Intervista a Paolo Grillo
di Roberto I. Zanini
Prima fu Matilde di Canossa, poi Aldruda di Bertinoro. Il Medioevo delle donne passa attraverso queste due figure essenziali. La prima molto nota, in particolare per come da principessa e guerriera guidò la politica e condusse in battaglia le truppe papaline nel conflitto che le vide più volte contrapposte a Enrico IV nella seconda metà dell’XI secolo. Fatti che culminarono con l’umiliazione dell’imperatore davanti a Gregorio VII a Canossa nell’inverno del 1077. La seconda meno conosciuta, ma ugualmente di grande interesse per come cent’anni dopo portò in trionfo il suo ben più piccolo esercito contro le truppe di Barbarossa, che guidate dal vescovo di Magonza assediavano Ancona. E se si tratta di due italiane è perché all’epoca in Italia si avevano condizioni politiche tali da consentire alle donne di avere un ruolo sociale che non fosse di assoluto nascondimento e subalternità. E proprio dall’assedio di Ancona emergono altri episodi relativi al significativo ruolo del "sesso debole" nell’Italia dei Comuni. A raccontarceli è Paolo Grillo, docente di Storia medievale all’Università degli studi di Milano, in un suggestivo capitolo del suo Le guerre del Barbarossa. I comuni contro l’imperatore (Laterza, pagine 258, euro 20,00).
Perché un libro per raccontare i ben noti conflitti fra Barbarossa e i comuni italiani?
«Perché le campagne di Federico I in Italia non erano mai state raccontate nella loro globalità. Allo stesso tempo ho voluto assumere punti di vista diversi dai consueti osservando la guerra anche dalla parte dei semplici combattenti e delle vittime civili. E un punto di vista alternativo è proprio quello delle donne: cosa voleva dire per loro una guerra medievale?».
I cronisti dell’epoca non lo raccontano?
«Il fatto è proprio questo: c’è grande pudore nei cronisti medievali a parlare di donne e quando ne parlano sono donne che restano a casa, attendono i loro cavalieri, piangono i mariti. Anche il tema delle violenze dei vincitori non viene mai trattato, tranne una volta nell’assedio di Milano del 1158, ma solo perché l’episodio andò a finire bene, col vescovo di Praga che interviene per far liberare un gruppo di ragazze rapite dai cavalieri boemi. Eppure qua e là emergono riscontri che ci fanno pensare che nei comuni italiani dell’epoca le donne avessero un ruolo sociale esplicito anche in guerra, in particolare durante gli assedi. Il caso di Ancona è emblematico».
Accadeva solo nei comuni italiani?
«Sappiamo di un nobile cavaliere che nell’assedio di Tolosa a inizio ’200 venne ucciso da un sasso scagliato da una donna. Ma lo sappiamo proprio per l’eccezionalità dell’evento riguardante un nobile. In Italia, invece, la situazione è diversa. I comuni sono molto evoluti dal punto di vista sociale, economico e politico tanto da non riuscire a entrare in relazione (trattativa) con Barbarossa, che non riesce a capire come nelle città italiane ci possa essere tanta libertà. Non riesce ad accettare di dover trattare con rappresentanti che non siano dei nobili. I Comuni garantivano diritti civili a tutti. Anche alle donne, che pur non avendo diritti politici, avevano libertà di parola nelle assemblee, potevano lavorare, essere imprenditrici e gestire botteghe».
Ma se, come diceva prima, gli storici avevano pudore a raccontare di donne, cosa accade di diverso nell’assedio di Ancona tanto da esserci tramandato?
«Gli elementi fondamentali sono due. Il primo è che a parlarne non è un cronista di professione, ma Boncompagno di Signa: un letterato che non disdegna di raccontare la guerra partendo dai deboli e dalle cose di tutti i giorni. In questo modo, ed è il secondo elemento, il ruolo della popolazione femminile assediata non solo emerge a tutto tondo, ma da come è raccontato si capisce che si trattava di una cosa normale, al punto che Boncompagno contrappone i maschi pavidi con le femmine coraggiose».
Donne che impugnano le armi e scendono in battaglia?
«C’è molto di più. Ancona è assediata dalle truppe imperiali di Cristiano di Magonza e da un blocco navale comandato da Venezia, che in questo modo intendeva punire la città per la sua alleanza con la Bisanzio di Manuele Commeno. Dopo settimane in questa situazione e un paio di battaglie campali senza esito, la scarsezza di viveri fiacca la resistenza degli uomini che in riunione cominciano a parlare di resa. Entrano allora in campo le donne che in una parallela assemblea decidono di sollecitare gli uomini a proseguire la resistenza giungendo a offrire la loro carne per cibo. Boncompagno racconta episodi eroici di donne che combattono in appoggio ai balestrieri sulle mura continuando ad allattare. C’è il caso di Stamira che armata di mannaia (strumento da macellai che veniva usato in battaglia per uccidere i cavalli) si fa largo fra le truppe tedesche e riesce a dare fuoco a un barile incendiario distruggendo le loro macchina da guerra».
E poi c’è Aldruda ...
«Forzando il blocco navale una delegazione anconetana riesce a raggiungere la foce del Po per cercare aiuto a Ferrara. Lo trovano in Guglielmo Marchesella e poi nella contessa Aldruda di Bertinoro che ha stretti legami di parentela con Bisanzio. Le due colonne armate si riuniscono a Rimini, marciano su Ancona e si accampano su una collina nei pressi della città. Il racconto di Boncompagno esalta il ruolo di Aldruda che nella notte incita i suoi soldati al combattimento sottolineando la triste sorte delle donne se la città fosse caduta in mano agli imperiali. Tali sono le urla di entusiasmo e il frastuono di trombe che nella notte gli assedianti abbandonano il campo. Alla mattina salpano anche le navi veneziane. Non c’è bisogno di venire a battaglia. E Aldruda diventa un eroe anche per i cronisti bizantini che sottolineano come l’esercito dell’imperatore sia stato messo in fuga da una donna».
Ma non c’erano regole per impedire agli eserciti di rifarsi sui civili?
«In teoria tutti i non combattenti non dovevano essere coinvolti. Era una sorta di codice d’onore, ma non c’erano norme che punissero i soldati che violentavano e saccheggiavano. C’era però una regola non scritta che all’epoca viene quasi sempre rispettata in base alla quale la città che si arrendeva veniva risparmiata. E i comuni italiani obbligano spesso Federico ad accettare la resa salvando popolo e città».
Perché un libro per raccontare i ben noti conflitti fra Barbarossa e i comuni italiani?
«Perché le campagne di Federico I in Italia non erano mai state raccontate nella loro globalità. Allo stesso tempo ho voluto assumere punti di vista diversi dai consueti osservando la guerra anche dalla parte dei semplici combattenti e delle vittime civili. E un punto di vista alternativo è proprio quello delle donne: cosa voleva dire per loro una guerra medievale?».
I cronisti dell’epoca non lo raccontano?
«Il fatto è proprio questo: c’è grande pudore nei cronisti medievali a parlare di donne e quando ne parlano sono donne che restano a casa, attendono i loro cavalieri, piangono i mariti. Anche il tema delle violenze dei vincitori non viene mai trattato, tranne una volta nell’assedio di Milano del 1158, ma solo perché l’episodio andò a finire bene, col vescovo di Praga che interviene per far liberare un gruppo di ragazze rapite dai cavalieri boemi. Eppure qua e là emergono riscontri che ci fanno pensare che nei comuni italiani dell’epoca le donne avessero un ruolo sociale esplicito anche in guerra, in particolare durante gli assedi. Il caso di Ancona è emblematico».
Accadeva solo nei comuni italiani?
«Sappiamo di un nobile cavaliere che nell’assedio di Tolosa a inizio ’200 venne ucciso da un sasso scagliato da una donna. Ma lo sappiamo proprio per l’eccezionalità dell’evento riguardante un nobile. In Italia, invece, la situazione è diversa. I comuni sono molto evoluti dal punto di vista sociale, economico e politico tanto da non riuscire a entrare in relazione (trattativa) con Barbarossa, che non riesce a capire come nelle città italiane ci possa essere tanta libertà. Non riesce ad accettare di dover trattare con rappresentanti che non siano dei nobili. I Comuni garantivano diritti civili a tutti. Anche alle donne, che pur non avendo diritti politici, avevano libertà di parola nelle assemblee, potevano lavorare, essere imprenditrici e gestire botteghe».
Ma se, come diceva prima, gli storici avevano pudore a raccontare di donne, cosa accade di diverso nell’assedio di Ancona tanto da esserci tramandato?
«Gli elementi fondamentali sono due. Il primo è che a parlarne non è un cronista di professione, ma Boncompagno di Signa: un letterato che non disdegna di raccontare la guerra partendo dai deboli e dalle cose di tutti i giorni. In questo modo, ed è il secondo elemento, il ruolo della popolazione femminile assediata non solo emerge a tutto tondo, ma da come è raccontato si capisce che si trattava di una cosa normale, al punto che Boncompagno contrappone i maschi pavidi con le femmine coraggiose».
Donne che impugnano le armi e scendono in battaglia?
«C’è molto di più. Ancona è assediata dalle truppe imperiali di Cristiano di Magonza e da un blocco navale comandato da Venezia, che in questo modo intendeva punire la città per la sua alleanza con la Bisanzio di Manuele Commeno. Dopo settimane in questa situazione e un paio di battaglie campali senza esito, la scarsezza di viveri fiacca la resistenza degli uomini che in riunione cominciano a parlare di resa. Entrano allora in campo le donne che in una parallela assemblea decidono di sollecitare gli uomini a proseguire la resistenza giungendo a offrire la loro carne per cibo. Boncompagno racconta episodi eroici di donne che combattono in appoggio ai balestrieri sulle mura continuando ad allattare. C’è il caso di Stamira che armata di mannaia (strumento da macellai che veniva usato in battaglia per uccidere i cavalli) si fa largo fra le truppe tedesche e riesce a dare fuoco a un barile incendiario distruggendo le loro macchina da guerra».
E poi c’è Aldruda ...
«Forzando il blocco navale una delegazione anconetana riesce a raggiungere la foce del Po per cercare aiuto a Ferrara. Lo trovano in Guglielmo Marchesella e poi nella contessa Aldruda di Bertinoro che ha stretti legami di parentela con Bisanzio. Le due colonne armate si riuniscono a Rimini, marciano su Ancona e si accampano su una collina nei pressi della città. Il racconto di Boncompagno esalta il ruolo di Aldruda che nella notte incita i suoi soldati al combattimento sottolineando la triste sorte delle donne se la città fosse caduta in mano agli imperiali. Tali sono le urla di entusiasmo e il frastuono di trombe che nella notte gli assedianti abbandonano il campo. Alla mattina salpano anche le navi veneziane. Non c’è bisogno di venire a battaglia. E Aldruda diventa un eroe anche per i cronisti bizantini che sottolineano come l’esercito dell’imperatore sia stato messo in fuga da una donna».
Ma non c’erano regole per impedire agli eserciti di rifarsi sui civili?
«In teoria tutti i non combattenti non dovevano essere coinvolti. Era una sorta di codice d’onore, ma non c’erano norme che punissero i soldati che violentavano e saccheggiavano. C’era però una regola non scritta che all’epoca viene quasi sempre rispettata in base alla quale la città che si arrendeva veniva risparmiata. E i comuni italiani obbligano spesso Federico ad accettare la resa salvando popolo e città».
«Avvenire» del 19 luglio 2014
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