La presunzione di Google nel dettare un quadro di valori
di Giuseppe Romano
«Don’t be evil», non essere (o non fare) il male, stai dalla parte dei buoni: motto impegnativo da adottare in tutti i casi, tanto più se si sceglie di assumere il ruolo di Grande Fratello. È quanto ha fatto Google, il motore di ricerca americano che sa dirci tutto di tutti, compresi noi stessi, e che ai suoi albori ha coniato questa sentenza che fa pensare al giardino dell’Eden piuttosto che a palazzine di uffici, per quanto hi-tech. A simili, autoproclamati paladini del bene, nei giorni scorsi, il Wall Street Journal ha imputato un’operazione segreta per intrufolarsi nei telefonini e nei tablet di milioni di utenti. In realtà Goolge ha avuto gioco abbastanza facile nel ribattere che si è comportata scrupolosamente come sempre: accesso pieno alle informazioni, ma anonimato garantito. È questo il patto fondamentale che il motore di ricerca stringe con tutti coloro che lo utilizzano; per esempio chi possiede un account di posta Gmail, la mail di Google, accetta che tutto ciò che invia e riceve venga scrutinato e catalogato, con l’unica (ma non piccola) garanzia che le informazioni restino svincolate dai nomi dei soggetti da cui vengono tratte. È il prezzo da pagare, sostiene Google, quando si vogliono ottenere i migliori risultati per qualsiasi ricerca.
Ovviamente quella di "essere cattivi" a volte può essere una tentazione forte come schiacciare l’acceleratore se si possiede una Ferrari. Una delle più importanti caratteristiche di Google, alla base del suo successo, è stata fin dall’inizio aver distinto nettamente l’acquisizione delle informazioni dal loro sfruttamento commerciale. L’assioma era: lasciateci frugare nelle vostre cose, promettiamo di farlo per servirvi meglio, non per approfittarne. Tuttavia per i cittadini resta difficile convivere con la certezza che qualsiasi movimento e debolezza vengono registrati e catalogati perché qualcuno si è intrufolato nel nostro telefonino, e non è detto che consoli la frase «lo facciamo per il tuo bene, per tenerti informato». Quella di "non essere cattivi" è una promessa gravosa. I suoi funzionari saranno tutti e per sempre angelici? In fondo Google è un’impresa commerciale e, per dirla nuda e cruda, si fa gli affari suoi, che possiamo solo auspicare coincidano il più delle volte con i nostri. D’altra parte non sempre è facile mantenere il distacco se si possiedono valanghe di soldi e si ha il potere di intimidire governi e nazioni: sicché da una parte abbiamo la tristemente celeberrima adesione alla censura imposta dalla dittatura cinese pur di non rinunciare a quel mercato enorme, e dall’altro – storia di qualche giorno fa – la decisione di abolire le armi dagli oggetti che si possono vendere online. Lodevole iniziativa, ma perché proprio ora? I maligni la vedono connessa al desiderio di rabbonire l’antitrust che sta indagando Google per abuso di posizione dominante.
Altra "decisione sensibile" di questi giorni è compendiata nell’annuncio che Google lancerà (con l’immaginabile potenza di fuoco della sua forza economica e dell’onnipresenza nelle navigazioni di milioni di utenti) calibrate campagne di sensibilizzazione «contro l’omofobia», con lo slogan «Legalize Love». Lodevole iniziativa in senso generale (la dignità di tutti va indiscutibilmente tutelata), un po’ meno se si spinge a sostenere come un «dovere culturale» l’equivalenza civile fra tutti i tipi di unione, svilendo di fatto il matrimonio e la famiglia. Un altro mattone – e certamente non il più piccolo – all’edificio della cultura "politicamente corretta". L’aforisma «non essere il Male» può rivelarsi autolesionista, quando si connette alla presunzione di decidere in proprio che cosa è bene e cosa è male, con la pretesa di rimpiazzare altre istanze ben più autorevoli e certe. La storia insegna che addentare questa mela della conoscenza in genere è foriero di guai ...
Ovviamente quella di "essere cattivi" a volte può essere una tentazione forte come schiacciare l’acceleratore se si possiede una Ferrari. Una delle più importanti caratteristiche di Google, alla base del suo successo, è stata fin dall’inizio aver distinto nettamente l’acquisizione delle informazioni dal loro sfruttamento commerciale. L’assioma era: lasciateci frugare nelle vostre cose, promettiamo di farlo per servirvi meglio, non per approfittarne. Tuttavia per i cittadini resta difficile convivere con la certezza che qualsiasi movimento e debolezza vengono registrati e catalogati perché qualcuno si è intrufolato nel nostro telefonino, e non è detto che consoli la frase «lo facciamo per il tuo bene, per tenerti informato». Quella di "non essere cattivi" è una promessa gravosa. I suoi funzionari saranno tutti e per sempre angelici? In fondo Google è un’impresa commerciale e, per dirla nuda e cruda, si fa gli affari suoi, che possiamo solo auspicare coincidano il più delle volte con i nostri. D’altra parte non sempre è facile mantenere il distacco se si possiedono valanghe di soldi e si ha il potere di intimidire governi e nazioni: sicché da una parte abbiamo la tristemente celeberrima adesione alla censura imposta dalla dittatura cinese pur di non rinunciare a quel mercato enorme, e dall’altro – storia di qualche giorno fa – la decisione di abolire le armi dagli oggetti che si possono vendere online. Lodevole iniziativa, ma perché proprio ora? I maligni la vedono connessa al desiderio di rabbonire l’antitrust che sta indagando Google per abuso di posizione dominante.
Altra "decisione sensibile" di questi giorni è compendiata nell’annuncio che Google lancerà (con l’immaginabile potenza di fuoco della sua forza economica e dell’onnipresenza nelle navigazioni di milioni di utenti) calibrate campagne di sensibilizzazione «contro l’omofobia», con lo slogan «Legalize Love». Lodevole iniziativa in senso generale (la dignità di tutti va indiscutibilmente tutelata), un po’ meno se si spinge a sostenere come un «dovere culturale» l’equivalenza civile fra tutti i tipi di unione, svilendo di fatto il matrimonio e la famiglia. Un altro mattone – e certamente non il più piccolo – all’edificio della cultura "politicamente corretta". L’aforisma «non essere il Male» può rivelarsi autolesionista, quando si connette alla presunzione di decidere in proprio che cosa è bene e cosa è male, con la pretesa di rimpiazzare altre istanze ben più autorevoli e certe. La storia insegna che addentare questa mela della conoscenza in genere è foriero di guai ...
«Avvenire» dell'11 agosto 2012
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