06 febbraio 2007

Crimini di guerra sotto la coltre del «mito»

Lo storico tedesco Staron accusa: tanti libri sulle stragi, ma leggende ideologiche hanno impedito una ricerca aperta
di Roberto Beretta
A furia di parlarne, e di scriverne, non sappiamo più come sono andate davvero le cose. Possibile? Sulle Fosse Ardeatine e Marzabotto il sospetto è legittimo, come dimostra il nuovo omonimo libro (Il Mulino, pp. 546, euro 28) in cui Joachim Staron ha ristudiato «storia e memoria di due stragi tedesche». Pare che sui crimini compiuti dai nazisti in Italia esista una letteratura più numerosa di quella relativa a qualunque altro Paese finito sotto lo stivale di Hitler; eppure ciò non ha impedito (anzi, forse ha favorito) la diffusione di un'immagine falsata di quanto realmente avvenne: in Italia a causa del «mito» della Resistenza solo «buona» e opposta alla ferocia nazista, in Germania col «mito» della «guerra pulita», ovvero di un'occupazione gestita in modo quasi "umanitario" dal Feldmaresciallo Kesselring - a parte le solite criminali SS... Solo negli anni Novanta si è infranto il muro dei tabù, lasciando spazio a una ricerca più aperta (non a caso definita «revisionista» dagli avversari); ma ormai le incrostazioni erano difficili da ripulire. Le vulgate di Marzabotto e delle Fosse Ardeatine costituiscono l'apice di tale storia «ideologica». Perché? Per l'ampiezza delle stragi, certo; ma anche per i processi celebrati nel dopoguerra, i quali funzionarono da cassa di risonanza massmediale per gli stereotipi, i pregiudizi, i luoghi comuni che si depositarono sui fatti fino a stravolgerne parecchi elementi. Così sull'attentato di via Rasella che generò la rappresaglia delle Ardeatine circolano tuttora di qui e di là delle Alpi - è solo un esempio - due falsità interessate: che la misura di 10 ostaggi uccisi ogni morto nazista fosse ratificata dalle regole di guerra (mito favorevole ai tedeschi «puliti») e che i gappisti non potevano prevedere l'esito del loro atto terroristico (mito dei partigiani «buoni»)... Ma qui fermiamoci a Marzabotto. Anche Staron segnala la leggenda dei 1800 morti (vedi articoli qui sopra); poi individua altri punti deboli nella storiografia sia italiana - la sottolineatura della «ferocia diabolica» dei nazisti, elemento irrazionale utile per sottacere invece il nesso con le azioni dei partigiani -, sia tedesca (la presentazione dell'eccidio come una normale «operazione militare»). Non è vero, per esempio, che i nazisti spararono a neonati buttandoli per aria (leggenda peraltro riferita al processo contro Reder); ma non è vero neppure che essi erano ignari d'aver ucciso donne e bambini (come la pubblicistica tedesca lasciò credere per decenni, accusando gli italiani di denigrare la Germania). Così procedendo si ottenne che, mentre giudizialmente i colpevoli dei crimini nazisti in Italia risultavano largamente impuniti (anche per scelta politica), quelli invece finiti sotto i riflettori dei processi - da Kappler, a Reder, a Priebke - diventavano simboli assoluti del male, «senza tenere conto del ruolo da loro effettivamente svolto». La storia interpretata con gli occhiali: una lente emotiva, l'altra ideologica. Non a caso i primi due studi approfonditi sulle Ardeatine e su Marzabotto - nota ancora Staron - non sono stati opera di storici tedeschi né italiani, ma di giornalisti americani.
«Avvenire» del 2 febbraio 2007

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