di Carlo Cardia
Può sembrare una polemica leggera, quella che s’è aperta e sviluppata in alcuni Paesi europei, e di riflesso in Italia, sulla questione del "burkini", ma in fondo non lo è, soprattutto per i toni e alcune scelte che ne sono derivate. Indico due esempi. In Francia, seguendo l’orgogliosa (ma assai angusta) rivendicazione della laïcité che è propria della tradizione gallicana, si tende alla proibizione più o meno integrale del modo di vestire di alcune donne musulmane quando si trovano in luoghi di mare.
Il Paese che non tollera simboli religiosi in pubblico (ma li accetta quando sono utili come attrazioni turistiche), che proibisce il velo o la stella di Davide anche agli studenti e persino nelle gite scolastiche, che intende formare decine di migliaia di professori con l’esclusiva funzione di diffondere i valori repubblicani della laïcité, ed è giunta a suggerire il divieto per gli atleti di farsi il segno della Croce prima di entrare in un campo sportivo, o durante la gara, questa Francia ha creduto di non potersi esimere (quasi per coerenza estrema) dal vietare una vestimento che evoca un’appartenenza confessionale o culturale.
In Italia, dove non s’è fatta alcuna guerra al velo o ad altro simbolo, in virtù di una laicità serena e rispettosa di tutti, si sono levate alcune grida a favore del divieto, la peggiore delle quali è questa: il burkini in sé non sarebbe un problema, ma siccome viene indossato per motivi identitari da chi "combatte" l’Occidente, allora bisogna vietarlo. Affermazione di pura intolleranza, perché forzando fatti e intenzioni delle persone, scruta nelle motivazioni della scelta del burkini, e dichiara apertamente di voler respingere ogni altra identità, pur nel vestiario. Un brutto esempio, mi sembra, di come si possano, semplicemente, rifiutare gli altri.
Ragioniamo, allora, con pacatezza su un problema che può esistere, ma non è certamente al vertice della globalizzazione e delle sue conseguenze interculturali. Ci troviamo anzitutto in tema di libertà di abbigliamento, che ha dei limiti (pochi e precisi), ma anche un amplissimo spazio di esplicazione. E la varietà di fogge, personali e collettive, prodotta dentro e fuori l’abito della religione è una caratteristica di ogni tempo e cultura.
Noi italiani, per esempio, veniamo da una tradizione d’infinite fogge divenuteci familiari: religiosi, religiose, preti, prelati con abiti di tanti colori e linee, hanno riempito secoli della nostra storia e la vita quotidiana di tante generazioni, e forse per questo ci hanno abituato a una tolleranza innata, perfino a una certa curiosità, che si sono riversati poi su altri usi introdotti dal pluralismo etnico e religiosi degli ultimi decenni.
In ogni parte d’Europa, ad esempio, conosciamo i Sikh (provenienti dalla regione indiana del Punjab) che guidano autobus inglesi con il Turbante ben noto ai londinesi, poi monaci buddhisti che evocano in qualche modo i nostri monaci d’altri tempi, mentre nei decenni scorsi abbiamo conosciuto l’invasione degli "arancioni", anch’essi di provenienza orientale.
E nelle nostre spiagge, ha ricordato giustamente Chiara Saraceno, si sono sempre incontrati uomini e donne anziani (ma non solo) vestiti (quasi) di tutto punto e che non hanno alcuna voglia di fare il bagno.
Così come in spiaggia possono andare religiosi d’ogni appartenenza, anch’essi senza intenzione di bagnarsi, vestiti come vestono in città. I limiti alla libertà di abbigliamento mirano a finalità specifiche, evitare problemi di sicurezza e non trarre in inganno sul proprio status: quindi in linea di massima non si può circolare in pubblico celando la propria identità, o indossando divise militari o d’altro tipo per sfruttare la buona fede degli altri. In altri Paesi non si può indossare la divisa delle SS naziste, o analoghe fogge, per evidentissime ragioni. Divieti specifici, motivati da ragioni condivise.
Ciò spiega, tra l’altro, perché il problema del Burqa sia un problema del tutto diverso rispetto al velo o al burkini, e vada trattato con altri criteri. Cosa resta, allora, nella sostanza, delle discussioni d’agosto su una querelle francamente esagerata. Molto poco, se non un certo fastidio nel vedere una cosa così diversa e originale rispetto alle abitudini moderne, e che può generare in alcuni una reazione psicologica negativa.
Ma allora si tocca un punto importante. Come vogliamo affrontare e superare il grande tema della globalizzazione e dell’interculturalità se ci facciamo allarmare da fastidi e reazioni psicologiche secondarie? Possiamo accantonare accoglienza, pluralismo, diversità, solo per una eccentricità d’abbigliamento, confondendo princìpi decisivi per la nostra convivenza con questioni minori, e prive di autentico rilievo sociale e giuridico. Infine, l’ultimo argomento che viene sottilmente suggerito, è che le donne che indossano il burkini lo fanno senza fruire di una vera libertà, quasi costrette dal loro ambiente e dalla cultura che le condiziona e domina.
Riflettiamo anche su questo punto. C’è una certa presunzione nel voler decidere noi quando c’è sicura costrizione in questioni che non sono patologiche, e soprattutto manca una fiducia, necessaria nell’era della multiculturalità, nell’evoluzione dei costumi di tutti noi, quelli che vengono da fuori e quelli che vivono in Occidente da sempre.
L’evoluzione è continua, soprattutto in materia di abbigliamento, e ha investito e continuerà a coinvolgere i giovani, uomini e donne, d’ogni religione o cultura, secondo una freccia che non possiamo prevedere, e che non possiamo guidare a piacimento, o solo con divieti e proibizioni.
Il burkini, per esempio, non ha invaso le spiagge negli ultimi anni, e potrebbe declinare presto, e spontaneamente.
E infine, vorrà pur voler dire qualcosa se in Italia, che non ha posto divieti e proibizioni, non c’è mai stata una guerra del velo, o una guerra del crocifisso (anzi l’unica controversia legale che ha coinvolto il Crocifisso è stata superata dal nostro Paese con una vittoria dell’intelligenza e delle sana tolleranza a Strasburgo), mentre le tensioni e le infinite liti giudiziarie sono sorte nei Paesi dove s’è voluto stabilire cosa è giusto e non giusto anche per ciò che indossa una donna o un ragazzo, cristiano, ebreo, sikh, buddista o musulmano.
La strada dei divieti è larga, perché i divieti sono facili a farsi, ma porta sempre a far urtare gli uni con gli altri; la strada dell’accoglienza, quando non vi siano in gioco principi fondamentali o i diritti degli altri, è saggia perché alimenta buona e intelligente convivenza.
Il Paese che non tollera simboli religiosi in pubblico (ma li accetta quando sono utili come attrazioni turistiche), che proibisce il velo o la stella di Davide anche agli studenti e persino nelle gite scolastiche, che intende formare decine di migliaia di professori con l’esclusiva funzione di diffondere i valori repubblicani della laïcité, ed è giunta a suggerire il divieto per gli atleti di farsi il segno della Croce prima di entrare in un campo sportivo, o durante la gara, questa Francia ha creduto di non potersi esimere (quasi per coerenza estrema) dal vietare una vestimento che evoca un’appartenenza confessionale o culturale.
In Italia, dove non s’è fatta alcuna guerra al velo o ad altro simbolo, in virtù di una laicità serena e rispettosa di tutti, si sono levate alcune grida a favore del divieto, la peggiore delle quali è questa: il burkini in sé non sarebbe un problema, ma siccome viene indossato per motivi identitari da chi "combatte" l’Occidente, allora bisogna vietarlo. Affermazione di pura intolleranza, perché forzando fatti e intenzioni delle persone, scruta nelle motivazioni della scelta del burkini, e dichiara apertamente di voler respingere ogni altra identità, pur nel vestiario. Un brutto esempio, mi sembra, di come si possano, semplicemente, rifiutare gli altri.
Ragioniamo, allora, con pacatezza su un problema che può esistere, ma non è certamente al vertice della globalizzazione e delle sue conseguenze interculturali. Ci troviamo anzitutto in tema di libertà di abbigliamento, che ha dei limiti (pochi e precisi), ma anche un amplissimo spazio di esplicazione. E la varietà di fogge, personali e collettive, prodotta dentro e fuori l’abito della religione è una caratteristica di ogni tempo e cultura.
Noi italiani, per esempio, veniamo da una tradizione d’infinite fogge divenuteci familiari: religiosi, religiose, preti, prelati con abiti di tanti colori e linee, hanno riempito secoli della nostra storia e la vita quotidiana di tante generazioni, e forse per questo ci hanno abituato a una tolleranza innata, perfino a una certa curiosità, che si sono riversati poi su altri usi introdotti dal pluralismo etnico e religiosi degli ultimi decenni.
In ogni parte d’Europa, ad esempio, conosciamo i Sikh (provenienti dalla regione indiana del Punjab) che guidano autobus inglesi con il Turbante ben noto ai londinesi, poi monaci buddhisti che evocano in qualche modo i nostri monaci d’altri tempi, mentre nei decenni scorsi abbiamo conosciuto l’invasione degli "arancioni", anch’essi di provenienza orientale.
E nelle nostre spiagge, ha ricordato giustamente Chiara Saraceno, si sono sempre incontrati uomini e donne anziani (ma non solo) vestiti (quasi) di tutto punto e che non hanno alcuna voglia di fare il bagno.
Così come in spiaggia possono andare religiosi d’ogni appartenenza, anch’essi senza intenzione di bagnarsi, vestiti come vestono in città. I limiti alla libertà di abbigliamento mirano a finalità specifiche, evitare problemi di sicurezza e non trarre in inganno sul proprio status: quindi in linea di massima non si può circolare in pubblico celando la propria identità, o indossando divise militari o d’altro tipo per sfruttare la buona fede degli altri. In altri Paesi non si può indossare la divisa delle SS naziste, o analoghe fogge, per evidentissime ragioni. Divieti specifici, motivati da ragioni condivise.
Ciò spiega, tra l’altro, perché il problema del Burqa sia un problema del tutto diverso rispetto al velo o al burkini, e vada trattato con altri criteri. Cosa resta, allora, nella sostanza, delle discussioni d’agosto su una querelle francamente esagerata. Molto poco, se non un certo fastidio nel vedere una cosa così diversa e originale rispetto alle abitudini moderne, e che può generare in alcuni una reazione psicologica negativa.
Ma allora si tocca un punto importante. Come vogliamo affrontare e superare il grande tema della globalizzazione e dell’interculturalità se ci facciamo allarmare da fastidi e reazioni psicologiche secondarie? Possiamo accantonare accoglienza, pluralismo, diversità, solo per una eccentricità d’abbigliamento, confondendo princìpi decisivi per la nostra convivenza con questioni minori, e prive di autentico rilievo sociale e giuridico. Infine, l’ultimo argomento che viene sottilmente suggerito, è che le donne che indossano il burkini lo fanno senza fruire di una vera libertà, quasi costrette dal loro ambiente e dalla cultura che le condiziona e domina.
Riflettiamo anche su questo punto. C’è una certa presunzione nel voler decidere noi quando c’è sicura costrizione in questioni che non sono patologiche, e soprattutto manca una fiducia, necessaria nell’era della multiculturalità, nell’evoluzione dei costumi di tutti noi, quelli che vengono da fuori e quelli che vivono in Occidente da sempre.
L’evoluzione è continua, soprattutto in materia di abbigliamento, e ha investito e continuerà a coinvolgere i giovani, uomini e donne, d’ogni religione o cultura, secondo una freccia che non possiamo prevedere, e che non possiamo guidare a piacimento, o solo con divieti e proibizioni.
Il burkini, per esempio, non ha invaso le spiagge negli ultimi anni, e potrebbe declinare presto, e spontaneamente.
E infine, vorrà pur voler dire qualcosa se in Italia, che non ha posto divieti e proibizioni, non c’è mai stata una guerra del velo, o una guerra del crocifisso (anzi l’unica controversia legale che ha coinvolto il Crocifisso è stata superata dal nostro Paese con una vittoria dell’intelligenza e delle sana tolleranza a Strasburgo), mentre le tensioni e le infinite liti giudiziarie sono sorte nei Paesi dove s’è voluto stabilire cosa è giusto e non giusto anche per ciò che indossa una donna o un ragazzo, cristiano, ebreo, sikh, buddista o musulmano.
La strada dei divieti è larga, perché i divieti sono facili a farsi, ma porta sempre a far urtare gli uni con gli altri; la strada dell’accoglienza, quando non vi siano in gioco principi fondamentali o i diritti degli altri, è saggia perché alimenta buona e intelligente convivenza.
«Avvenire» del 21 agosto 2016
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