Beni culturali
di Alessandro Zaccuri
Il prezzo del biglietto, la gratuità che va e viene, gli orari di apertura. E se il vero problema dei musei fosse di essere troppo “museali”? «Bisogna investire sulla vitalità dei musei, farli essere luoghi attraenti, combinando competenza, comunicazione e formazione permanente», rilancia Francesco Tedeschi, docente di Storia dell’arte contemporanea all’Università Cattolica, incaricato negli anni scorsi di catalogare la collezione di Intesa Sanpaolo e di selezionare le opere per la sezione dedicata al Novecento nelle Gallerie d’Italia di piazza della Scala a Milano. «Che non vuole essere un museo in senso tradizionale – spiega – ma un percorso espositivo aperto a variazioni». Un successo, anche perché alle Gallerie d’Italia si entra gratis. «Non si tratta solo di questo – obietta Tedeschi –. La collezione è di richiamo, il luogo ha un forte fascino, ma credo che porti risultati anche l’attenzione dedicata all’accoglienza. Dalle visite guidate ai supporti multimediali, dalla presenza di personale qualificato in ciascuna sala ai laboratori: tutto serve per dare maggior leggibilità e vivacità al patrimonio della cultura visiva contemporanea. Il biglietto a pagamento, del resto, non è l’unico modo per indurre il visitatore a riconoscere l’importanza dell’arte».
In che senso?
«Pensiamo a importanti musei, come la National Gallery di Londra, dove non si paga per entrare, ma è normale che i visitatori lascino un contributo. È un flusso dal basso, che va a unirsi a quello dei grandi investitori istituzionali. Ed è l’indicatore di un grado di civiltà: nel momento in cui il patrimonio artistico è percepito come valore comune, tutti contribuiscono in modo spontaneo alla sua conservazione e valorizzazione, riconoscendo il costo del servizio».
Su questo dovrebbe investire l’Italia?
«Non solo in termini finanziari, ma di energie e tempo. Si tratta di un percorso che riguarda in prima istanza la scuola, in ogni suo ordine e grado, dove la storia dell’arte dovrebbe essere disciplina fondamentale, per formare la coscienza dei valori culturali, ma è un processo che non si esaurisce nella scuola. Vanno pensati progetti di formazione e autoformazione costanti, che le persone possono coltivare anche in età matura. A questo proposito, anche la frequentazione dei musei da parte di chi ha più di 65 anni non deve essere pensata solo in una logica di svago o di intrattenimento. Negli anziani c’è un desiderio di arricchimento personale al quale occorre andare incontro».
E le famiglie?
«Rappresentano uno snodo essenziale. Se guardiamo alle esperienze straniere, vediamo che i musei investono sulle famiglie, con progetti di formazione articolati e complessi. Molti musei francesi, per esempio, dispongono nei loro siti internet di sezioni rivolte direttamente ai bambini, in modo da creare attraverso il gioco una prima possibilità di avvicinamento. L’obiettivo è comunque quello di formare gli adulti insieme con i giovani, permettendo così agli adulti di partecipare, a loro volta, ai processi educativi. Un modello che in Italia è stato fatto proprio, tra l’altro, dal Mart di Rovereto, ma che ha bisogno di diffondersi di più. Il principio per cui il patrimonio culturale e artistico è di tutti e, in quanto tale, richiede di essere valorizzato anche sul piano economico rimane sacrosanto, spesso però rischia di rimanere una formula vuota».
Perché il nostro patrimonio è troppo vasto, si dice, troppo difficile da gestire ...
«Il punto vitale è forse proprio questo. In Italia sussistono le condizioni ideali per cui l’antico possa dare profondità al contemporaneo e, di rimando, il contemporaneo faccia cogliere la vitalità dell’antico. Nulla è mai chiuso in una categoria finita. Le testimonianze del passato vivono nel presente. Il museo rappresenta o può rappresentare il “presente del passato”: con lo scorrere del tempo la nostra percezione delle opere che ci hanno preceduto cambia, e questo cambiamento ci obbliga ad aggiornarci. In questo senso il museo non può più permettersi di essere “museale” e gli storici dell’arte hanno un compito e una responsabilità per trasmettere una materia viva».
Sì, ma con quali ricadute pratiche?
«La svolta, a mio parere, si è consumata già nel 1993, quando la legge Ronchey ha sancito l’apertura dei musei pubblici all’apporto dei privati. Quel provvedimento non ha soltanto creato le premesse di un nuovo mecenatismo, ma ha contribuito a creare una mentalità più dinamica. Una quota considerevole del nostro patrimonio artistico è rappresentata dalle collezioni di privati, i quali, però, sono sempre più desiderosi di condividere le loro opere, magari trovando per esse un’adeguata collocazione espositiva in strutture pubbliche. Un fenomeno già assai diffuso da tempo in molti paesi e che di recente sta prendendo piede anche da noi, specie nel settore dell’arte contemporanea».
La diffidenza verso i privati è ingiustificata, dunque?
«I veri problemi sono semmai altri. Ne segnalo uno, spesso sottovalutato. Nell’attuale riduzione di risorse sta diventando sempre più difficile allestire mostre importanti, retrospettive o tematiche, che siano anche occasione di ricerca per gli studiosi, offrendo spazi di documentazione e revisione critica. Oggi si preferiscono gli eventi di richiamo, non di rado deludenti dal punto di vista della qualità. Si punta sulla singola opera, sul singolo artista, spesso addirittura sulla suggestione evocata da un nome. Tutto questo non educa il pubblico, sottrae risorse e, purtroppo, finisce per mettere in ombra i musei».
In che senso?
«Pensiamo a importanti musei, come la National Gallery di Londra, dove non si paga per entrare, ma è normale che i visitatori lascino un contributo. È un flusso dal basso, che va a unirsi a quello dei grandi investitori istituzionali. Ed è l’indicatore di un grado di civiltà: nel momento in cui il patrimonio artistico è percepito come valore comune, tutti contribuiscono in modo spontaneo alla sua conservazione e valorizzazione, riconoscendo il costo del servizio».
Su questo dovrebbe investire l’Italia?
«Non solo in termini finanziari, ma di energie e tempo. Si tratta di un percorso che riguarda in prima istanza la scuola, in ogni suo ordine e grado, dove la storia dell’arte dovrebbe essere disciplina fondamentale, per formare la coscienza dei valori culturali, ma è un processo che non si esaurisce nella scuola. Vanno pensati progetti di formazione e autoformazione costanti, che le persone possono coltivare anche in età matura. A questo proposito, anche la frequentazione dei musei da parte di chi ha più di 65 anni non deve essere pensata solo in una logica di svago o di intrattenimento. Negli anziani c’è un desiderio di arricchimento personale al quale occorre andare incontro».
E le famiglie?
«Rappresentano uno snodo essenziale. Se guardiamo alle esperienze straniere, vediamo che i musei investono sulle famiglie, con progetti di formazione articolati e complessi. Molti musei francesi, per esempio, dispongono nei loro siti internet di sezioni rivolte direttamente ai bambini, in modo da creare attraverso il gioco una prima possibilità di avvicinamento. L’obiettivo è comunque quello di formare gli adulti insieme con i giovani, permettendo così agli adulti di partecipare, a loro volta, ai processi educativi. Un modello che in Italia è stato fatto proprio, tra l’altro, dal Mart di Rovereto, ma che ha bisogno di diffondersi di più. Il principio per cui il patrimonio culturale e artistico è di tutti e, in quanto tale, richiede di essere valorizzato anche sul piano economico rimane sacrosanto, spesso però rischia di rimanere una formula vuota».
Perché il nostro patrimonio è troppo vasto, si dice, troppo difficile da gestire ...
«Il punto vitale è forse proprio questo. In Italia sussistono le condizioni ideali per cui l’antico possa dare profondità al contemporaneo e, di rimando, il contemporaneo faccia cogliere la vitalità dell’antico. Nulla è mai chiuso in una categoria finita. Le testimonianze del passato vivono nel presente. Il museo rappresenta o può rappresentare il “presente del passato”: con lo scorrere del tempo la nostra percezione delle opere che ci hanno preceduto cambia, e questo cambiamento ci obbliga ad aggiornarci. In questo senso il museo non può più permettersi di essere “museale” e gli storici dell’arte hanno un compito e una responsabilità per trasmettere una materia viva».
Sì, ma con quali ricadute pratiche?
«La svolta, a mio parere, si è consumata già nel 1993, quando la legge Ronchey ha sancito l’apertura dei musei pubblici all’apporto dei privati. Quel provvedimento non ha soltanto creato le premesse di un nuovo mecenatismo, ma ha contribuito a creare una mentalità più dinamica. Una quota considerevole del nostro patrimonio artistico è rappresentata dalle collezioni di privati, i quali, però, sono sempre più desiderosi di condividere le loro opere, magari trovando per esse un’adeguata collocazione espositiva in strutture pubbliche. Un fenomeno già assai diffuso da tempo in molti paesi e che di recente sta prendendo piede anche da noi, specie nel settore dell’arte contemporanea».
La diffidenza verso i privati è ingiustificata, dunque?
«I veri problemi sono semmai altri. Ne segnalo uno, spesso sottovalutato. Nell’attuale riduzione di risorse sta diventando sempre più difficile allestire mostre importanti, retrospettive o tematiche, che siano anche occasione di ricerca per gli studiosi, offrendo spazi di documentazione e revisione critica. Oggi si preferiscono gli eventi di richiamo, non di rado deludenti dal punto di vista della qualità. Si punta sulla singola opera, sul singolo artista, spesso addirittura sulla suggestione evocata da un nome. Tutto questo non educa il pubblico, sottrae risorse e, purtroppo, finisce per mettere in ombra i musei».
«Avvenire» del 7 luglio 2014
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