di Franco Cardini
Vogliamo cominciare, magari per scherzo, a tirare le fila e le somme del celebratissimo centocinquantenario dell’Unità d’Italia? Di retorica se n’è fatta molta; di ricerche storiche serie, forse, un po’ meno: ma questa è in casi del genere più la regola che l’eccezione. Quel ch’è stato triste, soprattutto, è l’aver perso un’occasione. L’Italietta uscita dall’Unità non riuscì a dominare la situazione ch’essa stessa aveva determinato: avrebbe dovuto procedere a una grande riforma agraria e invece provocò una valanga di quasi quindici milioni di emigranti; varò una scellerata politica coloniale fatta di sconfitte, di false partenze e di frustrazioni; fu causa non ultima, con la spedizione in Tripolitania e in Cirenaica, che si ripercosse sulla stabilità balcanica, della Prima guerra mondiale; frustrata per una falsa vittoria, produsse il prototipo delle grandi dittature del Novecento e generò la Seconda guerra mondiale; provò a ripartire, e i frutti furono gli Anni di piombo, la Seconda Repubblica che non si sa se è mai cominciata o già finita e la crisi attuale. Non sarebbe stato il caso di chiedersi serenamente che cosa non ha funzionato o che senso aveva avuto il passare dall’alleanza francese a quella inglese e quindi a quella tedesca, salvo poi il voltafaccia del 1915? Invece, il conformismo e la dissimulazione hanno vinto. Va tutto bene, bandiere al vento e patriottico zumpapà.
Eppure, fra 2009 e 2011 non eravamo partiti male. Per esempio, avevamo cominciato col chiederci se davvero la scelta unitaria era l’unica, se il federalismo di Gioberti e di Cattaneo erano poi strade così impraticabili. Qualcuno si era domandato se i governi dei vari Stati preunitari erano poi davvero così inetti o così feroci: a cominciare da quello del papa-re. Quelle voci sono state frettolosamente zittite. Si è preferita la strada della retorica conformista. E così, una volta data una risposta retorica e astratta ai problemi che il Risorgimento aveva lasciato aperti, si è dovuto tacere sulla domanda posta dai fallimenti successivi. E allora a bocce ferme, come si dice, bisognerebbe ripartire dall’esame di questi Stati italiani preunitari e dai loro protagonisti. E forse ci aspetterebbero delle sorprese. Anche sul piano dei personaggi minori. Come ad esempio Maria Cristina di Savoia, della quale il 14 novembre prossimo potremmo celebrare il secondo centenario della nascita: e almeno i piemontesi, i sardi, tutti i meridionali nonché in genere i cattolici dovrebbero farlo: perché questa ragazza immaturamente scomparsa a ventiquattro anni da regina delle Due Sicilie, spirata in odore di santità e a proposito della quale esiste una causa di beatificazione ancora aperta, è pur degna di essere ricordata più di tanti utopisti, politici spregiudicati e avventurieri che hanno fatto l’Italia. Perché mai per esempio tanto schiamazzo attorno a Virginia Oldoini contessa di Castiglione, meritevole soprattutto di aver accordato le sue giovani grazie a Napoleone III, e attorno a Maria Cristina invece tanto silenzio, rotto soltanto dal libro La reginella santa che gli dedicò nel 2000 Luciano Regolo?
Maria Cristina di Savoia era figlia secondogenita di Vittorio Emanuele I (1759-1824, re di Sardegna tra 1802 e 1821) e di Maria Teresa d’Asburgo-Este (1773-1832). Il re di Napoli Francesco I l’aveva presa in considerazione come possibile sposa per il proprio figlio Ferdinando (futuro Ferdinando II), insieme ad altre candidature. Sembra che già dal 1817 si fosse pensato a un’unione, quando Ferdinando aveva sette anni e lei cinque. Ferdinando si affezionò all’idea delle nozze, ancor prima di salire al trono nel 1830; ma vi erano perplessità da parte della madre di lei, sia per notizie poco rassicuranti sulla salute del principe napoletano (soffriva di epilessia) sia per oscuri e funesti presagi. Ferdinando poteva però contare sull’appoggio di Carlo Alberto, a sua volta re di Sardegna dal 1831. Alla fine, dopo tira-e-molla diplomatici di varia natura, ma soprattutto dopo la morte della madre, Maria Cristina (pressata da Carlo Alberto e dal confessore della defunta genitrice, padre Terzi) vinse gli scrupoli religiosi per il matrimonio e accettò. Aveva detto più volte di preferire alle gioie e alla pompe del mondo il ritiro nel chiostro e la pace del cuore, specie dopo la morte della madre. Finalmente, il 21 novembre 1832, avvenne a Genova il rito religioso. Per la verità, secondo Harold Acton, «Quando fu l’ora di vestirsi per la cerimonia (Maria Cristina) scoppiò in lacrime e le sue dame non sapevano in qual modo confortarla. Maria Cristina rispose che non poteva cacciare da sé il terrore del matrimonio, per il quale non aveva la minima inclinazione». Poi però, per tutta la cerimonia, tenne un contegno perfetto. Il suo riserbo e la sua misura meritarono l’elogio che il giovane conte Camillo di Cavour le dedicò in una lettera. Contrariamente a quanto in seguito si disse, soprattutto quando montò la leggenda nera contro Ferdinando, l’unione fu nel complesso piuttosto felice.
Certo, il carattere dei due era diverso: timida e riservata lei, esuberante e vitale lui; ma in un certo senso si completavano a vicenda. Grazie alla sua influenza, il re incrementò il suo impegno nella direzione delle opere di carità. Tranne i “liberali” più estremisti, il consenso e la simpatia nei confronti della giovane regina erano unanimi; ma gli scontenti l’accusavano di essere bigotta, superstiziosa, soggetta al controllo dei gesuiti, strumento della reazione clericale e monarchica in quanto pegno dell’alleanza tra Savoia, Borboni e Asburgo (sua sorella maggiore, Maria Anna, era andata sposa all’imperatore Ferdinando I d’Austria). Dopo tre anni di matrimonio, la mancanza di un figlio faceva soffrire Maria Cristina, che pregava senza posa per ottenere quella grazia. Finalmente, nel 1835, avvertì il sorgere della gravidanza. Passò gli ultimi mesi nella reggia di Portici ch’era luogo più sereno di Napoli: ma forse presagiva qualcosa. All’avvicinarsi del parto scriveva alla sorella: «Questa vecchia va a Napoli per partorire e morire». Purtroppo era vero: infatti l’erede al trono nacque il 16 gennaio e già il 29 Maria Cristina era morente per complicazioni sopravvenute dopo il parto. Prendendo in braccio il tanto atteso piccolo Francesco (futuro Francesco II) e porgendolo al re suo marito, disse: «Tu ne risponderai a Dio e al popolo… e quando sarà grande gli dirai che io muoio per lui». Il 31 gennaio 1836 in piena comunione con Dio, la sovrana si addormentò per sempre. I solenni funerali furono celebrati l’8 febbraio e il suo corpo fu tumulato nella basilica di Santa Chiara. Il dolore del re per la morte della sposa fu vivissimo e del tutto sincero.
La fama di pietas di Maria Cristina si consolidò nei decenni successivi: nota era, fra l’altro, la sua devozione alla Vergine Maria. Fu istruito un processo di canonizzazione: e sembra che tra i documenti vaticani raccolti per la circostanza vi siano anche tracce di qualche probabile miracolo. Ma, dopo l’Unità d’Italia, le circostanze politiche e le pressioni anticlericali non favorivano certo l’elevazione sugli altari di una regina. per giunta borbonica. Più tardi, nel 1937, Pio XI ne dichiarò eroico l’esercizio delle virtù cristiane autorizzandone il culto come “venerabile”. Poi tutto si fermò. C’è da chiedersi se, dopo tanti anni di silenzio, non sarebbe il caso di riprendere il discorso ora che la situazione è molto mutata e di riavviare la causa di beatificazione. Il bicentenario della nascita potrebbe essere una buona occasione.
Eppure, fra 2009 e 2011 non eravamo partiti male. Per esempio, avevamo cominciato col chiederci se davvero la scelta unitaria era l’unica, se il federalismo di Gioberti e di Cattaneo erano poi strade così impraticabili. Qualcuno si era domandato se i governi dei vari Stati preunitari erano poi davvero così inetti o così feroci: a cominciare da quello del papa-re. Quelle voci sono state frettolosamente zittite. Si è preferita la strada della retorica conformista. E così, una volta data una risposta retorica e astratta ai problemi che il Risorgimento aveva lasciato aperti, si è dovuto tacere sulla domanda posta dai fallimenti successivi. E allora a bocce ferme, come si dice, bisognerebbe ripartire dall’esame di questi Stati italiani preunitari e dai loro protagonisti. E forse ci aspetterebbero delle sorprese. Anche sul piano dei personaggi minori. Come ad esempio Maria Cristina di Savoia, della quale il 14 novembre prossimo potremmo celebrare il secondo centenario della nascita: e almeno i piemontesi, i sardi, tutti i meridionali nonché in genere i cattolici dovrebbero farlo: perché questa ragazza immaturamente scomparsa a ventiquattro anni da regina delle Due Sicilie, spirata in odore di santità e a proposito della quale esiste una causa di beatificazione ancora aperta, è pur degna di essere ricordata più di tanti utopisti, politici spregiudicati e avventurieri che hanno fatto l’Italia. Perché mai per esempio tanto schiamazzo attorno a Virginia Oldoini contessa di Castiglione, meritevole soprattutto di aver accordato le sue giovani grazie a Napoleone III, e attorno a Maria Cristina invece tanto silenzio, rotto soltanto dal libro La reginella santa che gli dedicò nel 2000 Luciano Regolo?
Maria Cristina di Savoia era figlia secondogenita di Vittorio Emanuele I (1759-1824, re di Sardegna tra 1802 e 1821) e di Maria Teresa d’Asburgo-Este (1773-1832). Il re di Napoli Francesco I l’aveva presa in considerazione come possibile sposa per il proprio figlio Ferdinando (futuro Ferdinando II), insieme ad altre candidature. Sembra che già dal 1817 si fosse pensato a un’unione, quando Ferdinando aveva sette anni e lei cinque. Ferdinando si affezionò all’idea delle nozze, ancor prima di salire al trono nel 1830; ma vi erano perplessità da parte della madre di lei, sia per notizie poco rassicuranti sulla salute del principe napoletano (soffriva di epilessia) sia per oscuri e funesti presagi. Ferdinando poteva però contare sull’appoggio di Carlo Alberto, a sua volta re di Sardegna dal 1831. Alla fine, dopo tira-e-molla diplomatici di varia natura, ma soprattutto dopo la morte della madre, Maria Cristina (pressata da Carlo Alberto e dal confessore della defunta genitrice, padre Terzi) vinse gli scrupoli religiosi per il matrimonio e accettò. Aveva detto più volte di preferire alle gioie e alla pompe del mondo il ritiro nel chiostro e la pace del cuore, specie dopo la morte della madre. Finalmente, il 21 novembre 1832, avvenne a Genova il rito religioso. Per la verità, secondo Harold Acton, «Quando fu l’ora di vestirsi per la cerimonia (Maria Cristina) scoppiò in lacrime e le sue dame non sapevano in qual modo confortarla. Maria Cristina rispose che non poteva cacciare da sé il terrore del matrimonio, per il quale non aveva la minima inclinazione». Poi però, per tutta la cerimonia, tenne un contegno perfetto. Il suo riserbo e la sua misura meritarono l’elogio che il giovane conte Camillo di Cavour le dedicò in una lettera. Contrariamente a quanto in seguito si disse, soprattutto quando montò la leggenda nera contro Ferdinando, l’unione fu nel complesso piuttosto felice.
Certo, il carattere dei due era diverso: timida e riservata lei, esuberante e vitale lui; ma in un certo senso si completavano a vicenda. Grazie alla sua influenza, il re incrementò il suo impegno nella direzione delle opere di carità. Tranne i “liberali” più estremisti, il consenso e la simpatia nei confronti della giovane regina erano unanimi; ma gli scontenti l’accusavano di essere bigotta, superstiziosa, soggetta al controllo dei gesuiti, strumento della reazione clericale e monarchica in quanto pegno dell’alleanza tra Savoia, Borboni e Asburgo (sua sorella maggiore, Maria Anna, era andata sposa all’imperatore Ferdinando I d’Austria). Dopo tre anni di matrimonio, la mancanza di un figlio faceva soffrire Maria Cristina, che pregava senza posa per ottenere quella grazia. Finalmente, nel 1835, avvertì il sorgere della gravidanza. Passò gli ultimi mesi nella reggia di Portici ch’era luogo più sereno di Napoli: ma forse presagiva qualcosa. All’avvicinarsi del parto scriveva alla sorella: «Questa vecchia va a Napoli per partorire e morire». Purtroppo era vero: infatti l’erede al trono nacque il 16 gennaio e già il 29 Maria Cristina era morente per complicazioni sopravvenute dopo il parto. Prendendo in braccio il tanto atteso piccolo Francesco (futuro Francesco II) e porgendolo al re suo marito, disse: «Tu ne risponderai a Dio e al popolo… e quando sarà grande gli dirai che io muoio per lui». Il 31 gennaio 1836 in piena comunione con Dio, la sovrana si addormentò per sempre. I solenni funerali furono celebrati l’8 febbraio e il suo corpo fu tumulato nella basilica di Santa Chiara. Il dolore del re per la morte della sposa fu vivissimo e del tutto sincero.
La fama di pietas di Maria Cristina si consolidò nei decenni successivi: nota era, fra l’altro, la sua devozione alla Vergine Maria. Fu istruito un processo di canonizzazione: e sembra che tra i documenti vaticani raccolti per la circostanza vi siano anche tracce di qualche probabile miracolo. Ma, dopo l’Unità d’Italia, le circostanze politiche e le pressioni anticlericali non favorivano certo l’elevazione sugli altari di una regina. per giunta borbonica. Più tardi, nel 1937, Pio XI ne dichiarò eroico l’esercizio delle virtù cristiane autorizzandone il culto come “venerabile”. Poi tutto si fermò. C’è da chiedersi se, dopo tanti anni di silenzio, non sarebbe il caso di riprendere il discorso ora che la situazione è molto mutata e di riavviare la causa di beatificazione. Il bicentenario della nascita potrebbe essere una buona occasione.
«Avvenire» del 20 agosto 2012
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