Inediti
di Marco Roncalli
«Qualcuno ha detto che io appartengo alla teologia negativa, quella della morte di Dio: morte nella coscienza dell’uomo, intendiamoci. C’è addirittura chi mi definisce ateo. Cosa falsa. Prima di tutto io non sopporto nessuna definizione.Le definizioni limitano. Non sono ateo, non sono credente, sono io. Poi 'ateo' mi dà fastidio. È una parola ottocentesca che mi fa venire in mente certi livornesi col sigaro toscano in bocca, la cravatta alla Lavalliére, i liberi pensatori. Tutte cose pittoresche che mi danno fastidio. Io pongo solo un limite alla ragione.
Dico che la ragione umana compie miracoli, ma è destinata a imbattersi in un muro o arrivare a un ultimo borgo oltre il quale non ha accesso. L’uomo di fede fa presto: scavalca il muro, supera l’ultimo borgo, e beato lui. Ma il povero razionalista rimane interdetto: non dice però non c’è Dio, non c’è nulla. Anzi c’è un personaggio mio, l’'antimetafisicante', che dice: 'Un’idea mi frulla, / scema come una rosa. / Dopo di noi non c’è nulla. /Nemmeno il nulla, / che già sarebbe qualcosa'. E un altro personaggio, di rimando: 'E allora, sai che ti dico io? / Che proprio dove non c’è nulla / - nemmeno il dove - c’è Dio': Come mi si può definire ateo in questo senso?».
Così Giorgio Caproni dialogando con Silvio Riolfo Marengo il 15 aprile 1986 a uno dei 'Martedì letterari' di Sanremo, presentando ancora in bozze alcune poesie del Conte di Kevenhüller. E all’intervistatore che lo pungolava interrogandolo sulla presenza del Male dentro questa tormentata ricerca di Dio, il poeta rispondeva: «Io non sono certo un teologo, ma in effetti mi pongo da sempre questo problema. I nazisti portavano il nome di Dio inciso nella cintura. 'Got mit uns', Auschwitz ... Dio è il mistero di tutti i misteri, non si sa nulla di lui. È inafferrabile, ci vivifica e ci uccide. Eppure ricerco la sua presenza da anni...». Il testo integrale dell’ inedito dialogo sanremese - tutto da leggere insieme a certe liriche del Muro della terra del ’75: «Dio di volontà, / Dio onnipotente, cerca / (sforzati), a furia d’insistere / ? almeno ? d’esistere»,oppure: «Sta forse nel non essere / l’immensità di Dio?» - , appare ora sulla rivista 'Resine', insieme ad altre interviste, saggi, lettere e poesie inedite. Insomma: pagine ritrovate di un autore che confidava di aver posto al centro del suo cammino poetico (iniziato nel 1936 pubblicando Come un’allegoria) - più che il tema della città o del viaggio, dell’esilio o della madre - quello della 'ricerca': pur glossando «di che cosa non lo so nemmeno io». Nel nuovo numero di 'Resine', più in particolare, note critiche e ragioni sentimentali s’intrecciano lungo le diverse sezioni costellate di testi. Ora a lumeggiare l’iniziazione poetica di Caproni nella Genova all’alba degli Anni ’30 (quella di 'Espero' e di 'Circoli' con la sua precoce acquisizione di un codice linguistico autonomo), ora scandagliando i contatti con l’ambiente romano, ora rendendo conto del lavoro poetico (Il franco cacciatore del 1981, Tutte le poesie del 1983...) persino nella maniacale attenzione alla struttura formale, spazi vuoti e scostamenti compresi («cellule piene di senso in sé», le aveva definite Gramigna). Controcanto umanissimo di questi testi il leit motiv dell’amicizia dichiarata (con Libero Bigiaretti, Franco Ciarlantini, Angelo Barile, Arrigo Bugiani, Mario Luzi, Davide Puccini, Sbarbaro, Pasolini, lo stesso Riolfo), legato ad una poesia nel corso del tempo sempre più essenziale, aspra, ironica. «Solo, nella foresteria, / stazioni di posta per il cambio dei cavalli / che resta di me, nella mia notte? / Giunto dove la strada batte a un muro / come una martellata sulla rosa / della mia bocca più dura e più viva / della morte». «Non era il vento, ho / lo schianto che mi frantuma / la voce - che martella / la rosa di fuoco e di cenere / della mia bocca, vecchia / già di un millennio? », così due liriche non datate .E ancora: «Il nome avvicina alla morte? / No. Il nome è la morte», così un’altra del 1985. Con i versi del «musicista mancato » come si autodefiniva Caproni, anche pagine di prosa.
Come quelle recuperate dalla rivista introvabile 'Il fiore', inserto culturale del mensile municipale torinese, che hanno al centro Roma. La città dove il nostro, fresco delle sue prime plaquette poi raccolte in Finzioni e fresco di nozze con la moglie Rina, giunse l’1 novembre 1938 per prendere servizio come maestro elementare in Trastevere restandovi sino alla Pasqua ’39 quando fu richiamato alle armi, alternando da lì, sino alla fine della guerra, pause romane, impegni militari, la guerra partigiana, fino al 1945 ... Ma anche la Roma dove, più tardi, accolse Pasolini: «venne per la prima volta a casa nostra all’inizio degli anni Cinquanta. Fu Gatto a indirizzarlo da mio padre, che però già lo conosceva avendo recensito molto favorevolmente alcune sue poesie », ricorda il figlio di Caproni Attilio Mauro.
Ne vien fuori una capitale - commenta Domenico Astengo - «in controluce, intima, quasi provinciale, lontana dai luoghi deputati - mura ed archi - per cui i giovani scrittori,come Caproni, non vogliono spendere troppo amore». Roma dunque luogo dell’esilio, definita quasi con rancore «enfasi e orina» e «regno delle tenebre», contrapposta a Genova, dov’è perfino «gentile morire». Nei fatti grazie ad essa Caproni poté sostenere la sua famiglia, farsi apprezzare e lasciare traccia di sé. Anche se i versi del poeta, quasi interrogandoci sul senso del viaggio della vita, ammoniscono:«Tutti i luoghi che ho visto, / che ho visitato, / ora so - ne son certo: / non ci sono mai stato».
Dico che la ragione umana compie miracoli, ma è destinata a imbattersi in un muro o arrivare a un ultimo borgo oltre il quale non ha accesso. L’uomo di fede fa presto: scavalca il muro, supera l’ultimo borgo, e beato lui. Ma il povero razionalista rimane interdetto: non dice però non c’è Dio, non c’è nulla. Anzi c’è un personaggio mio, l’'antimetafisicante', che dice: 'Un’idea mi frulla, / scema come una rosa. / Dopo di noi non c’è nulla. /Nemmeno il nulla, / che già sarebbe qualcosa'. E un altro personaggio, di rimando: 'E allora, sai che ti dico io? / Che proprio dove non c’è nulla / - nemmeno il dove - c’è Dio': Come mi si può definire ateo in questo senso?».
Così Giorgio Caproni dialogando con Silvio Riolfo Marengo il 15 aprile 1986 a uno dei 'Martedì letterari' di Sanremo, presentando ancora in bozze alcune poesie del Conte di Kevenhüller. E all’intervistatore che lo pungolava interrogandolo sulla presenza del Male dentro questa tormentata ricerca di Dio, il poeta rispondeva: «Io non sono certo un teologo, ma in effetti mi pongo da sempre questo problema. I nazisti portavano il nome di Dio inciso nella cintura. 'Got mit uns', Auschwitz ... Dio è il mistero di tutti i misteri, non si sa nulla di lui. È inafferrabile, ci vivifica e ci uccide. Eppure ricerco la sua presenza da anni...». Il testo integrale dell’ inedito dialogo sanremese - tutto da leggere insieme a certe liriche del Muro della terra del ’75: «Dio di volontà, / Dio onnipotente, cerca / (sforzati), a furia d’insistere / ? almeno ? d’esistere»,oppure: «Sta forse nel non essere / l’immensità di Dio?» - , appare ora sulla rivista 'Resine', insieme ad altre interviste, saggi, lettere e poesie inedite. Insomma: pagine ritrovate di un autore che confidava di aver posto al centro del suo cammino poetico (iniziato nel 1936 pubblicando Come un’allegoria) - più che il tema della città o del viaggio, dell’esilio o della madre - quello della 'ricerca': pur glossando «di che cosa non lo so nemmeno io». Nel nuovo numero di 'Resine', più in particolare, note critiche e ragioni sentimentali s’intrecciano lungo le diverse sezioni costellate di testi. Ora a lumeggiare l’iniziazione poetica di Caproni nella Genova all’alba degli Anni ’30 (quella di 'Espero' e di 'Circoli' con la sua precoce acquisizione di un codice linguistico autonomo), ora scandagliando i contatti con l’ambiente romano, ora rendendo conto del lavoro poetico (Il franco cacciatore del 1981, Tutte le poesie del 1983...) persino nella maniacale attenzione alla struttura formale, spazi vuoti e scostamenti compresi («cellule piene di senso in sé», le aveva definite Gramigna). Controcanto umanissimo di questi testi il leit motiv dell’amicizia dichiarata (con Libero Bigiaretti, Franco Ciarlantini, Angelo Barile, Arrigo Bugiani, Mario Luzi, Davide Puccini, Sbarbaro, Pasolini, lo stesso Riolfo), legato ad una poesia nel corso del tempo sempre più essenziale, aspra, ironica. «Solo, nella foresteria, / stazioni di posta per il cambio dei cavalli / che resta di me, nella mia notte? / Giunto dove la strada batte a un muro / come una martellata sulla rosa / della mia bocca più dura e più viva / della morte». «Non era il vento, ho / lo schianto che mi frantuma / la voce - che martella / la rosa di fuoco e di cenere / della mia bocca, vecchia / già di un millennio? », così due liriche non datate .E ancora: «Il nome avvicina alla morte? / No. Il nome è la morte», così un’altra del 1985. Con i versi del «musicista mancato » come si autodefiniva Caproni, anche pagine di prosa.
Come quelle recuperate dalla rivista introvabile 'Il fiore', inserto culturale del mensile municipale torinese, che hanno al centro Roma. La città dove il nostro, fresco delle sue prime plaquette poi raccolte in Finzioni e fresco di nozze con la moglie Rina, giunse l’1 novembre 1938 per prendere servizio come maestro elementare in Trastevere restandovi sino alla Pasqua ’39 quando fu richiamato alle armi, alternando da lì, sino alla fine della guerra, pause romane, impegni militari, la guerra partigiana, fino al 1945 ... Ma anche la Roma dove, più tardi, accolse Pasolini: «venne per la prima volta a casa nostra all’inizio degli anni Cinquanta. Fu Gatto a indirizzarlo da mio padre, che però già lo conosceva avendo recensito molto favorevolmente alcune sue poesie », ricorda il figlio di Caproni Attilio Mauro.
Ne vien fuori una capitale - commenta Domenico Astengo - «in controluce, intima, quasi provinciale, lontana dai luoghi deputati - mura ed archi - per cui i giovani scrittori,come Caproni, non vogliono spendere troppo amore». Roma dunque luogo dell’esilio, definita quasi con rancore «enfasi e orina» e «regno delle tenebre», contrapposta a Genova, dov’è perfino «gentile morire». Nei fatti grazie ad essa Caproni poté sostenere la sua famiglia, farsi apprezzare e lasciare traccia di sé. Anche se i versi del poeta, quasi interrogandoci sul senso del viaggio della vita, ammoniscono:«Tutti i luoghi che ho visto, / che ho visitato, / ora so - ne son certo: / non ci sono mai stato».
«Avvenire» del 23 agosto 2013
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