07 febbraio 2007

Ma alla fine ha vinto il '77

La «rivoluzione» non c'è stata, eppure i contestatori comunisti degli anni '70 hanno saputo imporre la loro visione del mondo dominata dalla fede cieca nell'organizzazione
di Davide Rondoni
L’okkupazione delle scuole ormai è prassi e in Italia la religione della «struttura» ha generato un’irresponsabilità diffusa. Con gli ideologi e gli assassini di ieri tornati con tutti gli onori al potere: nelle università, nei giornali, perfino in Parlamento
Entrarono in un gruppetto di otto, nove. Io ero matricola, o forse al secondo anno. Era il 1987. Dieci anni dopo gli scontri bolognesi tra il cosiddetto movimento studentesco e polizia. Io facevo parte di un movimento cattolico. Volantinavo con un mio compagno. Invitavamo ad una iniziativa culturale, una cosa letteraria. L'atrio era quello di via Zamboni 38, facoltà di Lettere e Filosofia, appunto. Dove arrivarono dieci anni prima i carri armati. Faccio appena in tempo a vedere il mio amico Paolo che con una mano alzata mi fa il segno di «telare», tagliar la corda. E mi ritrovo spinto addosso al muro da quel gruppetto che mi circonda. Iniziarono a menare, riuscii a divincolarmi, presi un pugno in faccia, due in pancia, però via, via, me ne scappai fuori dal portone. Il Settantasette mi arrivò in faccia e in pancia dieci anni dopo. Sapevo dagli amici più grandi che cosa era successo a Bologna dieci anni prima, proprio quando un'assemblea di giovani cattolici divenne il pretesto per lo scatenarsi di quelle violenze in cui rimase ucciso il povero Lorusso. Noi, venuti dieci anni dopo, vedevamo per così dire gli zombie aggirarsi ancora in zona universitaria. Vecchi protagonisti delle «lotte» di allora. Con il loro linguaggio sorpassato, gli slogan sempre quelli. Ma zombie, appunto. Pochi anni fa, chiesi a un protagonista di quegli anni, uno che poi ha scelto la lotta armata, coerente con l'ubriacatura rivoluzionaria e ideologica di allora, cosa salvava di quegli anni. Che so l'entusiasmo, le aspirazioni politiche… Ma lui mi disse: niente. Lui, che aveva finito per sparare e uccidere, che finì per diventare con tutta la sua vita una pura «funzione» della parte giusta che lottava e colpiva altre persone viste solo come «funzioni» della parte sbagliata, mi disse così: non salvo niente. Perché non c'è niente da salvare, come già aveva intuito Pasolini, nell'impeto con cui una generazio-ne spinta da certi leader culturali e politici si buttò a ricattare la realtà con l'utopi a, riducendo tutto a «funzione», a pedine di un gioco, a schema. E affidandosi solo al potere dell'organizzazione. Niente da salvare in una analisi che diventò violenza. Niente da salvare in quella fede cieca e totalitaria nell'organizzazione, nella realizzazione del paradiso di giustizia attraverso l'imposizione di una analisi, di una prassi e di un linguaggio. Qui sta il nodo culturale di un fallimento: la fede nell'organiz-zazione. Come se una buona ridistribuzione, come se un buon controllo, come se una buona regola bastasse a rendere giusta la vita e la convivenza. Come se l'uomo si realizzasse in una organizzazione fatta a sua misura. Ma fatta da chi, e a che misura? Erano, sono balle. Dimostrate dalla esperienza personale e collettiva. In ogni campo. Ma allora, il retaggio che si era nutrito delle illusioni sessantottarde e poi delle indignazioni anche giuste degli anni Settanta, e forse ancor prima si era nutrito di una frustrazione di generazioni precedenti che nel dopoguerra avevano lavorato e sodo per poter arrivare con la bandiera rossa al potere, finì per creare questa chiesa eretica allo stesso marxismo dei partiti, questa chiesa violenta del dio organizzazione. Come in un supremo paradosso, le azioni di disturbo, illegali quando non violente miravano a volere più organizzazione. Si distruggeva ciò che era organizzato per sostituirlo con altra organizzazione. Da allora molti sfasciavetrine invocano più diritti garantiti dalla legge, molti violenti okkupatori dicono di farlo per volere leggi più giuste. Quando molti ragazzi si accorsero del paradosso venne per molti un bianco di disperazione, un vuoto. Lo racconta bene Luigi Amicone in un libretto uscito da Rizzoli e che sarebbe da ristampare, Nel nome del niente. Dalla fede nell'utopia viene solo l'ansia dell'organizzazione. E più l'utopia è formidabile, alta, nobile (la giustizia, ora, ovunque) tanto più è ansiosa, febbrile, violenta la fede nell'organizzazione. A costo di spacciar per progresso ciò che è solo sfascio, a costo di non vedere di che poderosa e «capitalista» macchina della cultura si dotò il Pci e la sinistra proprio in quegli anni. Oppure, per stare ai termini di un dibattito sul Corsera del settembre '77 tra Fortini e Testori, persino a costo di veder mutare l'aspirazione giovanile alla felicità in rapida angoscia… Noi, dieci anni dopo, vedevamo quegli zombie. Noi ci incontravamo (e incontriamo) non per la presunzione di realizzare il paradiso a nostra immagine e somiglianza, ma per accompagnare noi stessi e i compagni di università ad affrontare i problemi e le scoperte dello studio e della vita studentesca. Come avviene in ogni dinamica non «utopista», a muoverci è una presenza positiva, e capace di costruzione. È il modello benedettino, opposto al modello gramsciano. È l'incontro con persone positive e attente, rese tali dalla fede cristiana, non da un'idea infallibile. Un pezzo per quanto piccolo di realtà già cambiata movimenta di più di un programma perfetto. Un fatto è più forte di qualsiasi idea, diceva Pavese. E questa presenza che non pretendeva nessuna egemonia ma solo di esistere ed esprimersi, diveniva da parte dei figliocci degli zombie ancora un bersaglio. I rituali a cui abbiamo assistito di «pantere» e via via mode di okkupazione sempre più light o addirittura, come si arriva a fare ora nei licei, istituzionalizzate hanno mantenuto tratti simili. La violenza è diminuita, o si è spostata, giustificandosi spesso in termini simili ad allora, come abbiamo visto di recente, dopo la morte di un poliziotto alla partita di Catania. Ma il modo di pensare si è perpetuato e diffuso. Loro, i settantasettini, dicono che hanno perso. Non è vero. Hanno vinto, non solo perché molti di loro hanno raggiunto posti di potere, e non solo perché molti che da lì hanno abbracciato la lotta armata, come Oreste Scalzone, si trovano - in punta di diritto ma in spregio alla pena delle vittime - a poter tornare da esili, e da carceri salire in cattedra, o in Parlamento. La vittoria è soprattutto perché la religione dell'organizzazione ha pervaso la cultura e la società. Producendo il suo mostruoso e furbesco figlio: un vasto senso di irresponsabilità. Loro hanno perso perché stiamo perdendo tutti. Proprio nel '77 Umberto Eco mandò in stampa un libro di cassetta dal titolo Come si fa una tesi di laurea. Elencando le tipologie di studente a cui si rivolge il suo manuale, al secondo posto tra le categorie presenti nell'«università di massa» indica: «Studenti che, delusi dalla università, hanno scelto l'attività politica e perseguono un altro tipo di formazione» ma che, bontà loro e dell'autore, prima o poi dovranno far la tesi. La figura dello studente «politico» era dunque ben prevista. L'università invece di essere luogo dove studiare i fenomeni, era il luogo prescelto per una formazione politica, di stampo utopista e organizzativista. Coi risultati di irresponsabilità che vediamo.
quel faccia a faccia tra Fortini e Testori
di Fulvio Panzeri
All'inizio dell'autunno del 1977 Giovanni Testori inizia sul «Corriere della Sera», una serie di articoli polemici e, per il clima arroventato di allora, in assoluta «controtendenza», in quando andavano a colpire soprattutto certi luoghi comuni della sinistra. L'articolo di avvio, «La cultura marxista non ha il suo latino», fece grande scandalo e diede luogo ad un dibattito, al quale parteciparono molti intellettuali italiani. Testori concludeva quel pezzo confrontandosi con un articolo di Franco Fortini, apparso qualche giorno prima, sempre sul «Corriere», sui giovani di allora. Affermava: «Giorni fa, proprio su queste colonne, Franco Fortini dolorosamente terminava un suo scritto parlando dell'"angoscia", in cui la gioventù è stata ricacciata. È verissimo, non vero. Ma Fortini dovrebbe forse fare un passo avanti e chiedersi se i colpevoli siano veramente e solo gli ingranaggi che una certa ideologia ha messo in moto e dai quali sta per essere schiacciata o non, invece, l'ideologia medesima; la sua palese incapacità a rispondere a tutto l'uomo; a tutta la vita; e, appunto, alla morte». Parole durissime per quei tempi là, dove l'ideologia diventava non solo forma di pensiero stereotipata, ma anche «status-symbol», che indirettamente vanno a toccare al cuore anche il problema della contestazione giovanile in piazza, più che raccontandola o discutendola, ragionandola nel tentativo di trarne un'urgenza etica. Testori non si lascia però sfuggire l'occasione offertagli da Fortini e di lì a qualche mese firma un altro articolo sul «Corriere» dedicato interamente al tema, intitolato «I padri traditori e i figli traditi», in cui fa riferimento ad un'inchiesta che mette in rilievo come la felicità sia la cosa più desiderata. Commenta «Come negar loro questa aspirazione? Ma perché non risulti velleitaria e suicida, come quella dei padri e dei fratelli maggiori, i giovani dovrebbero insegnare a se stessi che la felicità non cresce su se stessa, non cresce insomma sulla felicità».
«Avvenire» del 7 febbraio 2007

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