La sconfitta del campione mostra agli eterni adolescenti che la paura non deve paralizzare
di Geminello Alvi
Ecco lì sull’asfalto, disarcionato e in caduta trascinata perfetta accanto alla motocicletta pure lei gialla e che pare animata. Ma all’arrivo è in un’epica migliore che se avesse vinto. Valentino Rossi, seppure col viso coperto dalla calotta del suo casco, s’intende sotto non ha l’espressione di sempre, da ragazzino eterno. Finora ha vinto con incredibile talento non so quanto, e certo ha messo anche allegria, e poi non s’è montato la testa. Già è molto. Tuttavia nel suo vincere reiterato e ovvio, pareva ormai l’immagine finta di un cartone animato, anestetizzante, in una vita senza confini tra giovinezza e infanzia. E non ci fosse stata la caduta a donare la vittoria di Valencia ad un altro, sarebbe stata soltanto l’altra puntata d’una vittoria scontata. Formidabile certo. Ma quant’è più epica la sua caduta, che gli dà un destino: da giovane eterno ragazzino ce lo fa apparire divenuto un uomo. Magari ancora giovane ma con un dolore che gli da un’altra piega al viso. Perciò vale più di una vittoria. È quasi inevitabile che l’eroe per essere tale sia sconfitto, è ovvio in Omero e ancor evidente ai giapponesi, e alle anime sensate. In questo senso la caduta di Rossi, che adesso non viene più da chiamarlo Valentino, è l’evento della settimana più di ogni altro. Dunque ne deriva grande conforto, già solo perché è notizia che non riguarda gli affari della politica. Dalla quale ogni persona nutrita di sano buon senso tende a distaccarsi, pur restando una triste iattura questo governo. Rossi umiliato mentre vince l’altro meno bravo di lui, ce lo rende finalmente un altro. Ed è la notizia da capire. Tanto più interessante se solo si pensa agli altri giovani, meno fortunati e però in fondo come lui, molto più ragazzini di quanto si era prima alla stessa età. Perché non si inizia a lavorare presto come una volta e si vive anestetizzati da ipnosi tv, nervosi ma ormai sempre meno concentrati. E per certo molto più impauriti dalla vita, perché senza grandi e vere prove. Si pensi alla generazione che nel dopoguerra la sua giovinezza l’aveva bruciata in guerra, ed ereditava macerie e miseria. Beh non aveva paura come questa. E neppure quella degli Anni 70 coi suoi slanci confusi e che hanno accelerato tanti mali: era mal guidata da marxismi perniciosi. Ma peccava d’incoscienza, non di paura. E i nipoti dei primi e i figli dei secondi invece? Hanno per lo più paura di cadere, si sentono tutti senza rete. E ciò per un semplicissimo perché: non sono mai caduti; o meglio le loro esistenze, siano poveri di una periferia infame a Napoli o invece figli di ricchi milanesi, sono state sterilizzate. Tv, pedagogie nelle scuole sempre più povere di caratteri, famiglie senza una loro forza, hanno tolto verità di vita e carattere alla più parte di loro. Il prolungarsi dell’adolescenza ben oltre i trent’anni, così ben confermato dal vivere in famiglia il più possibile, non dipende solo dal precariato o da case costose. Le sociologie materialiste non possono coi loro ideologismi snob spiegare lo spirito, che è l’intelligenza e la morale della gente. Ambedue nei giovani indebolite per annegamento in videogiochi, asili socializzanti, sinistrismi della satira, università, mestieri simulati o scadenti. Cadere e rialzarsi da soli è il solo modo per migliorarsi, la sola epica. Il resto è politica, ovvero chiacchiera disutile e pessima.
«Corriere della sera» del 31 ottobre 2006
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