Gruppo 63 / 3
di Alessandro Zaccuri
Quando si parla di Gruppo 63 e dintorni, Cesare Cavalleri non ha esitazioni: «Per me il poeta più importante di quella stagione rimane Antonio Porta – dice –. L’avevo conosciuto prima di sapere della sua attività letteraria: il suo vero nome, com’è noto, era Leo Paolazzi e apparteneva a una famiglia della buona borghesia imprenditoriale. Condizione comune ad altri autori della Neoavanguardia, questa di provenire da un contesto facoltoso. Se non altro, così veniva liquidato il mito del poeta derelitto. Nei primi anni Sessanta, dunque, ero andato a trovare questo Leo Paolazzi con l’intento di vendergli un po’ di libri delle Edizioni Ares. Poco più tardi sono venuti i Novissimi e quel piccolo libro di Porta dal formato quadrato, Aprire, pubblicato da Scheiwiller nel ’64. Bellissimo, una vera scoperta ». Da allora è passato più di mezzo secolo. Dell’Ares, e della rivista “Studi Cattolici”, Cavalleri è diventato direttore, ma non ha mai smesso di leggere e scandagliare i testi della Neoavanguardia. Predilezione curiosa, in un cattolico severo come lui. «Ma questo non c’entra nulla – puntualizza con il solito gusto del paradosso –. Del resto, il ruolo dei cattolici nella letteratura del Novecento è stato talmente marginale ... ».
Insomma, nel ’63 non c’era scelta: quelli del Gruppo andavano letti per forza?
«Andavano lette, come sempre, le singole opere. Ancora oggi per me il valore della Neoavanguardia sta nelle personalità che si sono formate al suo interno. Non era una realtà omogenea, come non lo erano state le avanguardie storiche o le riviste d’inizio secolo. Possiamo parlare, semmai, di tratti di strada che gli scrittori percorrono insieme, per affermare ciascuno la sua individualità ».
E questa strada comune in che direzione andava?
«Verso lo svecchiamento del modo di fare poesia. In questo il ruolo della Neovanguardia è stato fondamentale, non diversamente da come era accaduto con il Futurismo, con Ungaretti, con l’Ermetismo. I Novissimi e i loro compagni di strada si impegnavano perché la letteratura aderisse alla nuova civiltà delle macchine e lo facevano adoperando gli strumenti dello strutturalismo. È stata la forza del Gruppo 63, ma anche il suo limite. L’insistenza sul carattere formale, statistico e combinatorio dell’opera ha finito per esaurirsi in se stesso. Concentrarsi esclusivamente sulle costanti che agiscono nella struttura del testo è un po’ come fermarsi al fatto che in ogni composizione musicale sono presenti le stesse sette note. Questo è evidente, quello che conta è l’abilità con cui autori diversi ci danno musiche diverse, poesie e romanzi diversi».
Una rivincita della tradizione, dunque?
«La mia impressione è che, nella loro volontà di imporre polemicamente il nuovo, gli scrittori della Neoavanguardia abbiano scelto spesso i bersagli sbagliati. Penso ai giudizi ingenerosi su Bassani e Cassola, ma anche alle accuse rivolte a Pasolini, che tra l’altro in quegli stessi anni stava dimostrando tutta la sua grandezza di poeta».
Come mai questa incomprensione?
«La Neoavanguardia partiva da un atteggiamento, di per sé salutare, di negazione rispetto al passato. Saper dire “no” è importante, anche in letteratura. Ma non si può dire sempre e soltanto “no”. Ci sono momenti in cui la critica deve essere distruttiva, a patto che sulle macerie causate dalla critica arrivi qualcun altro in grado di costruire. A mancare è stata proprio questa seconda fase».
La fase delle opere?
«Bisogna avere il coraggio di ammettere che, purtroppo, ne rimangono poche. Tutta la prima parte della produzione di Porta, appunto, e non poche prove di Balestrini. Ma Giuliani e Sanguineti restano più critici che poeti. Coltissimi e a volte divertentissimi, incapaci però di lasciare traccia. In altri casi, poi, la statura individuale era già talmente robusta da prescindere dall’appartenenza al gruppo. Un poeta come Pagliarani, un prosatore come Arbasino, un intellettuale come Eco hanno più dato alla Neoavanguardia rispetto a quanto abbiano ricevuto. La vera funzione fu, semmai, verso l’esterno».
In che senso?
«Un libro straordinario come Per il battesimo dei nostri frammenti di Mario Luzi sarebbe impensabile senza lo choc dei Novissimi. E lo stesso vale per l’ultimo Montale. Dal tramonto dell’Ermetismo in avanti, la poesia italiana è fortemente influenzata dalla Neoavanguardia, con la quale tutti gli autori si sono dovuti confrontare, spesso imparando molto. Nella prospettiva di questa scossa, peraltro più che positiva, credo che non si possa non parlare di un “prima” e di un “dopo” il Gruppo 63».
Un’esperienza simile sarebbe riproponibile oggi?
«Erano anni di grande fervore, non soltanto in letteratura, ma anche nelle arti visive, secondo quella tendenza alla globalità che i movimenti d’avanguardia hanno sempre espresso a partire dal Futurismo. E c’era l’aspetto della militanza politica, che in genere non giova alla letteratura. Più che altro, c’era una rete di relazioni personali che oggi è sostituta dalla virtualità di Internet: ci si illude di essere in contatto con un gran numero di persone e proprio questo impedisce di costituirsi in gruppo».
Insomma, nel ’63 non c’era scelta: quelli del Gruppo andavano letti per forza?
«Andavano lette, come sempre, le singole opere. Ancora oggi per me il valore della Neoavanguardia sta nelle personalità che si sono formate al suo interno. Non era una realtà omogenea, come non lo erano state le avanguardie storiche o le riviste d’inizio secolo. Possiamo parlare, semmai, di tratti di strada che gli scrittori percorrono insieme, per affermare ciascuno la sua individualità ».
E questa strada comune in che direzione andava?
«Verso lo svecchiamento del modo di fare poesia. In questo il ruolo della Neovanguardia è stato fondamentale, non diversamente da come era accaduto con il Futurismo, con Ungaretti, con l’Ermetismo. I Novissimi e i loro compagni di strada si impegnavano perché la letteratura aderisse alla nuova civiltà delle macchine e lo facevano adoperando gli strumenti dello strutturalismo. È stata la forza del Gruppo 63, ma anche il suo limite. L’insistenza sul carattere formale, statistico e combinatorio dell’opera ha finito per esaurirsi in se stesso. Concentrarsi esclusivamente sulle costanti che agiscono nella struttura del testo è un po’ come fermarsi al fatto che in ogni composizione musicale sono presenti le stesse sette note. Questo è evidente, quello che conta è l’abilità con cui autori diversi ci danno musiche diverse, poesie e romanzi diversi».
Una rivincita della tradizione, dunque?
«La mia impressione è che, nella loro volontà di imporre polemicamente il nuovo, gli scrittori della Neoavanguardia abbiano scelto spesso i bersagli sbagliati. Penso ai giudizi ingenerosi su Bassani e Cassola, ma anche alle accuse rivolte a Pasolini, che tra l’altro in quegli stessi anni stava dimostrando tutta la sua grandezza di poeta».
Come mai questa incomprensione?
«La Neoavanguardia partiva da un atteggiamento, di per sé salutare, di negazione rispetto al passato. Saper dire “no” è importante, anche in letteratura. Ma non si può dire sempre e soltanto “no”. Ci sono momenti in cui la critica deve essere distruttiva, a patto che sulle macerie causate dalla critica arrivi qualcun altro in grado di costruire. A mancare è stata proprio questa seconda fase».
La fase delle opere?
«Bisogna avere il coraggio di ammettere che, purtroppo, ne rimangono poche. Tutta la prima parte della produzione di Porta, appunto, e non poche prove di Balestrini. Ma Giuliani e Sanguineti restano più critici che poeti. Coltissimi e a volte divertentissimi, incapaci però di lasciare traccia. In altri casi, poi, la statura individuale era già talmente robusta da prescindere dall’appartenenza al gruppo. Un poeta come Pagliarani, un prosatore come Arbasino, un intellettuale come Eco hanno più dato alla Neoavanguardia rispetto a quanto abbiano ricevuto. La vera funzione fu, semmai, verso l’esterno».
In che senso?
«Un libro straordinario come Per il battesimo dei nostri frammenti di Mario Luzi sarebbe impensabile senza lo choc dei Novissimi. E lo stesso vale per l’ultimo Montale. Dal tramonto dell’Ermetismo in avanti, la poesia italiana è fortemente influenzata dalla Neoavanguardia, con la quale tutti gli autori si sono dovuti confrontare, spesso imparando molto. Nella prospettiva di questa scossa, peraltro più che positiva, credo che non si possa non parlare di un “prima” e di un “dopo” il Gruppo 63».
Un’esperienza simile sarebbe riproponibile oggi?
«Erano anni di grande fervore, non soltanto in letteratura, ma anche nelle arti visive, secondo quella tendenza alla globalità che i movimenti d’avanguardia hanno sempre espresso a partire dal Futurismo. E c’era l’aspetto della militanza politica, che in genere non giova alla letteratura. Più che altro, c’era una rete di relazioni personali che oggi è sostituta dalla virtualità di Internet: ci si illude di essere in contatto con un gran numero di persone e proprio questo impedisce di costituirsi in gruppo».
«Avvenire» del 17 agosto 2013
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