Una conferenza sul putsch che nel 43 a.C. segnò l’ascesa del futuro Augusto
di Luciano Canfora
di Luciano Canfora
Il ciclo di lezioni Pubblichiamo una sintesi della conferenza sul tema «Ottaviano e la prima marcia su Roma», che Luciano Canfora terrà domani nella capitale L’incontro si svolge all’Auditorium Parco della Musica nell’ambito del ciclo «Lezioni di storia. I giorni di Roma», organizzato dalla Fondazione Musica per Roma con l’editore Laterza
È il 19 agosto dell’anno 43 avanti Cristo. «Attraversato il Rubicone, il fiume che segna il confine tra Gallia Cisalpina e Italia, proprio quel fiume che suo padre aveva attraversato allo stesso modo quando ebbe inizio la guerra civile, Ottaviano divise l’esercito in due parti. All’una ordinò di procedere con calma; con l’altra, migliore, mosse rapidamente verso Roma». Così lo storico Appiano di Alessandria narra il secondo passaggio del Rubicone. Ottaviano, figlio adottivo di Cesare, nonché unico superstite dei capi che, per conto del Senato, hanno affrontato Antonio - l’erede politico di Cesare! -, nella campagna ferocissima sotto Modena, per impedirgli il controllo della Gallia Cisalpina, marcia, appena diciannovenne, contro Roma. Vuole imporre al Senato la propria elezione al consolato, massimo potere statale, in violazione di tutte le leggi della Repubblica. Due legioni chiamate dall’Africa, incaricate di presidiare il Gianicolo per sbarrare la strada all’usurpatore, passano dall’altra parte. Il Senato manda a dire all’usurpatore che si potrebbero indire regolari elezioni cui lui potrebbe partecipare. Ma è troppo tardi. Un manipolo di uomini armati, capeggiati dal centurione Cornelio - è Svetonio che lo racconta - è ormai davanti al Senato. Entrato, getta indietro il mantello e mostrando l’elsa della spada quasi del tutto sfoderata «non esita a dire in piena Curia: «Questa lo farà console se non lo farete voi!». Ottaviano era un precoce. Poco più che adolescente era già un politico consumato, capace in ogni istante di misurare i risultati delle sue azioni ed i rapporti di forza. Usava dire che «coloro che corrono dietro un piccolo vantaggio con un grande rischio sono come quelli che vanno a pesca con un amo d’oro». Mentre marciava su Roma aveva fatto rifugiare le sue donne - la madre Azia e la sorella - nel tempio di Vesta, sotto la protezione delle vestali. Entrato in Roma volle che esse gli venissero incontro sulla soglia del tempio. Sapeva, come già il suo padre adottivo - che era uno scettico, ma anche pontefice massimo - che la religione ha un ruolo fondamentale nella politica. Al suo ingresso in Senato, dopo il liquefarsi degli eserciti regolari che avrebbero dovuto fermarlo, incontrò con fare condiscendente i senatori che fecero la fila per stringergli la mano. In coda alla fila c’era Cicerone, il quale ebbe la debolezza e il cattivo gusto di vantarsi con lui di essere stato il primo a proporre in Senato che gli fosse aperta la strada al consolato. Ottaviano rispose con sarcasmo definendolo «l’ultimo dei suoi amici»: gioco di parole sul doppio valore di «ultimo». Il vecchio statista che si umilia davanti al giovane avventuriero ha suggerito a Ronald Syme in quel capolavoro della storiografia del Novecento che è La rivoluzione romana, il confronto con il vecchio Giolitti che avalla la presa del potere, previa «marcia su Roma», da parte di Mussolini. Come ha scritto efficacemente Arnaldo Momigliano, che lesse quel capolavoro nella Oxford ormai oscurata per timore delle bombe tedesche nel settembre 1939, «il libro afferrava il lettore, stabiliva un rapporto immediato tra l’antica marcia su Roma e la nuova, tra la conquista del potere di Augusto e il colpo di Stato di Mussolini, e forse quello di Hitler». (Momigliano scriveva queste parole nel 1962 quando non era obbligatorio, per essere «politicamente corretti», affermare che Hitler aveva preso il potere con regolari elezioni). Un pregio grande del libro di Syme era che l’analogia scaturisse dalle cose, mai i nomi della vicenda politica contemporanea sono pronunciati. Le analogie più incisive sono che quelle che non hanno bisogno di cartelli segnalatori. Il fulcro era proprio sul ruolo di Cicerone, statista di consumata esperienza che si illude di pilotare il giovane avventuriero il quale a sua volta si presenta come il difensore della legge e dell’ordine contro l’«eversivo» Marco Antonio. Il «ragazzo» - così Cicerone lo chiamava scrivendo ad amici fidati lettere che tuttora si conservano - sarebbe stato messo da parte una volta assolto il suo compito. Cicerone lo fece colmare di onori prematuri e comandi straordinari, lo fece affiancare ai consoli che combattevano Antonio intorno alla città di Modena. Diceva «bisogna sollevarlo»: tollendus, che in latino significa tanto «portarlo in alto» quanto «toglierlo di mezzo». Credeva di avere a che fare con una pedina. Ottaviano stette al gioco, perseguendo il suo gioco. Riuscì a rimanere unico comandante sul campo delle truppe «regolari» della Repubblica, e qualcuno con buona ragione pensò che avesse liquidato o fatto liquidare lui i due consoli, incredibilmente morti entrambi nella campagna contro Antonio («pari fato» diceva Ovidio, con un allusivo «per uguale fatalità»). Dopo di che, sventato il rischio di vedersi dare il benservito - ma non era facile coi consoli morti tutti e due sul campo -, fece una conversione netta degli eserciti piovutigli tra mano e marciò contro il Senato, attonito e frastornato, invano messo in guardia da Marco Bruto, lontano e pronto ad una nuova guerra civile. Syme aveva scritto il suo grande libro nel 1938, e lo licenziò per la stampa nel giugno ‘39. La situazione politica europea tra la vigliaccheria anglo-francese a Monaco e la caduta di Madrid (marzo ‘39), mentre montava la crisi per Danzica, era radicalmente cambiata. Perciò stonano le parole di comprensione per il regime augusteo che Syme pone al centro della sua prefazione: «Alla fine non resta che accettare il principato poiché esso se da un lato abolisce la libertà politica, dall’altro vale a scongiurare la guerra civile». Illusione rovinosa.
«Corriere della sera» dell’11 novembre 2006
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