di Vittorio Sgarbi
Achille Serra è un prefetto misurato, equilibrato, saggio. Ora ne conosciamo la storia e le vicende avventurose attraverso un libro scritto con la collaborazione di Monica Perutti, che ha raccolto le sue meditazioni e la storia delle sue avventure a Milano negli anni di piombo e della malavita organizzata: Poliziotto senza pistola. Le ragioni sono spiegate nella introduzione: «Non è una semplice biografia, non è un libro di storia, non è una cronaca. E allora perché seguire il racconto della vita di un uomo d’ordine? Perché in queste pagine sono raccolti alcuni tra i momenti più significativi degli ultimi 40 anni della storia d’Italia, ma vissuti in prima persona e descritti con gli occhi dell’uomo, prima ancora che con quelli del poliziotto. Passano davanti ai nostri occhi, Vallanzasca, Luigi Calabresi, Mario Capanna, Pinelli, il povero poliziotto Antonio Annarumma, ucciso a 22 anni con un palo di ferro conficcato nella tempia in uno scontro con gli studenti nell’autunno caldo del 1969. Annarumma era un ragazzo, un ragazzo povero, tutto meno che uno strumento del potere. Serra racconta del padre che arriva da Monteforte Irpino per vedere il figlio morto: «Di fronte alla salma del suo unico figlio maschio, quell’uomo, un contadino che aveva sempre lavorato la terra dei padroni, che in una vita di stenti aveva in Antonio l’unico aiuto per tirare avanti (ogni mese delle 65mila lire che guadagnava, il ragazzo ne spediva al suo paese 40mila), si buttò in ginocchio, non riusciva neanche a piangere. Riusciva solo a chiedere, a gridare: “Perché?”». Davanti a questa immagine di verità, Serra si indigna contro la stampa tendenziosa: «Nella ricostruzione della scena della morte di Antonio Annarumma si scrisse che, forse, l’agente era stato vittima della sua stessa incapacità: mentre cercava di sfuggire alla morsa della folla, in Via Larga, sarebbe andato a sbattere contro qualcosa e avrebbe picchiato la testa». Serra non trova migliore sostegno alla sua interpretazione di quei momenti terribili dei versi di Pierpaolo Pasolini che ribaltano il rapporto tra studenti e poliziotti:
«Adesso i giornalisti di tutto il mondo
Compresi quelli delle televisioni) vi leccano (come credo ancora si dica nel linguaggio dell’università) il culo. Io no, amici. Avete facce di figli di papà....
Avete lo stesso occhio cattivo.
Siete paurosi, incerti, disperati
(benissimo) ma sapete anche come essere
Prepotenti, ricattatori e sicuri:
prerogative piccoloborghesi, amici.
Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte
Coi poliziotti,
io ho simpatizzato coi poliziotti!
Perché i poliziotti sono figli di poveri.
Vengono da periferie, contadine o urbane che siano.
Quanto a me, conosco assai bene il loro modo di essere stati bambini e ragazzi,
le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui,
a causa della miseria che non dà autorità....
Hanno vent’anni, la vostra età, cari e care....
I ragazzi poliziotti
Che voi per sacro teppismo
Di figli di papà, avete bastonato,
appartengono all’altra classe sociale.
A Valle Giulia, ieri, si è così avuto un frammento
Di lotta di classe: e voi, amici
(benché dalla parte
della ragione) eravate i ricchi,
mentre i poliziotti (erano della parte
del torto) erano i poveri».
Il poliziotto senza Pistola la pensa come Pasolini e racconta una storia nella quale i buoni non sono quelli che abbiamo creduto e i cattivi non sono quelli che abbiamo accusato. Straordinaria è la sua ammirazione per Luigi Calabresi, la perfetta consapevolezza delle qualità dell’uomo, della sua umanità, della assoluta impossibilità che egli potesse avere fatto qualcosa contro Pinelli. Nessuno difese Calabresi in quegli anni e Calabresi, accusato da Camilla Cederna e da Dario Fo, fu ucciso. Oggi tutti comprendiamo le ragioni di Adriano Sofri, l’inutilità di tenerlo in carcere, non perché malato, ma perché totalmente redento dalla visione di quegli anni, totalmente mutato, e tale da non poter essere riportato a una diversa visione del mondo dal carcere. Ma Serra, che non si fa trascinare dalla interpretazione di una storia diversa dalla storia che egli ha vissuto in prima persona, non accetta che siano dimenticate le ragioni di Calabresi e ascoltate soltanto quelle di Sofri per cui tutti si muovono a una richiesta di grazia che, con stupore di Serra, Sofri stesso non ha chiesto. Serra sa che Calabresi è uomo diverso da quello descritto dalla Cederna; e la sua testimonianza diventa severa e terribile quando, con assoluta tranquillità, ricorda la retorica contro le forze di polizia di numerosi intellettuali, scrittori, uomini del cinema che, senza conoscere i fatti, sull’onda dell’emozione non esitarono a firmare un documento, pubblicato su L’Espresso il 13 giugno 1971, in cui Luigi Calabresi veniva descritto come «commissario torturatore», «responsabile della morte di Pinelli». Proprio così. Ma non erano sprovveduti, erano, e sono ancora oggi considerati, i migliori, pur non esprimendo un pensiero autonomo e una capacità critica rispetto alla retorica. Furono più di ottocento questi nostri intellettuali senza vergogna. Serra candidamente ne elenca alcuni: «Tra questi c’erano i nomi dei filosofi Norberto Bobbio e Luigi Villari, dei registi e personaggi del cinema Federico Fellini, Luigi Comencini, Bernardo Bertolucci, Marco Bellocchio, Gillo Pontecorvo, Folco Quilici, Nanni Loy, dei pittori Renato Guttuso e Andrea Cascella (in verità scultore), degli editori Inge Feltrinelli, Giulio Einaudi e Vito Laterza, degli scienziati come Margherita Hack, di scrittori come Alberto Moravia, e di alcune firme autorevoli del giornalismo italiano». Alcuni sono scomparsi, ma i sopravvissuti, alla lettura del libro di Serra, dovrebbero riflettere sul loro ruolo di cattivi maestri, sulla loro mancanza di autonomia di giudizio. Perché, ed è il momento più terribile del libro di Serra, essi non firmarono, come più tardi molti di loro avrebbero fatto, per chiedere la grazia di Sofri, ma per affermare che Luigi Calabresi aveva torturato e fatto morire Pinelli. Il libro di Serra serve a restituirci di Calabresi un’altra immagine, a farcene ritrovare la persona e l’umanità. Serra, agli intellettuali sicuri delle loro menzogne risponde, non diversamente da Pasolini, ristabilendo la verità delle cose: «La verità era che Luigi Calabresi per nulla al mondo avrebbe potuto intenzionalmente fare del male a un essere umano. Ucciderlo, poi, era assolutamente impensabile. E non solo per la sua integrità di uomo, che lo aveva portato ad essere un esempio, un riferimento fondamentale per coloro che esercitavano la professione che la sua vocazione aveva scelto per lui. Causare coscientemente la morte di qualsivoglia persona, assassinare un uomo: no, non Luigi. Cattolico di profonda osservanza, capace di vivere le sue imperfezioni umane alla luce dei principi, di una religiosità scelta e vissuta, anche nei dettami più indigesti alla nostra finitezza, mai avrebbe potuto giungere a un atto così estremo». Parole forti, che siano da monito anche per il ministro di Giustizia che distribuisce grazie a chi è stato ritenuto responsabile della morte di Calabresi, senza neppure avvisarne la vedova. Per questo la lettura di Poliziotto senza pistola ha anche un significato morale.
«Il Giornale» del 19 giugno 2006
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