06 febbraio 2007

Istria, un'Italia negata

Sessant'anni fa l'esodo dalla Venezia Giulia permise la slavizzazione dell'area attraverso la rimozione dell'identità storica
di Edoardo Castagna
La collettivizzazione comunista divenne oppressione nazionale: le proprietà italiane furono statalizzate a beneficio della nuova maggioranza etnica
Snazionalizzazione: parola rara, in Italia, poco comune e dal significato un po' vago. Parola frequente e decisiva, invece, nell'Istria ceduta a Tito con il Trattato di Parigi del 1947, e dal valore ben definito: «In epoca jugoslava - spiega Giovanni Radossi, direttore del Centro di ricerche storiche di Rovigno (Croazia) - snazionalizzare significava cambiare arbitrariamente la nazionalità di una persona: decidere, per esempio, che un certo italiano era invece croato». «Snazionalizzati», dopo il 1947, non furono solo singoli individui, ma l'intera regione istriana: da italiana che era, diventò slava. Momento chiave, quello delle foibe e dell'esodo degli italiani. A scomparire nelle cavità carsiche furono da cinquemila a più di diecimila persone - secondo le stime -, sbrigativamente definite «fasciste», ma spesso colpevoli soltanto di essere italiane; a lasciare la regione furono invece circa trecentomila nostri connazionali, il novanta per cento. Non fu soltanto una decimazione numerica, ma anche un annientamento del tessuto sociale e della componente etnica che da secoli era il nerbo politico, economico e culturale della costa adriatica tra Capodistria e Fiume. Per decenni nessuno ne parlò più: nemmeno, naturalmente, tra gli italiani rimasti sotto Tito. Eppure l'esodo e le foibe erano elemento decisivo non soltanto della storia, ma anche della vita individuale di ognuno di loro. «È stato un tabù - prosegue Radossi - fino alla dissoluzione della Jugoslavia e ancora dopo, quando ogni nuovo Stato si è concentrato sulle proprie sofferenze, sulla propria storia; così oggi non mi risulta che, in tutta l'ex Jugoslavia, esista un solo libro che ricordi le ricadute negative dell'esodo». Gli unici italiani di cui era lecito parlare, in età comunista, erano quelli rimasti in Jugoslavia: ma anche in questo caso ogni discorso era al servizio dell'ideologia, non della storia. In nome della «fratellanza italo-slava» sbandierata dai titini, in Istria e a Fiume erano rimas ti tutti gli «onesti e buoni italiani» che aveva accettato l'annessione; gli altri, gli esuli, non erano che «nemici del popolo» - e poco importava che tra loro ci fossero quasi tutti i partigiani italiani dell'Istria. In realtà, solo un piccola parte di chi rimase - ma ci fu chi si trasferì volontariamente, come un nucleo di operai di Monfalcone (poi «purgati» pochi anni dopo, quando Tito ruppe con Mosca) - lo fece per motivi ideologici, eppure la bipartizione titina ebbe presa anche in Italia e pesò a lungo sugli scarsi o nulli rapporti con la «nazione madre». In Istria, intanto, anche la collettivizzazione forzata della terra diventava oppressione nazionale: i vuoti dell'esodo furono colmati da slavi e le proprietà degli italiani furono statalizzate a beneficio della nuova maggioranza etnica. Gli anni Cinquanta furono così anni di sistematica de-italianizzazione dell'area. L'ormai minoranza non aveva mezzi per opporsi, priva di sostegni dall'Italia che la vedeva - da destra - come quei comunisti che avevano preferito Tito oppure - da sinistra - come quei fascisti nazionalisti che rifiutavano la fratellanza socialista. I nomi italiani dei luoghi furono rimpiazzati con quelli slavi, a volte inventati di sana pianta; la nostra lingua sparì dalla vita pubblica, furono chiusi i centri culturali e molte scuole, anche perché i bambini italiani con un cognome dal suono slavo vennero trasferiti nelle scuole slovene o croate, ripartendo da zero.
Le cose migliorarono un po' negli anni Sessanta, con la «fase liberale» del regime e una certa apertura all'Occidente. Per gli italiani questo significò riallacciare, dopo vent'anni, qualche timido legame con la «nazione madre», dapprima economico - secondo l'interesse di Belgrado -, poi anche culturale: nacquero un circolo artistico, una rivista letteraria, un concorso d'arte e cultura, il Centro di ricerche storiche. Ma con gli anni Settanta la tendenza s'invertì: «Fummo additati - ricorda Radossi - come snazionalizzatori e fal sificatori della storia, attaccati sui giornali a caratteri cubitali, più grandi di quelli usati per scrivere "il compagno Tito"». Fu rispolverata la campagna anti-italiana degli anni Quaranta, con slogan «antifascisti» e violenze contro i simboli dell'italianità. Nel 1974, in un clima avvelenato da sospetti e intolleranze, l'Unione degli italiani fu epurata con la destituzione del presidente, anche se appena l'anno successivo il Trattato di Osimo segnò l'inizio di una nuova distensione.
Lo slogan di regime tornò a essere «Convivenza!» e l'italiano fu introdotto come seconda lingua nelle scuole slovene e croate. Poi, dopo il 1980 e la morte di Tito, il regime imboccò la deriva verso la dissoluzione; mentre in Occidente gli anni Ottanta furono una stagione di boom economico, oltre cortina si registrò una dura recessione. La fine della Jugoslavia rappresentò un ulteriore banco di prova per la nostra minoranza, tagliata dal nuovo confine sloveno-croato e pressata dal risorto nazionalismo di Franjo Tudman. Nel nuovo contesto gli italiani, rimasta in gran parte in Croazia, sostengono un partito regionalista istriano, naturalmente a maggioranza slava, però manca ancora un atto di riconciliazione, un racconto storico condiviso. Sempre che la nostra minoranza ceda ora a quell'assimilazione che ha combattuto per sessant'anni: «Oggi - conclude Radossi - abbiamo la doppia cittadinanza, italiana e croata. Un riconoscimento, ma anche un rischio: tanti giovani finiscono per trasferirsi. Per evitarlo dovremmo creare qua condizioni migliori: innescando con qualche incentivo un flusso migratorio di ritorno, sostenendo l'ingresso della Croazia nell'Unione europea, e puntando alle doppie cittadinanze. Noi lo diciamo, agli esuli: fatevi anche cittadini croati, così contate, valete un voto. Ma solo pochi hanno risposto all'appello».
«Avvenire» del 6 febbraio 2007

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