni immediati?
Il decalogo: 10 regole contro la taccagneria
1. Non sottovalutare questo vizio
«Nessuno consideri l’avarizia come malattia di poca importanza – raccomanda Giovanni Cassiano –. Chiunque abbia ceduto anche una sola volta non può non essere presto infiammato da un desiderio più violento».
2. Ricordarsi l’origine dei beni
Il denaro e la proprietà non vengono da noi e non sono per noi. Certo, si devono al nostro lavoro ma, in ultima analisi, vengono da Dio.
3. Ricordarsi il fine dei beni
Il denaro ed i beni non sono destinati unicamente a colui che li ha guadagnati.
4. Praticare la sobrietà
Felice colui che si accontenta di quello che ha. È importante sapere anche mettere un freno alla cupidigia onorando il riposo di cui abbiamo bisogno, specialmente quello domenicale.
5. Esercitare la fiducia
Dietro al bisogno di sicurezza si nasconde spesso una non confessata mancanza di fiducia, quasi una disperazione nella Provvidenza. L’accumulare fortuna è una sicurezza illusoria.
6. Praticare la generosità
Imparare a donare gratuitamente, senza indugio e senza restrizione.
7. Ricordarsi dei poveri
San Basilio scriveva: «Sotterrando il tuo oro, tu in realtà hai sotterrato il tuo cuore .Sì, tu sei povero, non possiedi alcun bene: sei povero d’amore, povero di bontà, povero di fede in Dio, povero di speranza eterna».
8. Essere concreto nel dono
Perché ad inizio anno non fare una valutazione dei propri beni: ciò che non è servito durante un anno o più (abiti, utensili, mobili, veicoli) è veramente utile?
9. Rovesciare le prospettive
Invece di promettere: «Farò beneficienza quando mi sarò assicurato il necessario» (ciò che non si farà mai), dire: «Riservo tale percentuale del mio budget per il Signore e per chi è meno fortunato di me».
10. Meditare sulla croce
La Passione è la più grande forma di povertà e di distacco. La contemplazione della Croce ci guarisce da un attaccamento smisurato ai beni terreni e ci salva dalle cupidigie sbagliate.
Un giovane desidera entrare in monastero. Il maestro dei novizi lo interroga per sapere se è veramente deciso ad abbandonare il mondo: «Se tu avessi tre monete d’oro le daresti ai poveri?». Di tutto cuore, padre. «E se avessi tre monete d’argento?» Ben volentieri. «E se avessi tre monete di rame?» No, padre. «E perché?», domanda il monaco stupefatto. «Perché le ho!». Possedere è legittimo. Il problema inizia quando il denaro e i beni posseggono noi. O ci ossessionano.
La Scrittura considera l’avarizia un grave peccato. Il denaro infatti sfida Dio, giacché ne occupa il posto: «Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza» (Mt 6, 24), dice Gesù. Se noi fossimo davvero liberi nei confronti del danaro, ci risulterebbe così difficile pagare le imposte o le contravvenzioni? Come l’orgoglioso, il lussurioso ed il goloso, anche l’avaro è definito peccatore e vizioso non perché ama un qualche bene di questo mondo, ma perché il suo amore per questo bene è smisurato. Massimo il Confessore spiega che il peccato inizia non con il possesso del denaro, ma con il suo «cattivo uso», quando cioè il danaro cessa di essere un mezzo e diventa un fine. «Io sono ciò che ho», ripete di sé l’avaro, e pone nell’avere la radice del suo essere.
Di ogni realtà egli cerca il dominio esclusivo, economicamente quantificabile, e non un gioioso godimento. Esistono due specie di avarizia: materiale e spirituale. Louis de Funès, il grande comico francese, non pagava mai il taxi in moneta ma con un assegno. «Aveva infatti notato – racconta il commediografo Pierre Ricard – che i tassisti invece di riscuotere gli assegni preferivano conservarli per mostrarli ai colleghi: Hai visto? È un assegno di de Funès. Risultato: Louis risparmiava denaro». Ciò che è vero per il denaro vale anche per ogni altro genere di beni: mobili, macchine, abiti, scarpe, francobolli, vecchi libri... li si accumula e li si ricerca in maniera sfrenata, come se potessero appagare la sete che ci divora.
Alla base di tutto ciò, come radice, troviamo l’amore per il danaro, senza il quale nessuno di questi beni sarebbe accessibile. I Padri della Chiesa distinguono tre momenti in questa avarizia materiale: l’attaccamento del cuore al danaro, cioè l’avarizia in senso proprio; il desiderio di acquisire incessantemente nuovi beni, cioè la cupidigia o l’avidità; l’ostinazione nel possesso, cioè l’assenza di generosità. La possessività non si riferisce solo al denaro. Essa si può riferire anche al tempo. Balzac diceva del padre di Eugénie Grandet che «sembrava economizzare tutto, anche il movimento».
Al contrario, santa Teresa di Gesù Bambino offriva a Dio il tempo delle sue giornate perché ne potesse disporre a suo piacimento. La vita associativa e la vita politica conoscono personaggi che non arrivano mai a «staccare la spina» e a lasciare spazio ai più giovani. Nell’ambito del volontariato civile ed ecclesiale succede spesso di incontrare persone molto generose che diventano come «proprietarie» delle loro responsabilità e si attaccano gelosamente al loro servizio e ai loro piccoli poteri come l’edera si abbarbica al muro. «Ci sono dei volontari – mi diceva un prete – che danno veramente tutto, salvo le dimissioni».
Una tale possessività genera confusione, irritazione ed impazienza. San Francesco d’Assisi la denunciava frequentemente. San Giovanni della Croce sapeva riconoscere nei fedeli i segni di cupidigia spirituale: evoca, per esempio, quelli che sono «insaziabili di libri che trattano di spiritualità». E precisa: «Ciò che rimprovero è l’attaccamento del cuore, l’importanza attribuita alla fattura o al numero e alla bellezza degli oggetti, cose molto contrarie alla povertà di spirito». Il peccato rende ciechi. E l’avaro si protegge innanzitutto giustificandosi. Già nel XVI secolo, san Francesco di Sales constatava che non si confessava il peccato di avarizia: «Nessuno al mondo vorrà mai ammettere di essere avaro! Tutti negano di essere contagiati da questo tarlo che inaridisce il cuore.
Chi adduce a scusa il pesante fardello dei figli, chi la necessità di crearsi una solida posizione. Non si possiede mai abbastanza; si trova sempre un motivo per avere di più». Il denaro si riferisce alla nostra relazione alla sicurezza, che è uno dei bisogni fondamentali dell’uomo. Dopo aver tentato diverse spiegazioni, nessuna delle quali però appare sufficiente – sete di potenza, volontà di accedere a una condizione di super-rispettabilità dovuta al volume del conto in banca, riflesso che tenta di sostituire con il denaro qualità o nobiltà umane di cui ci si riconosce carente – gli antropologi hanno dimostrato che è finalmente alla paura della morte che tenta di rispondere l’ossessione della fortuna economica. Risparmio maniacale, accumulo di beni: quali sintomi migliori per rivelare una oscura paura del domani, cioè della morte? Il taccagno non ripone la sua fiducia in Dio ma nei suoi averi, non dorme tra due guanciali ma sul suo denaro, è inquieto e ansioso in permanenza. «Il ricco, anche quando non subisce alcuna perdita, teme di subirne», spiega ancora san Giovanni Cristostomo, e aggiunge che una volta raggiunta la ricchezza permane «la preoccupazione di conservare tutto quanto si è acquisito con tanta fatica».
San Francesco d’Assisi temeva talmente la «febbre dell’oro» da proibire ai suoi frati di toccare anche la più piccola moneta. Perché, a forza di suscitare preoccupazione, il denaro accaparra lo spirito. E prima o poi giunge ad occupare insidiosamente il primo posto; ciò che è proprio dell’idolo. Figlie dell’avarizia sono, secondo san Gregorio Magno, l’insensibilità del cuore, come avviene per il ricco del vangelo, indifferente al povero Lazzaro che geme alla sua porta (cf Lc 16, 19-30); l’inquietudine nel possesso; la violenza nell’appropriazione (quante famiglie unite si sbranano al momento dell’eredità?); il furto e anche il tradimento. Senza parlare della tristezza. Giovanni Verga racconta nel suo Mastro don Gesualdo che quando il protagonista si accorge di essere malato decide di dare un ultimo saluto alle sue amate proprietà: «Disperato di dover morire, si mise a bastonare anatre e tacchini, a strappar gemme e sementi. Avrebbe voluto distruggere d’un colpo tutto quel ben di Dio che aveva accumulato a poco a poco. Voleva che la sua roba se ne andasse con lui, disperata come lui». L’avarizia è un fardello che appesantisce il cuore, ritarda la conversione, il cambiamento di vita, impedisce l’adesione a Dio. Al di là della sfera personale, infine, la cupidigia produce anche effetti devastanti su scala sociale: in Brasile, l’80% delle terre appartiene a meno del 10% della popolazione; le ricchezze di numerosi Paesi africani sono saccheggiate da qualche despota; quanti siti naturali nel mondo sono violati e danneggiati per procurarsi guadagni immediati?
Il decalogo: 10 regole contro la taccagneria
1. Non sottovalutare questo vizio
«Nessuno consideri l’avarizia come malattia di poca importanza – raccomanda Giovanni Cassiano –. Chiunque abbia ceduto anche una sola volta non può non essere presto infiammato da un desiderio più violento».
2. Ricordarsi l’origine dei beni
Il denaro e la proprietà non vengono da noi e non sono per noi. Certo, si devono al nostro lavoro ma, in ultima analisi, vengono da Dio.
3. Ricordarsi il fine dei beni
Il denaro ed i beni non sono destinati unicamente a colui che li ha guadagnati.
4. Praticare la sobrietà
Felice colui che si accontenta di quello che ha. È importante sapere anche mettere un freno alla cupidigia onorando il riposo di cui abbiamo bisogno, specialmente quello domenicale.
5. Esercitare la fiducia
Dietro al bisogno di sicurezza si nasconde spesso una non confessata mancanza di fiducia, quasi una disperazione nella Provvidenza. L’accumulare fortuna è una sicurezza illusoria.
6. Praticare la generosità
Imparare a donare gratuitamente, senza indugio e senza restrizione.
7. Ricordarsi dei poveri
San Basilio scriveva: «Sotterrando il tuo oro, tu in realtà hai sotterrato il tuo cuore .Sì, tu sei povero, non possiedi alcun bene: sei povero d’amore, povero di bontà, povero di fede in Dio, povero di speranza eterna».
8. Essere concreto nel dono
Perché ad inizio anno non fare una valutazione dei propri beni: ciò che non è servito durante un anno o più (abiti, utensili, mobili, veicoli) è veramente utile?
9. Rovesciare le prospettive
Invece di promettere: «Farò beneficienza quando mi sarò assicurato il necessario» (ciò che non si farà mai), dire: «Riservo tale percentuale del mio budget per il Signore e per chi è meno fortunato di me».
10. Meditare sulla croce
La Passione è la più grande forma di povertà e di distacco. La contemplazione della Croce ci guarisce da un attaccamento smisurato ai beni terreni e ci salva dalle cupidigie sbagliate.
«Avvenire» del 16 luglio 2012
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