La dura condanna di Simone Weil
di Arturo Colombo
Sui partiti politici, anzi contro i partiti politici, da un po’ di tempo se ne dicono e scrivono di tutti i colori.
Ecco un motivo in più per leggere un piccolo, ma straordinario libretto uscito recentemente: si tratta del Manifesto per la soppressione dei partiti politici di Simone Weil (editore Castelvecchi, pp. 60, € 6). La Weil è stata una singolare personalità, che ha bruciato giovanissima la sua esistenza nell’arco di poco più di trent’anni (nacque nel 1909 a Parigi e morì nel 1943 nel sanatorio di Ashford), lasciandoci però alcune pagine sui vizi e le magagne connaturate ai sistemi politici che ancor oggi sono da considerare meritevoli di essere lette.
Com’è il caso di questo Manifesto per la soppressione dei partiti politici, apparso postumo sulle pagine della rivista francese «La Table Ronde», «La Tavola Rotonda», del febbraio 1950. Il filosofo Alain, che ha conosciuto molto bene Simone Weil, sostiene che si tratta «di un articolo pieno di fuoco, che sembra scritto con il piccone dello sterratore, di superba disinvoltura». E in effetti, la drastica condanna contenuta nel titolo del libretto non riguarda, secondo Simone Weil, soltanto un singolo partito, se poi di destra o di sinistra non importa.
Un partito, ogni partito «è una macchina per fabbricare passione collettiva» sostiene caustica la Weil; e quindi non si pone affatto la ricerca del «bene pubblico», ma piuttosto cerca (e pretende) — soprattutto attraverso l’arma della propaganda — l’asservimento di ogni suo iscritto, che finisce così per confondere la ricerca «del bene pubblico e della giustizia», essendo costretto a rinunciare a pensare con la propria testa.
Le conseguenze, sempre a giudizio della Weil, sono decisamente traumatiche: «Se l’appartenenza a un partito obbliga sempre, in ogni caso, alla menzogna, l’esistenza dei partiti è assolutamente, incondizionatamente, un male».
Che fare, allora? La Weil — costretta a vivere in un periodo storico dominato in prevalenza da partiti totalitari (a destra quelli di matrice nazifascista, a sinistra quelli di stampo comunista stalinista) — si guarda bene dall’avanzare la proposta di semplici ritocchi migliorativi. No, la sua è una ricetta molto più perentoria: una volta definite le «macchine per fabbricare passione collettiva», e dopo averle identificate con «un male senza mezze misure», diventa indispensabile «la soppressione dei partiti politici», così da costituire — è pronta ad aggiungere subito — «un bene quasi allo stato puro».
Mentre un suo contemporaneo, Bertolt Brecht, scriveva addirittura una «Lode del partito», dove affermava che «il singolo ha due occhi, / il partito ha mille occhi», la Weil insiste a pretendere, anzi a esigere che un vero «risanamento, ben al di là degli affari pubblici» non si realizzerà, finché domineranno i tentacoli oppressivi dei partiti. Non c’è bisogno di discutere, molti decenni dopo l’uscita dei rispettivi scritti, su quale dei due, ragionando alla luce del senno di poi, si possa considerare aver avuto ragione.
Ecco un motivo in più per leggere un piccolo, ma straordinario libretto uscito recentemente: si tratta del Manifesto per la soppressione dei partiti politici di Simone Weil (editore Castelvecchi, pp. 60, € 6). La Weil è stata una singolare personalità, che ha bruciato giovanissima la sua esistenza nell’arco di poco più di trent’anni (nacque nel 1909 a Parigi e morì nel 1943 nel sanatorio di Ashford), lasciandoci però alcune pagine sui vizi e le magagne connaturate ai sistemi politici che ancor oggi sono da considerare meritevoli di essere lette.
Com’è il caso di questo Manifesto per la soppressione dei partiti politici, apparso postumo sulle pagine della rivista francese «La Table Ronde», «La Tavola Rotonda», del febbraio 1950. Il filosofo Alain, che ha conosciuto molto bene Simone Weil, sostiene che si tratta «di un articolo pieno di fuoco, che sembra scritto con il piccone dello sterratore, di superba disinvoltura». E in effetti, la drastica condanna contenuta nel titolo del libretto non riguarda, secondo Simone Weil, soltanto un singolo partito, se poi di destra o di sinistra non importa.
Un partito, ogni partito «è una macchina per fabbricare passione collettiva» sostiene caustica la Weil; e quindi non si pone affatto la ricerca del «bene pubblico», ma piuttosto cerca (e pretende) — soprattutto attraverso l’arma della propaganda — l’asservimento di ogni suo iscritto, che finisce così per confondere la ricerca «del bene pubblico e della giustizia», essendo costretto a rinunciare a pensare con la propria testa.
Le conseguenze, sempre a giudizio della Weil, sono decisamente traumatiche: «Se l’appartenenza a un partito obbliga sempre, in ogni caso, alla menzogna, l’esistenza dei partiti è assolutamente, incondizionatamente, un male».
Che fare, allora? La Weil — costretta a vivere in un periodo storico dominato in prevalenza da partiti totalitari (a destra quelli di matrice nazifascista, a sinistra quelli di stampo comunista stalinista) — si guarda bene dall’avanzare la proposta di semplici ritocchi migliorativi. No, la sua è una ricetta molto più perentoria: una volta definite le «macchine per fabbricare passione collettiva», e dopo averle identificate con «un male senza mezze misure», diventa indispensabile «la soppressione dei partiti politici», così da costituire — è pronta ad aggiungere subito — «un bene quasi allo stato puro».
Mentre un suo contemporaneo, Bertolt Brecht, scriveva addirittura una «Lode del partito», dove affermava che «il singolo ha due occhi, / il partito ha mille occhi», la Weil insiste a pretendere, anzi a esigere che un vero «risanamento, ben al di là degli affari pubblici» non si realizzerà, finché domineranno i tentacoli oppressivi dei partiti. Non c’è bisogno di discutere, molti decenni dopo l’uscita dei rispettivi scritti, su quale dei due, ragionando alla luce del senno di poi, si possa considerare aver avuto ragione.
«Corriere della sera» del 7 agosto 2012
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