di Lucia Bellaspiga
Per chi avesse ancora il dubbio - assai lecito e comprensibile - di non aver capito bene la tesi di Alberto Giubilini e Francesca Minerva, ieri all’università di Torino i due giovani studiosi italiani docenti in Australia la ribadivano a chiare lettere: «Se pensiamo che l’aborto è moralmente permesso perché i feti non hanno ancora le caratteristiche che conferiscono il diritto alla vita, visto che anche i neonati mancano delle stesse caratteristiche, dovrebbe essere permesso anche l’aborto post-nascita». Ovvero: al pari del feto, anche il bambino già nato non ha lo status di persona, pertanto l’uccisione di un neonato dovrebbe essere lecita in tutti i casi in cui è permesso l’aborto, anche quando il neonato non ha alcuna disabilità ma ad esempio costituisce un problema economico o di altra natura per la famiglia.
«È la prima volta che ci invitano a parlarne in Italia e per noi è una grossa occasione», hanno esordito i due colleghi dell’università di Melbourne ringraziando Maurizio Mori, direttore del master di Bioetica all’ateneo di Torino, per aver organizzato il dibattito. «Le nostre non sono idee nuove - hanno ammesso i due -, già filosofi come Singer negli anni ’70 le hanno elaborate, ma il nostro intento era rendere esplicite certe conseguenze normative e tenere conto di implicazioni socioeconomiche: se queste sono importanti per ammettere l’aborto, allora lo sono anche se il bambino è già nato». Uno dei loro maestri è Peter Singer, dunque, caposcuola a Melbourne della bioetica utilitarista, ma loro lo superano persino: «Singer finora ne aveva parlato solo in caso di imperfezioni, in particolare lui citava i bambini nati con sindrome di Down in quanto vite non degne di essere vissute. Noi accettiamo che la sindrome di Down e le altre malattie sono una buona ragione per abortire, tutelando così gli interessi di chi dovrà sobbarcarsi l’onere di crescere queste persone, ma coerenza vuole che ciò valga anche per uccidere un neonato dopo la nascita».
Quali siano allora queste caratteristiche che ci rendono persona è presto detto: «Non basta per esempio provare piacere o dolore, perché ciò avviene anche a un feto, serve uno sviluppo neurologico superiore, cioè avere degli scopi, delle aspettative verso il futuro, provare un interesse per la vita. E un neonato non li ha».
Teorie che i due studiosi avevano già pubblicato nel 2012 sul Journal of Medical Ethics con un articolo dal titolo esplicito - "After birth abortion: why should the baby live?" -, scatenando polemiche a tutte le latitudini e, obiettivamente, trovando ben pochi estimatori anche nel mondo più laico. «Prima di oggi abbiamo subìto una gogna mediatica - ha lamentato Francesca Minerva - ci hanno minacciati, ho persino avuto paura di morire. In fondo alle idee di Singer di 30 anni fa, quando non eravamo nemmeno nati, noi abbiamo aggiunto solo un pezzetto: il fatto che non occorra che il neonato sia disabile per poterlo uccidere». Ma a Maurizio Mori, già tra i più decisi sostenitori dell’eutanasia di Eluana Englaro (e a nostra esplicita richiesta enumerato tra i maestri cui i due australiani si sono ispirati), la loro tesi è invece sembrata argomento degno di serio dibattito: «Siete troppo modesti. Non avete aggiunto solo un pezzetto, avete anche inventato un nome: aborto post-nascita».
«Non è vero che di tutto bisogna poter parlare nelle università - gli ha opposto Assuntina Morresi, membro del Comitato nazionale di bioetica -, non esiste una neutralità del mondo accademico: come nessuno si sognerebbe di sostenere da una cattedra il negazionismo della Shoah o una tesi discriminatoria contro i neri, così l’omicidio dei neonati è un tema che non va ospitato. Astrarre vuol dire abbracciare un’ideologia pericolosa che ci permette di fare tutto».
Le tante incoerenze e aporie logiche le ha sottolineate anche Adriano Pessina, direttore del Centro di bioetica della Cattolica di Milano: «Se per essere persona occorre provare un interesse per la vita, allora chi chiede l’eutanasia non va ascoltato, perché non gli interessa vivere, dunque è una non persona. Già le premesse, insomma, sono sbagliate». Non solo: se è vero che il neonato in fondo è la stessa persona che un attimo prima era feto, «il ragionamento è vero anche all’inverso, e allora è l’aborto a diventare illecito». Artificiosa, secondo Pessina, anche l’identificazione aborto/omicidio: il primo infatti sorge quando non si possono tutelare entrambi i diritti, della madre e del nascituro, «ma quando il figlio è nato, posso senz’altro correre incontro ai diritti della madre senza eliminare il bambino, ad esempio con l’adozione».
In una situazione "paradossale" si è detto Giovanni Fornero, storico della filosofia e dichiaratamente laico: «Sono uno dei maggiori teorici della differenza tra bioetica cattolica e laica, ma sull’uccisione dei neonati le due non possono che coincidere. Mi stupisce che Giubilini e Minerva si lamentino della gogna: oggi viviamo in società democratiche che hanno come idea fondamentale il fatto che tutti gli esseri umani hanno pari diritti. Per far valere tale uguaglianza si sono versati lacrime e sangue, fino alla "Dichiarazione dei diritti dell’Uomo" del 1948, non a caso scritta dopo il nazismo. La tesi dell’infanticidio mina la base su cui poggiano tutte le Carte internazionali. La bioetica laica reagisca: come dice Bobbio, non lasciamo ai soli cattolici la prerogativa di combattere affinché il precetto di non uccidere sia rispettato».
Più volte abbiamo chiesto ai due studiosi quale valore aggiunto porti infine il discettare di omicidio dei neonati. Non abbiamo ottenuto risposta.
«È la prima volta che ci invitano a parlarne in Italia e per noi è una grossa occasione», hanno esordito i due colleghi dell’università di Melbourne ringraziando Maurizio Mori, direttore del master di Bioetica all’ateneo di Torino, per aver organizzato il dibattito. «Le nostre non sono idee nuove - hanno ammesso i due -, già filosofi come Singer negli anni ’70 le hanno elaborate, ma il nostro intento era rendere esplicite certe conseguenze normative e tenere conto di implicazioni socioeconomiche: se queste sono importanti per ammettere l’aborto, allora lo sono anche se il bambino è già nato». Uno dei loro maestri è Peter Singer, dunque, caposcuola a Melbourne della bioetica utilitarista, ma loro lo superano persino: «Singer finora ne aveva parlato solo in caso di imperfezioni, in particolare lui citava i bambini nati con sindrome di Down in quanto vite non degne di essere vissute. Noi accettiamo che la sindrome di Down e le altre malattie sono una buona ragione per abortire, tutelando così gli interessi di chi dovrà sobbarcarsi l’onere di crescere queste persone, ma coerenza vuole che ciò valga anche per uccidere un neonato dopo la nascita».
Quali siano allora queste caratteristiche che ci rendono persona è presto detto: «Non basta per esempio provare piacere o dolore, perché ciò avviene anche a un feto, serve uno sviluppo neurologico superiore, cioè avere degli scopi, delle aspettative verso il futuro, provare un interesse per la vita. E un neonato non li ha».
Teorie che i due studiosi avevano già pubblicato nel 2012 sul Journal of Medical Ethics con un articolo dal titolo esplicito - "After birth abortion: why should the baby live?" -, scatenando polemiche a tutte le latitudini e, obiettivamente, trovando ben pochi estimatori anche nel mondo più laico. «Prima di oggi abbiamo subìto una gogna mediatica - ha lamentato Francesca Minerva - ci hanno minacciati, ho persino avuto paura di morire. In fondo alle idee di Singer di 30 anni fa, quando non eravamo nemmeno nati, noi abbiamo aggiunto solo un pezzetto: il fatto che non occorra che il neonato sia disabile per poterlo uccidere». Ma a Maurizio Mori, già tra i più decisi sostenitori dell’eutanasia di Eluana Englaro (e a nostra esplicita richiesta enumerato tra i maestri cui i due australiani si sono ispirati), la loro tesi è invece sembrata argomento degno di serio dibattito: «Siete troppo modesti. Non avete aggiunto solo un pezzetto, avete anche inventato un nome: aborto post-nascita».
«Non è vero che di tutto bisogna poter parlare nelle università - gli ha opposto Assuntina Morresi, membro del Comitato nazionale di bioetica -, non esiste una neutralità del mondo accademico: come nessuno si sognerebbe di sostenere da una cattedra il negazionismo della Shoah o una tesi discriminatoria contro i neri, così l’omicidio dei neonati è un tema che non va ospitato. Astrarre vuol dire abbracciare un’ideologia pericolosa che ci permette di fare tutto».
Le tante incoerenze e aporie logiche le ha sottolineate anche Adriano Pessina, direttore del Centro di bioetica della Cattolica di Milano: «Se per essere persona occorre provare un interesse per la vita, allora chi chiede l’eutanasia non va ascoltato, perché non gli interessa vivere, dunque è una non persona. Già le premesse, insomma, sono sbagliate». Non solo: se è vero che il neonato in fondo è la stessa persona che un attimo prima era feto, «il ragionamento è vero anche all’inverso, e allora è l’aborto a diventare illecito». Artificiosa, secondo Pessina, anche l’identificazione aborto/omicidio: il primo infatti sorge quando non si possono tutelare entrambi i diritti, della madre e del nascituro, «ma quando il figlio è nato, posso senz’altro correre incontro ai diritti della madre senza eliminare il bambino, ad esempio con l’adozione».
In una situazione "paradossale" si è detto Giovanni Fornero, storico della filosofia e dichiaratamente laico: «Sono uno dei maggiori teorici della differenza tra bioetica cattolica e laica, ma sull’uccisione dei neonati le due non possono che coincidere. Mi stupisce che Giubilini e Minerva si lamentino della gogna: oggi viviamo in società democratiche che hanno come idea fondamentale il fatto che tutti gli esseri umani hanno pari diritti. Per far valere tale uguaglianza si sono versati lacrime e sangue, fino alla "Dichiarazione dei diritti dell’Uomo" del 1948, non a caso scritta dopo il nazismo. La tesi dell’infanticidio mina la base su cui poggiano tutte le Carte internazionali. La bioetica laica reagisca: come dice Bobbio, non lasciamo ai soli cattolici la prerogativa di combattere affinché il precetto di non uccidere sia rispettato».
Più volte abbiamo chiesto ai due studiosi quale valore aggiunto porti infine il discettare di omicidio dei neonati. Non abbiamo ottenuto risposta.
«Avvenire» del 12 gennaio 2013
Nessun commento:
Posta un commento