di Marc Augé
In un mondo in trasformazione accelerata, un cambio di scala colpisce e riconfigura le nostre esistenze individuali e collettive. Questo nuovo ambiente, ancora proteiforme, che chiamiamo il mondo globale, è indagato da Marc Augé nel saggio «L’antropologo e il mondo globale» che esce oggi in libreria per le edizioni Cortina (pp. 126, euro 15). L’antropologo francese esamina in particolare la nozione di «tempo morto» in relazione a quella di «non-luogo», per interrogarsi sui rapporti tra senso sociale e libertà individuale oggi. Quello che urge, sostiene Augé, è uno sforzo di lucidità critica affinché l’umanità possa un giorno, se davvero vuole, dichiararsi non più globale ma totale, nel senso in cui la intendeva Marcel Mauss, vale a dire intelligente, lucida, ambiziosa e solidale. Anticipiamo un brano dal libro su come cambia la nostra percezione del paesaggio nell’orizzonte della globalizzazione.
Vi è una dimensione psicologica, affettiva, intellettuale e, direi anche, paesaggistica in ciò che noi oggi chiamiamo crisi. Essa è, infatti, legata a un cambiamento di scala di cui constatiamo gli effetti senza riuscire a controllarne le cause. Le downtown americane – quelle torri tutte illuminate che ci mostrano le sigle delle serie americane, riprese di notte da un elicottero – sembrano volerci suggerire che stiamo allestendo il mondo per nuovi e improbabili testimoni. L’accelerazione dei trasporti, la circolazione quasi istantanea delle immagini e dei messaggi ci fanno sentire, ogni giorno sempre più intensamente, quanto il pianeta sia ormai piccolo.
Qualunque viaggio aereo offre lo spettacolo di una tale messa a distanza. Ma anche le autostrade e le linee ferroviarie dei treni a grande velocità cambiano la nostra visione del mondo e creano altri paesaggi: infatti, tali percorsi sopraelevati non attraversano più gli agglomerati urbani e si liberano degli ostacoli che di solito impediscono di vedere in lontananza (muri, alberi, terrapieni…). In tal senso, essi rompono la magia dell’infanzia. Il paesaggio sovramoderno riproduce nella dimensione spaziale la crudeltà dell’esperienza temporale. La storia non finisce mai, ma la vita individuale è limitata. Nei paesaggi più caratteristici della sovramodernità vi è una dimensione utopica e onirica, una promessa di unità che non possiamo escludere che finisca per infrangersi sulle contraddizioni e sulle durezze della storia, ma che siamo certi in ogni caso, ognuno per conto proprio, che non vedremo mai realizzarsi.
Il paesaggio è fatto tanto di tempo quanto di spazio; e la proiezione del paesaggio sovramoderno verso un futuro inimmaginabile è tanto più sorprendente in quanto essa rompe con le segrete connivenze che sono state intessute, lungo la storia umana, tra lo spazio e la memoria.
Nei nostri più vecchi ricordi, il mondo era due volte più grande, e lo erano anche coloro che ci circondavano: il potere evocativo del cinema nelle sale dipende probabilmente dal fatto che esso ci restituisce una parte di tale dismisura, e quindi una parte d’infanzia. Oggi acceleriamo la sistemazione intellettuale ed estetica del pianeta. Iscriviamo nel patrimonio dell’umanità i monumenti o i paesaggi più sorprendenti; trasformiamo regioni intere in “parchi naturali”. Un po’ come se stessimo preparando la visita imminente di turisti extraterrestri che, troppo frettolosi per soffermarsi sui dettagli, facessero un giro rapido e globale del pianeta, come certi turisti americani o cinesi fanno oggi il giro dell’Europa. Le foto prese dai satelliti d’osservazione ci rivelano un nuovo paesaggio: quello della Terra vista da lontano, come scopriranno presto quei turisti facoltosi che si potranno permettere la breve avventura di un volo suborbitale, in assenza di gravità, a un centinaio di chilometri dal pianeta. La tecnologia sembra aver anticipato le evoluzioni delle società e della politica, affermando così la nostra identità di terrestri. Il colmo del paesaggio sovramoderno è proprio il pianeta stesso. Oggi possiamo immaginarci mentre sbarchiamo sulla Terra, proprio come Cristoforo Colombo che raggiungeva le coste del Nuovo Mondo. Assistiamo così alla nascita del pianeta come paesaggio. L’immagine dei nostri primi passi al di fuori della sfera di gravità terrestre ci allontana definitivamente dai paesaggi di cui l’umanità in transizione sente ancora la pregnanza, paesaggi che costituivano un pezzo di cultura, grazie alla pianificazione della natura, all’architettura e ai monumenti. In tal modo si delinea una frattura tra il paesaggio che è già planetario, la società che non lo è ancora, le culture che sono divise al loro interno tra aspetti diversi o contraddittori, e l’arte che non sa più di cosa deve rispondere poiché è in un certo modo superata dallo spazio. Tutto accade come se noi, tutti insieme, avessimo perso una seconda infanzia e dovessimo affrontare, in quanto umanità ormai diventata adulta, la nostra improvvisa solitudine.
Tuttavia la moltiplicazione degli spazi anonimi nei quali non sembra radicarsi alcuna relazione sociale crea paradossalmente nuove familiarità. Ci si sente meno sperduti, perfino all’altro capo del mondo, quando si entra in un supermercato. Le pubblicità, i negozi di articoli di lusso, i marchi contrassegnano i nuovi spazi della circolazione planetaria, come, per esempio, gli aeroporti. Le iscrizioni o gli annunci in inglese contribuiscono inoltre a uniformare simbolicamente il pianeta, proprio come i monumenti dell’architettura internazionale che s’innalzano nelle grandi metropoli mondiali e sembrano farsi eco da un continente all’altro. I paesaggi del mondo attuale – ossia di un mondo segnato dall’accelerazione del tempo, dal restringimento del pianeta e dall’individualizzazione dei percorsi – sono essenzialmente paesaggi urbani o in via di urbanizzazione. Ma la città cambia, salta oltre i muri e si estende ben oltre il suo cuore “storico”, allunga i propri tentacoli lungo i fiumi, le coste e le vie di comunicazione per legarsi sempre più strettamente alle città vicine. Percepiamo ogni giorno i segni di un rapido cambiamento di scala di cui gli schermi della televisione e dei computer sono insieme l’indice e l’acceleratore. Le generazioni più giovani e quelle di domani trovano i propri riferimenti in questo nuovo spazio-tempo. E così le nostre rispettive infanzie rischiano di perdersi di vista.
Qualunque viaggio aereo offre lo spettacolo di una tale messa a distanza. Ma anche le autostrade e le linee ferroviarie dei treni a grande velocità cambiano la nostra visione del mondo e creano altri paesaggi: infatti, tali percorsi sopraelevati non attraversano più gli agglomerati urbani e si liberano degli ostacoli che di solito impediscono di vedere in lontananza (muri, alberi, terrapieni…). In tal senso, essi rompono la magia dell’infanzia. Il paesaggio sovramoderno riproduce nella dimensione spaziale la crudeltà dell’esperienza temporale. La storia non finisce mai, ma la vita individuale è limitata. Nei paesaggi più caratteristici della sovramodernità vi è una dimensione utopica e onirica, una promessa di unità che non possiamo escludere che finisca per infrangersi sulle contraddizioni e sulle durezze della storia, ma che siamo certi in ogni caso, ognuno per conto proprio, che non vedremo mai realizzarsi.
Il paesaggio è fatto tanto di tempo quanto di spazio; e la proiezione del paesaggio sovramoderno verso un futuro inimmaginabile è tanto più sorprendente in quanto essa rompe con le segrete connivenze che sono state intessute, lungo la storia umana, tra lo spazio e la memoria.
Nei nostri più vecchi ricordi, il mondo era due volte più grande, e lo erano anche coloro che ci circondavano: il potere evocativo del cinema nelle sale dipende probabilmente dal fatto che esso ci restituisce una parte di tale dismisura, e quindi una parte d’infanzia. Oggi acceleriamo la sistemazione intellettuale ed estetica del pianeta. Iscriviamo nel patrimonio dell’umanità i monumenti o i paesaggi più sorprendenti; trasformiamo regioni intere in “parchi naturali”. Un po’ come se stessimo preparando la visita imminente di turisti extraterrestri che, troppo frettolosi per soffermarsi sui dettagli, facessero un giro rapido e globale del pianeta, come certi turisti americani o cinesi fanno oggi il giro dell’Europa. Le foto prese dai satelliti d’osservazione ci rivelano un nuovo paesaggio: quello della Terra vista da lontano, come scopriranno presto quei turisti facoltosi che si potranno permettere la breve avventura di un volo suborbitale, in assenza di gravità, a un centinaio di chilometri dal pianeta. La tecnologia sembra aver anticipato le evoluzioni delle società e della politica, affermando così la nostra identità di terrestri. Il colmo del paesaggio sovramoderno è proprio il pianeta stesso. Oggi possiamo immaginarci mentre sbarchiamo sulla Terra, proprio come Cristoforo Colombo che raggiungeva le coste del Nuovo Mondo. Assistiamo così alla nascita del pianeta come paesaggio. L’immagine dei nostri primi passi al di fuori della sfera di gravità terrestre ci allontana definitivamente dai paesaggi di cui l’umanità in transizione sente ancora la pregnanza, paesaggi che costituivano un pezzo di cultura, grazie alla pianificazione della natura, all’architettura e ai monumenti. In tal modo si delinea una frattura tra il paesaggio che è già planetario, la società che non lo è ancora, le culture che sono divise al loro interno tra aspetti diversi o contraddittori, e l’arte che non sa più di cosa deve rispondere poiché è in un certo modo superata dallo spazio. Tutto accade come se noi, tutti insieme, avessimo perso una seconda infanzia e dovessimo affrontare, in quanto umanità ormai diventata adulta, la nostra improvvisa solitudine.
Tuttavia la moltiplicazione degli spazi anonimi nei quali non sembra radicarsi alcuna relazione sociale crea paradossalmente nuove familiarità. Ci si sente meno sperduti, perfino all’altro capo del mondo, quando si entra in un supermercato. Le pubblicità, i negozi di articoli di lusso, i marchi contrassegnano i nuovi spazi della circolazione planetaria, come, per esempio, gli aeroporti. Le iscrizioni o gli annunci in inglese contribuiscono inoltre a uniformare simbolicamente il pianeta, proprio come i monumenti dell’architettura internazionale che s’innalzano nelle grandi metropoli mondiali e sembrano farsi eco da un continente all’altro. I paesaggi del mondo attuale – ossia di un mondo segnato dall’accelerazione del tempo, dal restringimento del pianeta e dall’individualizzazione dei percorsi – sono essenzialmente paesaggi urbani o in via di urbanizzazione. Ma la città cambia, salta oltre i muri e si estende ben oltre il suo cuore “storico”, allunga i propri tentacoli lungo i fiumi, le coste e le vie di comunicazione per legarsi sempre più strettamente alle città vicine. Percepiamo ogni giorno i segni di un rapido cambiamento di scala di cui gli schermi della televisione e dei computer sono insieme l’indice e l’acceleratore. Le generazioni più giovani e quelle di domani trovano i propri riferimenti in questo nuovo spazio-tempo. E così le nostre rispettive infanzie rischiano di perdersi di vista.
«Avvenire» dell'11 giugno 2014
Nessun commento:
Posta un commento