I grandi cambiamenti
di Aldo Schiavone
La potenza della tecnica accumulata prima lentamente in milioni di anni, e poi in modo vertiginosamente rapido nell’ultimo secolo, sta rovesciando a nostro vantaggio rapporti di forza tra umano e naturale che credevamo immodificabili. Tutto questo ci dà una responsabilità enorme
Non saprei quanti se ne siano resi conto. Ma nei due discorsi pubblici, in apparenza lontani, che hanno riempito le cronache di questi giorni – prima sul cosiddetto «transumanismo», poi sulle conseguenze tragiche del terremoto (incuria degli uomini o imprevedibilità dell’ambiente?) – ha finito con l’emergere lo stesso problema, che è, forse, il maggiore dei nostri tempi: quello del rapporto con ciò che chiamiamo natura, dentro e fuori di noi. Un rapporto in cui stiamo esprimendo, insieme, un’inimmaginabile potenza e una drammatica fragilità.
Devo confessare che ho sempre trovato insopportabile la parola «transumano»: esteticamente sgradevole e concettualmente sbagliata. Suggerisce l’idea che la tecnica ci stia spingendo oltre ciò che possiamo definire umano; e perciò l’impressione di un’umanità annientata, per guadagnare uno spazio dove essa non esisterebbe più.
Ma non è così. Chi ha detto che l’umano è solo la sua forma conosciuta finora? Un umano, cioè, costretto nella prigione della sua naturalità biologica — una gabbia contro la quale lottiamo da sempre, per allargarne i confini e migliorarne le condizioni? Credo invece sia vero proprio il contrario: che un umano pienamente dispiegato e realizzato sia solo quello che ha finalmente acquisito il controllo della propria base biologica, e sia in grado perfino di trasformarla, sostituendo il disegno dell’intelligenza al piano dell’evoluzione. L’umano non è una figura già compiuta; è un progetto aperto sull’infinito. L’epoca che si sta concludendo è stata la sua preistoria. La stagione decisiva comincia solo ora.
Di questo processo — che deve essere visto come un cammino di emancipazione — la natura, interna ed esterna a noi, è solo spettatrice. Né amica, né nemica: una presenza imparziale. Carestie, epidemie, terremoti hanno scandito i tempi della nostra storia — con il dolore, le malattie, la morte. La natura non «aiuta» la vita: è già un miracolo che l’abbia resa possibile, su questo pianeta come (molto probabilmente) altrove nell’universo. Ma la mette continuamente a rischio. Senza dimenticare che in molte occasioni sarebbe bastato un niente a far sì che ora, al posto di me che scrivo o di voi che leggete, ci fossero solo dinosauri, o pesci, o (ancora più facilmente) il vuoto assoluto. Siamo una specie fortunata, anche se ha molto sofferto.
Ebbene, temo sia arrivato il momento di meritarci questa fortuna. La potenza della tecnica accumulata prima lentamente in milioni di anni, e poi in modo vertiginosamente rapido nell’ultimo secolo, sta rovesciando a nostro vantaggio rapporti di forza fra umano e naturale che credevamo immodificabili, spezzando ogni confine ricevuto, fino al punto da rendere sempre più difficile la distinzione fra natura e artificio, fra possibile e impossibile, fra naturalmente prodotto e artificialmente costruito. I terremoti possono non far più paura, e l’ingegneria genetica e gli impianti possono ridisegnare dalle fondamenta le nostre esistenze.
Questo passaggio ci dà una responsabilità enorme, perché sta mettendo, per la prima volta da quando esistiamo, la nostra storia interamente nelle nostre mani. Comincia a renderci completamente padroni del nostro destino. Ma la nuova potenza va disciplinata, condivisa. Le opportunità che crea, equamente ripartite. Avremo di fronte — cominciamo già ad averli — problemi sociali inauditi — di accesso, di eguaglianza, di identità — rispetto a cui quelli posti dalla rivoluzione industriale, che pure ci hanno dominato per oltre due secoli, sembreranno solo piccole cose. Ma di fronte a tutto questo, la politica tace. Rimuove o non vede: da noi, come altrove. Perché stupirci, se tutti l’abbandonano?
Devo confessare che ho sempre trovato insopportabile la parola «transumano»: esteticamente sgradevole e concettualmente sbagliata. Suggerisce l’idea che la tecnica ci stia spingendo oltre ciò che possiamo definire umano; e perciò l’impressione di un’umanità annientata, per guadagnare uno spazio dove essa non esisterebbe più.
Ma non è così. Chi ha detto che l’umano è solo la sua forma conosciuta finora? Un umano, cioè, costretto nella prigione della sua naturalità biologica — una gabbia contro la quale lottiamo da sempre, per allargarne i confini e migliorarne le condizioni? Credo invece sia vero proprio il contrario: che un umano pienamente dispiegato e realizzato sia solo quello che ha finalmente acquisito il controllo della propria base biologica, e sia in grado perfino di trasformarla, sostituendo il disegno dell’intelligenza al piano dell’evoluzione. L’umano non è una figura già compiuta; è un progetto aperto sull’infinito. L’epoca che si sta concludendo è stata la sua preistoria. La stagione decisiva comincia solo ora.
Di questo processo — che deve essere visto come un cammino di emancipazione — la natura, interna ed esterna a noi, è solo spettatrice. Né amica, né nemica: una presenza imparziale. Carestie, epidemie, terremoti hanno scandito i tempi della nostra storia — con il dolore, le malattie, la morte. La natura non «aiuta» la vita: è già un miracolo che l’abbia resa possibile, su questo pianeta come (molto probabilmente) altrove nell’universo. Ma la mette continuamente a rischio. Senza dimenticare che in molte occasioni sarebbe bastato un niente a far sì che ora, al posto di me che scrivo o di voi che leggete, ci fossero solo dinosauri, o pesci, o (ancora più facilmente) il vuoto assoluto. Siamo una specie fortunata, anche se ha molto sofferto.
Ebbene, temo sia arrivato il momento di meritarci questa fortuna. La potenza della tecnica accumulata prima lentamente in milioni di anni, e poi in modo vertiginosamente rapido nell’ultimo secolo, sta rovesciando a nostro vantaggio rapporti di forza fra umano e naturale che credevamo immodificabili, spezzando ogni confine ricevuto, fino al punto da rendere sempre più difficile la distinzione fra natura e artificio, fra possibile e impossibile, fra naturalmente prodotto e artificialmente costruito. I terremoti possono non far più paura, e l’ingegneria genetica e gli impianti possono ridisegnare dalle fondamenta le nostre esistenze.
Questo passaggio ci dà una responsabilità enorme, perché sta mettendo, per la prima volta da quando esistiamo, la nostra storia interamente nelle nostre mani. Comincia a renderci completamente padroni del nostro destino. Ma la nuova potenza va disciplinata, condivisa. Le opportunità che crea, equamente ripartite. Avremo di fronte — cominciamo già ad averli — problemi sociali inauditi — di accesso, di eguaglianza, di identità — rispetto a cui quelli posti dalla rivoluzione industriale, che pure ci hanno dominato per oltre due secoli, sembreranno solo piccole cose. Ma di fronte a tutto questo, la politica tace. Rimuove o non vede: da noi, come altrove. Perché stupirci, se tutti l’abbandonano?
«Corriere della sera» del 9 settembre 2016
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