I versi di Giorgio Manganelli
di Paolo Di Stefano
Il testo è edito da Crocetti, che celebra i venti anni della sua rivista «Poesia»
Qualcuno potrebbe rimanere a bocca aperta leggendo questo pre-, proto-, Ur-Manganelli, che dir si voglia. Per chi abbia un ricordo anche lontano di Hilarotragoedia o di Centuria, in effetti la lettura delle Poesie di Giorgio Manganelli (editore Crocetti, pp. 356, 20) rischia di dare le vertigini. Sembra quasi di trovarsi di fronte a un altro scrittore. Già l’anno scorso però la rivista Riga aveva assestato un bel colpo all’immagine diffusa del manierista, del funambolo, del provocatorio fautore della letteratura come menzogna, pubblicando diari giovanili di lavoro (a cura di Andrea Cortellessa) che aprivano uno squarcio inedito e sorprendente su ciò che precedeva l’opera prima (anno di grazia 1964). E in quella occasione si aggiungeva tutta una serie di scritti dispersi che dimostravano quanto Manganelli fosse attento alla società, alla politica, alla cronaca. Va pure detto che quel ricchissimo numero di Riga conteneva inoltre stralci da Un libro risalenti agli anni 1953-55, in cui Manganelli «impara a diventare Manganelli», come ha scritto Salvatore Silvano Nigro, ma che sembrano comunque distanti anni luce dai libri pubblicati in vita. E va aggiunto infine che già nel ‘99 la rivista Poesia dello stesso Crocetti (gloriosamente avviatasi al suo ventesimo anno di vita: con vendite in edicola da far venire il capogiro) pubblicò una parte dei versi giovanili. Eppure questi assaggi preliminari non tolgono nulla alla sorpresa. Perché ha proprio ragione il curatore Daniele Piccini quando osserva che, soprattutto nel corpo centrale della raccolta, ci troviamo di fronte alla «ricerca, furiosa, di identità e destino», con testi che «ruotano cioè attorno alla sanguinosa verità dell’esperienza individuale, a un perno esistenziale, a un’angoscia propriamente sentita che l’autore non elude affatto o mette tra parentesi». È questo il punto. E lo mette bene in evidenza anche la postfazione di Federico Francucci parlando di «archeologia manganelliana». Nelle poesie c’è tutto ciò che nello scrittore instancabilmente sperimentale che sarebbe stato Manganelli non troviamo più: c’è un io narrante (anzi, lirico) che mette in scena (in piazza) tutte le angosce della sua solitudine («Io celebro la mia assurda solitudine, / infiggo bandiere»), persino i suoi terrori profondi («questa radice di morte / che ci cresce affettuosa / nel centro del corpo»), i suoi dolori amorosi declinati nei modi più vari («Desideravo vederti: / conoscere la fantasia dei tuoi capelli»), le sue esplosive ossessioni erotiche («tanto poté la denegata fregna»), i sensi di colpa religiosi (derivati, pare, da profondi retaggi familiari). Per questo risulta particolarmente affascinante l’ipotesi dello stesso Francucci, secondo cui saremmo di fronte a un Manganelli «non del tutto mascherato, un uomo che sta maturando, avviandosi verso l’autore che diventerà». E per l’autore compiuto «la salvezza coincide con la sparizione». Le Poesie, che ora ci vengono offerte in forma quasi integrale, finiscono dunque per rivelarne tutta la preistoria (anche privata), senza schermi e infingimenti: la rigida educazione cattolica, le nevrosi devastanti, la disperazione dei difficili legami affettivi, il disagio e la precarietà milanese, le pulsioni autodistruttive, il sofferto iter psicoanalitico. Tutti quegli elementi insomma che nelle opere pubblicate troveranno il «velo» della retorica e di una letterarietà artificiale, esibita, manierista che però intinge la penna «nello stesso sangue delle dolorose scoperte prime». Un «serbatoio di sanguinosa verità personale», lo definisce bene Piccini. Il quale individua nel quindicennio poetico (dalle prime prove del ‘45) almeno due fasi ben distinte, sul piano tematico e formale. Alla stagione degli esordi classicheggianti e barocchi seguono, negli anni Cinquanta, scelte linguistiche sempre preziose ma con risultati più convincenti e intensi e meno mistico-retorici improntati a quella «angosciosa onestà» (non a caso attribuita al Pavese del diario) a un furore che travolge anche visceralmente ogni buonsenso illuminista: «Non tenterò più di risolvere / le contraddizioni del mio sangue / in una esistenza funzionale: / né di catalogare il mio disordine / in archivi razionali». E che esalta «l’onesta dialettica / della lenta malattia», il «corpo che decade», l’«essere dannati» come «condizione oggettiva, inattaccabile». Le anticipazioni non solo tematiche rispetto all’esordio «ilarotragico» sono numerose: ma qui quelle immagini fantasmatiche e mortuarie si trovano nella loro primitiva e perturbante nudità.
«Corriere della sera del 29 gennaio 2007
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