di Giuseppe Dalla Torre
I promotori del referendum abrogativo della legge divorzista, nel 1974, lo avevano detto e ripetuto, ma rimasero inascoltati. Ora è sotto gli occhi di tutti la crescente diffusione del divorzio e la banalizzazione di una pratica che, all’origine, si pretendeva come del tutto eccezionale: per i cosiddetti “casi pietosi”.
Si tratta di un fenomeno che non si arresta, anzi. Prova ne sia l’iter parlamentare della proposta sul cosiddetto “divorzio breve”, all’esame della Commissione Giustizia della Camera, che riduce a dodici mesi il periodo di separazione necessario per poter proporre domanda di divorzio, ridotto ulteriormente a nove mesi nel caso di separazione consensuale in assenza di figli minori.
Addirittura si affaccia, da autorevoli sponde governative, il programma di sottrarre ai giudici i procedimenti di separazione e di divorzio di natura consensuale, sicché, in assenza di figli minori o portatori di handicap (ma solo se “gravi”), lo scioglimento del matrimonio potrebbe essere disposto direttamente dagli avvocati delle parti attraverso una sorta di “accordo conciliativo”. Tutto ciò al fine di evitare il giudizio e di giungere rapidamente alla soluzione.
A guardare con gli occhi della storia, l’Italia repubblicana è riuscita là dove il legislatore liberale laicista ed anticlericale, tra Ottocento e Novecento, non solo non era andato, ma addirittura non era voluto andare. In effetti dopo la codificazione del 1865, che aveva introdotto il matrimonio civile nel nostro ordinamento e lo aveva imposto come obbligatorio a tutti coloro che intendessero sposare, vi furono alcune iniziative tese a introdurre il divorzio; del resto il modello del matrimonio civile, desunto dalla Francia rivoluzionaria prima e napoleonica poi, conteneva in sé la possibilità dello scioglimento.
Le ragioni per cui il legislatore liberale non accondiscese al divorzio non furono di carattere religioso; in particolare non furono legate alla natura sacramentale propria del matrimonio tra battezzati e al precetto evangelico per cui l’uomo non deve separare ciò che Dio ha unito. Furono, al contrario, ragioni rigorosamente legate a una razionalità e a una etica laiche: la prima andava a sottolineare la struttura profonda e fondamentale del matrimonio come rapporto stabile e solidale tra un uomo e una donna il quale, in una complementarietà che giunge fino all’integrazione più intima, è aperto alla procreazione; la seconda guardava al matrimonio come forma di eticità naturale, considerandolo non come mero contratto, disponibile dalle parti contraenti, ma come prodotto della loro volontà di dar vita a un rapporto giuridico trascendente le persone degli sposi e da queste indisponibile. Non a caso nella relazione al Senato del Regno sul progetto di codice civile, il ministro di Grazia e Giustizia e dei Culti del tempo, Giuseppe Pisanelli, affermava tra l’altro che «più che un contratto, il matrimonio è un’alta istituzione sociale, che cade sotto le prescrizioni dello Stato».
In sostanza il legislatore italiano allora, e per lungo tempo, ebbe chiaro che il matrimonio non è un fatto solo personale, come non è neppure un fatto meramente privato. Non è un fatto solo personale, perché coinvolge necessariamente altri soggetti (il coniuge, i figli, ma anche i membri della famiglia allargata), creando affidamenti, aspettative, attese, speranze, che il diritto è chiamato a garantire: con certezza, sempre, ovunque. Ma non è neppure un fatto meramente privato, perché la famiglia che da esso trae origine ha funzioni educative, sociali, assistenziali, in generale solidaristiche, che hanno una innegabile rilevanza pubblica. Non a caso qualora la famiglia manchi, o qualora sia incapace ad esercitare le funzioni sue proprie, è la società che deve farsene carico.
Dunque quello che, ai tempi dell’introduzione della legge sul divorzio prima e del referendum poi, venne definito come il solito deprecabile ritardo dell’Italia rispetto ad altri Paesi, era invece il frutto di scelte chiare e ponderate del legislatore liberale; scelte che certamente finivano per essere solidali con le sensibilità del mondo cattolico. Il sopraggiungere del Concordato lateranense prima e della Costituzione repubblicana poi, col suo forte impianto giusnaturalistico che vede nella famiglia una società naturale fondata sul matrimonio (art. 29), furono ragioni ulteriori che contribuirono a mantenere l’Italia nella felice condizione di un’isola non toccata da processi culturali, di costume e legislativi di altri Paesi.
Nel 1970 la legge sul divorzio, confermata poi dal referendum del 1974, venne a mutare profondamente la situazione. Sugli effetti di quella svolta normativa si potrebbero dire molte cose, tanto furono numerosi e incisivi. Dal punto di vista giuridico quella legge segna, tra l’altro, l’inizio di un processo che con diverse tappe si prolunga sino a noi, con una profonda incidenza sulla cultura e sul modo di percepire le realtà di matrimonio e famiglia, di procreazione, di solidarietà familiare, fino a quella della identità maschile e femminile. Del resto è ben nota ai sociologi e ai giuristi la funzione pedagogica della legge, che col permettere o col proibire induce il consolidarsi di raffigurazioni dei rapporti e di modelli di comportamento. Sicché è da chiedersi, ad esempio, quanti siano oggi coloro che sposano non solo con la volontà di un matrimonio indissolubile, ma prima ancora con la consapevolezza che l’indissolubilità è una proprietà intrinseca del matrimonio come istituto naturale.
A ben vedere dall’introduzione del divorzio è iniziata una erosione del matrimonio inteso come istituto di rilevanza pubblica; come istituto che, almeno potenzialmente, interessa tutta la società. Il matrimonio è stato retrocesso sempre più alla stregua di un mero contratto privato: come tale a contenuto aperto, modificabile dalla volontà delle parti anche nei suoi elementi fondativi e caratterizzanti, legato al permanere o meno di utilità personali, e conseguentemente recessibile per mutuo consenso o in via unilaterale. Addirittura un contratto assai meno garantito di altri: si pensi solo ai doveri nascenti per i coniugi e tuttora sanciti dall’art. 143 del codice civile, vale a dire la fedeltà, l’assistenza morale e materiale, la collaborazione nell’interesse della famiglia, la coabitazione; nella pratica, infatti, tali doveri risultano sostanzialmente sguarniti di ogni efficace garanzia, sicché il rispetto del loro adempimento rimane in molta parte rimesso alla buona volontà degli sposi.
Al di là di ogni buona intenzione, l’effetto di tutto è, tra l’altro, un affievolimento delle relazioni di solidarietà, un illanguidimento delle reti sociali e, in ultima analisi, un indebolimento dell’individuo, rimasto sempre più solo. Si apre una sfida enorme per l’uomo e la società di domani; una sfida in cui la Chiesa e l’intera comunità ecclesiale possono avere un ruolo di eccezionale rilevanza nel mostrare e testimoniare, prima ancora della sacramentalità, la fisionomia propria dell’istituto sul piano naturale, e nel provocare la nostalgia per il fascino della sua bellezza.
Si tratta di un fenomeno che non si arresta, anzi. Prova ne sia l’iter parlamentare della proposta sul cosiddetto “divorzio breve”, all’esame della Commissione Giustizia della Camera, che riduce a dodici mesi il periodo di separazione necessario per poter proporre domanda di divorzio, ridotto ulteriormente a nove mesi nel caso di separazione consensuale in assenza di figli minori.
Addirittura si affaccia, da autorevoli sponde governative, il programma di sottrarre ai giudici i procedimenti di separazione e di divorzio di natura consensuale, sicché, in assenza di figli minori o portatori di handicap (ma solo se “gravi”), lo scioglimento del matrimonio potrebbe essere disposto direttamente dagli avvocati delle parti attraverso una sorta di “accordo conciliativo”. Tutto ciò al fine di evitare il giudizio e di giungere rapidamente alla soluzione.
A guardare con gli occhi della storia, l’Italia repubblicana è riuscita là dove il legislatore liberale laicista ed anticlericale, tra Ottocento e Novecento, non solo non era andato, ma addirittura non era voluto andare. In effetti dopo la codificazione del 1865, che aveva introdotto il matrimonio civile nel nostro ordinamento e lo aveva imposto come obbligatorio a tutti coloro che intendessero sposare, vi furono alcune iniziative tese a introdurre il divorzio; del resto il modello del matrimonio civile, desunto dalla Francia rivoluzionaria prima e napoleonica poi, conteneva in sé la possibilità dello scioglimento.
Le ragioni per cui il legislatore liberale non accondiscese al divorzio non furono di carattere religioso; in particolare non furono legate alla natura sacramentale propria del matrimonio tra battezzati e al precetto evangelico per cui l’uomo non deve separare ciò che Dio ha unito. Furono, al contrario, ragioni rigorosamente legate a una razionalità e a una etica laiche: la prima andava a sottolineare la struttura profonda e fondamentale del matrimonio come rapporto stabile e solidale tra un uomo e una donna il quale, in una complementarietà che giunge fino all’integrazione più intima, è aperto alla procreazione; la seconda guardava al matrimonio come forma di eticità naturale, considerandolo non come mero contratto, disponibile dalle parti contraenti, ma come prodotto della loro volontà di dar vita a un rapporto giuridico trascendente le persone degli sposi e da queste indisponibile. Non a caso nella relazione al Senato del Regno sul progetto di codice civile, il ministro di Grazia e Giustizia e dei Culti del tempo, Giuseppe Pisanelli, affermava tra l’altro che «più che un contratto, il matrimonio è un’alta istituzione sociale, che cade sotto le prescrizioni dello Stato».
In sostanza il legislatore italiano allora, e per lungo tempo, ebbe chiaro che il matrimonio non è un fatto solo personale, come non è neppure un fatto meramente privato. Non è un fatto solo personale, perché coinvolge necessariamente altri soggetti (il coniuge, i figli, ma anche i membri della famiglia allargata), creando affidamenti, aspettative, attese, speranze, che il diritto è chiamato a garantire: con certezza, sempre, ovunque. Ma non è neppure un fatto meramente privato, perché la famiglia che da esso trae origine ha funzioni educative, sociali, assistenziali, in generale solidaristiche, che hanno una innegabile rilevanza pubblica. Non a caso qualora la famiglia manchi, o qualora sia incapace ad esercitare le funzioni sue proprie, è la società che deve farsene carico.
Dunque quello che, ai tempi dell’introduzione della legge sul divorzio prima e del referendum poi, venne definito come il solito deprecabile ritardo dell’Italia rispetto ad altri Paesi, era invece il frutto di scelte chiare e ponderate del legislatore liberale; scelte che certamente finivano per essere solidali con le sensibilità del mondo cattolico. Il sopraggiungere del Concordato lateranense prima e della Costituzione repubblicana poi, col suo forte impianto giusnaturalistico che vede nella famiglia una società naturale fondata sul matrimonio (art. 29), furono ragioni ulteriori che contribuirono a mantenere l’Italia nella felice condizione di un’isola non toccata da processi culturali, di costume e legislativi di altri Paesi.
Nel 1970 la legge sul divorzio, confermata poi dal referendum del 1974, venne a mutare profondamente la situazione. Sugli effetti di quella svolta normativa si potrebbero dire molte cose, tanto furono numerosi e incisivi. Dal punto di vista giuridico quella legge segna, tra l’altro, l’inizio di un processo che con diverse tappe si prolunga sino a noi, con una profonda incidenza sulla cultura e sul modo di percepire le realtà di matrimonio e famiglia, di procreazione, di solidarietà familiare, fino a quella della identità maschile e femminile. Del resto è ben nota ai sociologi e ai giuristi la funzione pedagogica della legge, che col permettere o col proibire induce il consolidarsi di raffigurazioni dei rapporti e di modelli di comportamento. Sicché è da chiedersi, ad esempio, quanti siano oggi coloro che sposano non solo con la volontà di un matrimonio indissolubile, ma prima ancora con la consapevolezza che l’indissolubilità è una proprietà intrinseca del matrimonio come istituto naturale.
A ben vedere dall’introduzione del divorzio è iniziata una erosione del matrimonio inteso come istituto di rilevanza pubblica; come istituto che, almeno potenzialmente, interessa tutta la società. Il matrimonio è stato retrocesso sempre più alla stregua di un mero contratto privato: come tale a contenuto aperto, modificabile dalla volontà delle parti anche nei suoi elementi fondativi e caratterizzanti, legato al permanere o meno di utilità personali, e conseguentemente recessibile per mutuo consenso o in via unilaterale. Addirittura un contratto assai meno garantito di altri: si pensi solo ai doveri nascenti per i coniugi e tuttora sanciti dall’art. 143 del codice civile, vale a dire la fedeltà, l’assistenza morale e materiale, la collaborazione nell’interesse della famiglia, la coabitazione; nella pratica, infatti, tali doveri risultano sostanzialmente sguarniti di ogni efficace garanzia, sicché il rispetto del loro adempimento rimane in molta parte rimesso alla buona volontà degli sposi.
Al di là di ogni buona intenzione, l’effetto di tutto è, tra l’altro, un affievolimento delle relazioni di solidarietà, un illanguidimento delle reti sociali e, in ultima analisi, un indebolimento dell’individuo, rimasto sempre più solo. Si apre una sfida enorme per l’uomo e la società di domani; una sfida in cui la Chiesa e l’intera comunità ecclesiale possono avere un ruolo di eccezionale rilevanza nel mostrare e testimoniare, prima ancora della sacramentalità, la fisionomia propria dell’istituto sul piano naturale, e nel provocare la nostalgia per il fascino della sua bellezza.
«Avvenire» del 3 giugno 2014
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