Scuola e futuro/1
di Roberto Carnero
La scuola sta attraversando grandi cambiamenti, legati alla penetrazione delle nuove tecnologie e al diverso approccio al sapere da parte della generazione dei cosiddetti 'nativi digitali'. Di fronte a questo radicale mutamento troviamo, tra gli addetti ai lavori (insegnati, presidi, ma anche pedagogisti, psicologi, sociologi), diversi gradi di reazione: gli entusiasti, gli indifferenti, gli scettici, i contrari, gli oppositori. L’atteggiamento più corretto dovrebbe però rifuggire dagli estremi, valutando in maniera concreta e non ideologica i pro e i contro delle diverse innovazioni nella didattica quotidiana. Evitando di essere 'apocalittici' oppure 'integrati' per partito preso. Diamo oggi inizio a una serie di interviste ad alcuni esperti che affronteranno i diversi aspetti della questione, indagando le 'rivoluzioni' più significative attualmente in atto nel mondo della scuola.
Non si è divertito molto, Giulio Ferroni, quando all’ultimo Salone del Libro di Torino hanno provato a coinvolgerlo in 'Twitteratura', un’iniziativa che propone di riassumere in 140 caratteri i grandi classici. L’idea era quella di avvicinare i ragazzi al patrimonio letterario sollecitandoli attraverso l’uso di un social-network, Twitter appunto, da molti di loro abitualmente frequentato. Apparentemente un’idea innocente, un gioco per attrarre adolescenti renitenti alla lettura. Eppure Ferroni, uno dei più importanti storici della letteratura italiana, ci vede dell’altro. «Sia chiaro», mette le mani avanti, «lungi da me qualsiasi censura aprioristica nei confronti delle novità tecnologiche». Anche perché, a 70 anni compiuti e da poco uscito dall’Università (La Sapienza di Roma, dove ha insegnato per decenni), ha trascorso l’intera vita professionale provando ad avvicinare generazioni di studenti ai libri, «e figuriamoci se sono contrario a nuovi
strumenti per farlo», aggiunge.
E allora, professore, che cosa la preoccupa?
«Il fatto che anche noi adulti troppo spesso crediamo di fare il bene dei ragazzi andando loro incontro sul piano di ciò che riteniamo essi vogliano: in questo caso il gioco, il disimpegno, la superficialità. Ma siamo davvero sicuri che queste siano le richieste dei giovani? Personalmente non lo credo proprio. E poi c’è il rischio di privare i ragazzi del senso vero e più profondo della letteratura».
Qual è questo senso autentico?
«La possibilità di cimentarsi con la profondità, la riflessione, la complessità delle opere. Qui si rischia di banalizzare tutto. Qualcuno a Torino diceva: ecco, così finalmente i ragazzi leggono. Ma in realtà è esattamente il contrario. Questa iniziativa veniva presentata come un grande progetto educativo e progressista. Un ragazzo, applauditissimo, aveva riassunto I promessi sposi paragonando don Abbondio, che si rifiuta di celebrare il matrimonio tra Renzo e Lucia, a coloro che oggi sono contrari alle unioni gay. Va da sé le due cose non c’entrano nulla».
Il problema è la tecnologia?
«No, direi piuttosto l’uso che se ne fa. A scuola e all’università gli strumenti informatici possono essere utilissimi e fare cose fantastiche. Ad esempio per proporre prove di verifica, per svolgere una ricerca lessicale o per fare un’analisi del testo sono molto efficaci. Però prima i testi vanno letti e le informazioni devono essere assimilate. E l’atto di lettura richiede pazienza e lentezza, l’esatto contrario della simultaneità e della velocità su cui si basano i new media. Vedo il rischio di uno sfaldamento della memoria, intesa non in senso nozionistico, ma come patrimonio vitale».
Libro cartaceo o libro elettronico?
«Il libro digitale va benissimo come archivio, ad esempio quando viaggi e ti servono per consultazione molti volumi, oppure per una lettura disimpegnata. Ma lo studio vero e proprio credo si realizzi meglio sui libri tradizionali. Non è un caso che, sebbene da alcuni anni il legislatore abbia previsto la possibilità dei libri di testo elettronici, siano ancora un’esigua minoranza i docenti che li adottano. E non è soltanto una questione di mancanza dei supporti, cioè dell’hardware. Anche i ragazzi e le loro famiglie capiscono che il libro di carta ha una maggiore consistenza formativa ed educativa».
Ci sono dei valori della cultura umanistica che rischiano di essere travolti dall’ondata digitale?
«Se penso alla letteratura, vedo sempre più diffusa la tendenza a rifiutare di misurarsi con l’orizzonte problematico delle opere, con il piano esistenziale, storico, stilistico, riducendo la lettura a una sorta di passatempo o di gioco di società. Ma la letteratura possiede una potenzialità conoscitiva ben più seria e importante. C’è poi la dimensione storica della cultura, oggi spesso assente presso una generazione di adolescenti tutta appiattita sul presente. C’è bisogno di capire che il passato era diverso dal presente, che ogni momento culturale ha caratteri propri e peculiari».
Davvero è tutta colpa dei new media?
«Questa situazione esiste già da tempo, ma mi sembra venire amplificata proprio dalla diffusione degli mezzi digitali, soprattutto presso i giovani. Sono mezzi che, nonostante l’apparente interattività, spesso favoriscono una fruizione passiva. Invece la letteratura favorisce lo sviluppo del senso critico. Ma la disposizione critica e la mentalità scientifica non possono non appoggiarsi sulle pause mentali e sul silenzio. In Internet, però, di silenzio ce n’è molto poco».
Che cosa bisognerebbe fare?
«Educare all’uso consapevole e intelligente dei mezzi che la tecnologia ci ha messo a disposizione. Qui è centrale il ruolo degli insegnanti, che qualcuno oggi vede sempre più come semplici gestori di macchine e di strumenti. Fino a qualche anno fa i corsi di aggiornamento dei docenti delle scuole vertevano sulle loro discipline. Ora mi dicono invece che le iniziative di formazione rivolte ai professori sono quasi tutte centrate sulla didattica digitale e sulla Lim, la lavagna interattiva multimediale. Bisogna combattere questa riduzione del ruolo dei docenti, dietro alla quale si celano spesso gli interessi commerciali delle aziende di prodotti informatici. Interessi di per sé legittimi, intendiamoci, ma che non possono essere il punto di partenza e di arrivo delle politiche scolastiche. Invece l’ideologia informatica ha spesso alle spalle sollecitazioni poco limpide. Ma mi lasci dire un’ultima cosa».
Prego.
«Ho l’impressione che non abbiamo imparato nulla dalla crisi economica mondiale. L’ossessione per la velocità a tutti i costi, per produrre e consumare in una catena che non si ferma mai, la vedo ancora viva e presente. Anziché rallentare, stiamo cercando a tutti i costi di riprendere la corsa ai ritmi di prima. I valori umanistici di cui parlavo ci additano invece un’altra lezione».
Non si è divertito molto, Giulio Ferroni, quando all’ultimo Salone del Libro di Torino hanno provato a coinvolgerlo in 'Twitteratura', un’iniziativa che propone di riassumere in 140 caratteri i grandi classici. L’idea era quella di avvicinare i ragazzi al patrimonio letterario sollecitandoli attraverso l’uso di un social-network, Twitter appunto, da molti di loro abitualmente frequentato. Apparentemente un’idea innocente, un gioco per attrarre adolescenti renitenti alla lettura. Eppure Ferroni, uno dei più importanti storici della letteratura italiana, ci vede dell’altro. «Sia chiaro», mette le mani avanti, «lungi da me qualsiasi censura aprioristica nei confronti delle novità tecnologiche». Anche perché, a 70 anni compiuti e da poco uscito dall’Università (La Sapienza di Roma, dove ha insegnato per decenni), ha trascorso l’intera vita professionale provando ad avvicinare generazioni di studenti ai libri, «e figuriamoci se sono contrario a nuovi
strumenti per farlo», aggiunge.
E allora, professore, che cosa la preoccupa?
«Il fatto che anche noi adulti troppo spesso crediamo di fare il bene dei ragazzi andando loro incontro sul piano di ciò che riteniamo essi vogliano: in questo caso il gioco, il disimpegno, la superficialità. Ma siamo davvero sicuri che queste siano le richieste dei giovani? Personalmente non lo credo proprio. E poi c’è il rischio di privare i ragazzi del senso vero e più profondo della letteratura».
Qual è questo senso autentico?
«La possibilità di cimentarsi con la profondità, la riflessione, la complessità delle opere. Qui si rischia di banalizzare tutto. Qualcuno a Torino diceva: ecco, così finalmente i ragazzi leggono. Ma in realtà è esattamente il contrario. Questa iniziativa veniva presentata come un grande progetto educativo e progressista. Un ragazzo, applauditissimo, aveva riassunto I promessi sposi paragonando don Abbondio, che si rifiuta di celebrare il matrimonio tra Renzo e Lucia, a coloro che oggi sono contrari alle unioni gay. Va da sé le due cose non c’entrano nulla».
Il problema è la tecnologia?
«No, direi piuttosto l’uso che se ne fa. A scuola e all’università gli strumenti informatici possono essere utilissimi e fare cose fantastiche. Ad esempio per proporre prove di verifica, per svolgere una ricerca lessicale o per fare un’analisi del testo sono molto efficaci. Però prima i testi vanno letti e le informazioni devono essere assimilate. E l’atto di lettura richiede pazienza e lentezza, l’esatto contrario della simultaneità e della velocità su cui si basano i new media. Vedo il rischio di uno sfaldamento della memoria, intesa non in senso nozionistico, ma come patrimonio vitale».
Libro cartaceo o libro elettronico?
«Il libro digitale va benissimo come archivio, ad esempio quando viaggi e ti servono per consultazione molti volumi, oppure per una lettura disimpegnata. Ma lo studio vero e proprio credo si realizzi meglio sui libri tradizionali. Non è un caso che, sebbene da alcuni anni il legislatore abbia previsto la possibilità dei libri di testo elettronici, siano ancora un’esigua minoranza i docenti che li adottano. E non è soltanto una questione di mancanza dei supporti, cioè dell’hardware. Anche i ragazzi e le loro famiglie capiscono che il libro di carta ha una maggiore consistenza formativa ed educativa».
Ci sono dei valori della cultura umanistica che rischiano di essere travolti dall’ondata digitale?
«Se penso alla letteratura, vedo sempre più diffusa la tendenza a rifiutare di misurarsi con l’orizzonte problematico delle opere, con il piano esistenziale, storico, stilistico, riducendo la lettura a una sorta di passatempo o di gioco di società. Ma la letteratura possiede una potenzialità conoscitiva ben più seria e importante. C’è poi la dimensione storica della cultura, oggi spesso assente presso una generazione di adolescenti tutta appiattita sul presente. C’è bisogno di capire che il passato era diverso dal presente, che ogni momento culturale ha caratteri propri e peculiari».
Davvero è tutta colpa dei new media?
«Questa situazione esiste già da tempo, ma mi sembra venire amplificata proprio dalla diffusione degli mezzi digitali, soprattutto presso i giovani. Sono mezzi che, nonostante l’apparente interattività, spesso favoriscono una fruizione passiva. Invece la letteratura favorisce lo sviluppo del senso critico. Ma la disposizione critica e la mentalità scientifica non possono non appoggiarsi sulle pause mentali e sul silenzio. In Internet, però, di silenzio ce n’è molto poco».
Che cosa bisognerebbe fare?
«Educare all’uso consapevole e intelligente dei mezzi che la tecnologia ci ha messo a disposizione. Qui è centrale il ruolo degli insegnanti, che qualcuno oggi vede sempre più come semplici gestori di macchine e di strumenti. Fino a qualche anno fa i corsi di aggiornamento dei docenti delle scuole vertevano sulle loro discipline. Ora mi dicono invece che le iniziative di formazione rivolte ai professori sono quasi tutte centrate sulla didattica digitale e sulla Lim, la lavagna interattiva multimediale. Bisogna combattere questa riduzione del ruolo dei docenti, dietro alla quale si celano spesso gli interessi commerciali delle aziende di prodotti informatici. Interessi di per sé legittimi, intendiamoci, ma che non possono essere il punto di partenza e di arrivo delle politiche scolastiche. Invece l’ideologia informatica ha spesso alle spalle sollecitazioni poco limpide. Ma mi lasci dire un’ultima cosa».
Prego.
«Ho l’impressione che non abbiamo imparato nulla dalla crisi economica mondiale. L’ossessione per la velocità a tutti i costi, per produrre e consumare in una catena che non si ferma mai, la vedo ancora viva e presente. Anziché rallentare, stiamo cercando a tutti i costi di riprendere la corsa ai ritmi di prima. I valori umanistici di cui parlavo ci additano invece un’altra lezione».
«Avvenire» dell'11 giugno 2014
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