di Roberto Mussapi
Nessun amore per le donne. Odio per gli uomini. E il sesso come strumento di dominio. Un saggio di Claudio Risè su uno fra i principali miti del mondo moderno
Finalmente. Era l’ora. Un libro su uno dei principali miti moderni: Don Giovanni l’ingannatore, di Claudio Risé (Frassinelli, pagg. 166, euro 16). Forse è già moderno Amleto, il mito dei miti, accanto all’antico Ulisse. Nasce nel XVI secolo, età elisabettiana, diviene subito eterno, emerso dal passato e subito immerso nel nostro presente. Poi il Dottor Faustus, prima nel magnifico dramma di Christopher Marlowe, sempre età elisabettiana. Lo scienziato, dottore, filosofo, teologo che vuole sostituirsi a Dio stilando un patto col diavolo, sarà ripreso poi da Goethe, e, in quanto mito, da molti altri.
In piena età controriformista, in un’opera di Tirso de Molina, spagnolo, viene alla luce Don Giovanni: seduttore, conquista le donne nel buio, di notte, spesso mascherato, spesso stuprandole, sempre ingannandole. Ripreso in almeno due capolavori, l’opera di Mozart su testo di Da Ponte e la commedia di Molière, il cupo conquistatore diviene un simbolo premonitore, forse profetico. Oltre alle grandi opere sceniche ispira una vastissima produzione saggistica, diviene un modello di vita nell’età dell’Illuminismo, un simbolo di ribellione all’ordine convenzionale nell’Otto e nel Novecento.
Finalmente un libro che non cade nei luoghi comuni e ci presenta Don Giovanni per quello che sempre mi è parso: un collega minore di Satana, un diavolo di serie B. Nel suo illuminante studio Claudio Risé, un autore che leggo da vent’anni e che brilla per intelligenza e spirito libero, indaga la figura del bieco conquistatore di femmine attingendo ai testi in cui prende forma e fisionomia, lo legge nelle pagine in cui nasce, sottraendolo a fumose interpretazioni ideologiche, psicanalitiche, pseudoesistenzialiste. Don Giovanni, ci fa notare Risé, non è posseduto dall’eros, e nemmeno il sesso è il suo demone: per l’avventuriero nobile e altolocato, nonché squattrinato e debitore insolvente, la conquista si esaurisce nell’atto sessuale, poi la fuga, rapida, con il cavallo già pronto e il servo all’erta. Don Giovanni non ha nulla a che vedere con il piacere puro e drammatico dell’eros, vuole il possesso, la vittoria, il numero delle donne da scrivere nel suo catalogo.
L’eros muove il mondo, da sempre: nei lirici greci, poi a Roma in Catullo e in Properzio, è una divinità tormentosa e angosciante, che ci conduce al piacere ma contemporaneamente ai limiti di un amore che sfugge e svanisce nella nostra breve esistenza. L’infedeltà, il tradimento amoroso, con il loro dramma, agitano il pianto diurno di Ulisse nella grotta di Calipso, drammatizzano il suo desiderio di ritorno all’origine, all’isola di Itaca, alla moglie Penelope in contrasto con l’incanto dell’amore della dea sottomarina che lo ammalia e inizia a conoscenze profonde. Dante piange di fronte a Paolo e Francesca, Lancillotto ama talmente il suo re Artù da innamorarsi della regina Ginevra.
Fuori da quest’ottica drammatica abbiamo l’eros pieno del grande poeta Walt Whitman, fondatore della letteratura della nuova America: il suo amore sorgivo, spirituale e sensuale, è inscritto in un atto di religiosa adesione al miracolo del cosmo, al rumore dei fiumi, al mormorio del mare, al canto degli uccelli, al miracolo delle città che stanno nascendo. Amore, Eros, non sfiorano Don Giovanni, impegnato a conquistare le donne per poi abbandonarle fuggendo. Non c’è palpito in lui, ma solo esaltazione statistica, e infatti quando il servo gli domanda se creda almeno in qualcosa, egli risponde di credere che due più due fanno quattro, e quattro più quattro otto. Come ribadisce Risé, a Don Giovanni interessa il potere, un potere inteso come sovvertimento dell’ordine, in nome di un caos di cui vuole essere signore. Non ama le donne, odia l’uomo: gode ostentatamente nel tradire i mariti, uccide il padre di Anna che esce a difenderne l’onore, sfida, nella commedia di Molière, il padre supremo, Dio, piegando ai suoi desideri una suora. Non è un innamorato perenne e confuso, non è un essere posseduto dal desiderio sessuale, ma un satanico cultore della divisione e della distruzione.
Scrive magistralmente Risé che anziché esaltarlo e farne una specie di eroe del libero pensiero, quando si trattava solo di un miserabile libertino, l’Otto e il Novecento avrebbero fatto bene a trattarlo come fece il secolo in cui nacque, cioè spedirlo, senza tante storie, all’Inferno.
In piena età controriformista, in un’opera di Tirso de Molina, spagnolo, viene alla luce Don Giovanni: seduttore, conquista le donne nel buio, di notte, spesso mascherato, spesso stuprandole, sempre ingannandole. Ripreso in almeno due capolavori, l’opera di Mozart su testo di Da Ponte e la commedia di Molière, il cupo conquistatore diviene un simbolo premonitore, forse profetico. Oltre alle grandi opere sceniche ispira una vastissima produzione saggistica, diviene un modello di vita nell’età dell’Illuminismo, un simbolo di ribellione all’ordine convenzionale nell’Otto e nel Novecento.
Finalmente un libro che non cade nei luoghi comuni e ci presenta Don Giovanni per quello che sempre mi è parso: un collega minore di Satana, un diavolo di serie B. Nel suo illuminante studio Claudio Risé, un autore che leggo da vent’anni e che brilla per intelligenza e spirito libero, indaga la figura del bieco conquistatore di femmine attingendo ai testi in cui prende forma e fisionomia, lo legge nelle pagine in cui nasce, sottraendolo a fumose interpretazioni ideologiche, psicanalitiche, pseudoesistenzialiste. Don Giovanni, ci fa notare Risé, non è posseduto dall’eros, e nemmeno il sesso è il suo demone: per l’avventuriero nobile e altolocato, nonché squattrinato e debitore insolvente, la conquista si esaurisce nell’atto sessuale, poi la fuga, rapida, con il cavallo già pronto e il servo all’erta. Don Giovanni non ha nulla a che vedere con il piacere puro e drammatico dell’eros, vuole il possesso, la vittoria, il numero delle donne da scrivere nel suo catalogo.
L’eros muove il mondo, da sempre: nei lirici greci, poi a Roma in Catullo e in Properzio, è una divinità tormentosa e angosciante, che ci conduce al piacere ma contemporaneamente ai limiti di un amore che sfugge e svanisce nella nostra breve esistenza. L’infedeltà, il tradimento amoroso, con il loro dramma, agitano il pianto diurno di Ulisse nella grotta di Calipso, drammatizzano il suo desiderio di ritorno all’origine, all’isola di Itaca, alla moglie Penelope in contrasto con l’incanto dell’amore della dea sottomarina che lo ammalia e inizia a conoscenze profonde. Dante piange di fronte a Paolo e Francesca, Lancillotto ama talmente il suo re Artù da innamorarsi della regina Ginevra.
Fuori da quest’ottica drammatica abbiamo l’eros pieno del grande poeta Walt Whitman, fondatore della letteratura della nuova America: il suo amore sorgivo, spirituale e sensuale, è inscritto in un atto di religiosa adesione al miracolo del cosmo, al rumore dei fiumi, al mormorio del mare, al canto degli uccelli, al miracolo delle città che stanno nascendo. Amore, Eros, non sfiorano Don Giovanni, impegnato a conquistare le donne per poi abbandonarle fuggendo. Non c’è palpito in lui, ma solo esaltazione statistica, e infatti quando il servo gli domanda se creda almeno in qualcosa, egli risponde di credere che due più due fanno quattro, e quattro più quattro otto. Come ribadisce Risé, a Don Giovanni interessa il potere, un potere inteso come sovvertimento dell’ordine, in nome di un caos di cui vuole essere signore. Non ama le donne, odia l’uomo: gode ostentatamente nel tradire i mariti, uccide il padre di Anna che esce a difenderne l’onore, sfida, nella commedia di Molière, il padre supremo, Dio, piegando ai suoi desideri una suora. Non è un innamorato perenne e confuso, non è un essere posseduto dal desiderio sessuale, ma un satanico cultore della divisione e della distruzione.
Scrive magistralmente Risé che anziché esaltarlo e farne una specie di eroe del libero pensiero, quando si trattava solo di un miserabile libertino, l’Otto e il Novecento avrebbero fatto bene a trattarlo come fece il secolo in cui nacque, cioè spedirlo, senza tante storie, all’Inferno.
«Il Giornale» del 21 giugno 2006
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