Senza responsabilità non c’è satira
di Carlo Cardia
Forse è necessario riflettere ancora sulle vignette che il giornale satirico francese “Charlie Hebdo” ha pubblicato con riferimento al terremoto in Italia, e ai lutti che ne sono seguiti. Vignette che evocano inevitabilmente le caricature del passato contro la religione, la Chiesa e tanti altri soggetti. In molti casi, l’oggetto del dileggio e della satira sono stati i sentimenti delle persone, quelli più intimi religiosi, e quel grumo di sofferenza, personale e collettiva, che scaturisce dalla morte dei propri familiari, amici, connazionali. Quindi, possiamo osservare subito, non una satira contro i potenti, ma contro i deboli, contro chi non può difendersi, perché inerme.
Penso si possa muovere dalla ragione ultima, dal focus di legittimità, con cui alcuni difendono il diritto di satira sempre e comunque: il ritenere che la libertà d’espressione non abbia confini, sia onnipotente. In effetti, offendere, umiliare, quel sentimento di pietà che proviamo di fronte alle vittime di tsunami, alluvioni, terremoti, calamità che colpiscono questo pianeta e noi che lo abitiamo, vuol dire cedere a quella cultura dell’effimero che sta insinuando nella nostra mente un veleno distruttivo, appunto il veleno dell’onnipotenza.
È arduo graduare i valori colpiti da questo veleno, li indico senza gerarchia. È colpito il cuore della società liberale che nasce per far lievitare il rispetto della dignità umana delle persone, consentire l’espressione di tutte le idee, mentre l’offesa e il disprezzo declassano l’identità di una persona, cancellano il rispetto per le sue idee, la sua interiorità, feriscono l’eguale libertà che il liberalismo ha introdotto nella modernità. Non c’è eguale libertà se possiamo offendere gli altri e gli altri non possono offendere noi, per il semplice motivo che il mezzo (mediatico) dell’oltraggio ha oggi un valore planetario, schiaccia chiunque. E poi, se pur fosse possibile rispondere con l’offesa all’offesa, e tutti si diffamassero e calunniassero reciprocamente, non saremmo in una società libera, bensì nell’anticamera di una guerra che può far scoppiare l’umanità.
Colpito al cuore dalla libertà d’offesa è anche quel decalogo dei diritti umani del Novecento su cui si fonda la società contemporanea, perché esso tutela, nello spirito e nella lettera, il rispetto della dignità della persona, chiede a tutti di vivere almeno in spirito di pacificazione. Ma quale dignità può avere una persona se è perfino teorizzato il diritto opposto di irridere, vilipendere, nel peggiore dei modi, i suoi sentimenti di pietà di fronte alla morte, o quel sentire religioso che è parte integrante della sua personalità? Veniamo così al punto cruciale. In alcuni ordinamenti occidentali è considerato normale che le offese contro le religioni, le convinzioni, i sentimenti della persona, non trovino limite, anche se raggiungono i vertici del dileggio più assurdo, e spesso (come nel caso odierno) della stupidità più grande. Chiediamoci se una cosa del genere non sia il frutto di una disumanizzazione delle nostre relazioni di convivenza. Ciò che è accaduto è possibile solo se partiamo da un principio che sta assumendo ormai il carattere di un tabù, per il quale “bisogna attribuire all’umorista la dimensione dell’irresponsabilità totale”. Non è solo un’opinione, oggi la satira è totalmente irresponsabile.
Riflettiamo allora su questa assurdità che supera ogni altra, perché non c’è campo dell’agire umano che possa ritenersi libero da responsabilità. L’«irresponsabilità totale» è l’attributo più odioso e odiato del potere assoluto, anzi è sinonimo di «potere totalitario», di un potere che fa degli altri ciò che vuole, senza vincolo di legge o morale, li emargina, li declassa, spesso li distrugge. Riccardo De Benedetti ha osservato che la satira riesce con la sua irresponsabilità totale a superare il valore della parola: l’immagine ottiene, in epoca mediatica, il più grande effetto blasfemo senza dire una sola parola.
Ma una vignetta formula spesso più che una parola, riassume a volte un discorso intero, e una narrazione irresponsabile è qualcosa che, dal profondo della coscienza, sappiamo di non poter accettare. In un recentissimo testo dal titolo “Quando la parola ferisce”, Cristiana Cianitto, mette a nudo la schizofrenia di una modernità globalizzata che da un lato utilizza la blasfemia per colpire la diversità religiosa, e dall’altro recepisce la libertà di espressione come libertà di offendere chiunque, senza distinzione. E infatti l’irresponsabilità totale fa degenerare ogni cosa, perfino la satira: perché una satira disumana non è più arguta, ariosa, graffiante, diventa cattiva, triste, orribile, infrange anche la pietà che nessuno nega mai alle vittime delle tragedie, naturali o no. Per dir meglio: la satira che dovrebbe graffiare i potenti, si fa onnipotente essa stessa e offende i più deboli, persino i defunti, rovescia la propria funzione e il proprio ruolo.
Però, una satira che non colpisce i potenti, ma i deboli, conduce a qualcosa che è l’antitesi dei diritti umani, la libertà di parola spinta all’assoluto provoca una formidabile regressione della libertà. Lancia un messaggio deprimente agli altri, a cominciare dai giovani: pensiamo ai giovani di tutte le razze, tradizioni e religioni, che ormai vivono in Italia e in Europa, e che sono i primi a gioire del sorriso, e dell’irrisione. Ma attenzione, sono anche i primi a dolersi della bruttezza e dell’oscenità che sporcano tutto, a rifiutarle come fonti di disgusto. Ricordo un pensiero espresso tempo addietro sul “Corriere della Sera” da Julián Carrón, per il quale l’Europa «è uno spazio di libertà», che «non vuol dire spazio vuoto, deserto di proposte di vita, perché di nulla non si vive». E il problema dell’Europa è se «essa saprà diventare finalmente il luogo di un incontro reale tra proposte di significato, pur diverse e molteplici». E possiamo aggiungere, per quanti credono di poter difendere la satira in nome del liberalismo, l’indicazione di Immanuel Kant per il quale l’uomo deve agire nel rispetto degli altri, perché «la dignità che egli possiede è ciò che rende eguali tutte le persone», è «un valore interiore assoluto».
Penso si possa muovere dalla ragione ultima, dal focus di legittimità, con cui alcuni difendono il diritto di satira sempre e comunque: il ritenere che la libertà d’espressione non abbia confini, sia onnipotente. In effetti, offendere, umiliare, quel sentimento di pietà che proviamo di fronte alle vittime di tsunami, alluvioni, terremoti, calamità che colpiscono questo pianeta e noi che lo abitiamo, vuol dire cedere a quella cultura dell’effimero che sta insinuando nella nostra mente un veleno distruttivo, appunto il veleno dell’onnipotenza.
È arduo graduare i valori colpiti da questo veleno, li indico senza gerarchia. È colpito il cuore della società liberale che nasce per far lievitare il rispetto della dignità umana delle persone, consentire l’espressione di tutte le idee, mentre l’offesa e il disprezzo declassano l’identità di una persona, cancellano il rispetto per le sue idee, la sua interiorità, feriscono l’eguale libertà che il liberalismo ha introdotto nella modernità. Non c’è eguale libertà se possiamo offendere gli altri e gli altri non possono offendere noi, per il semplice motivo che il mezzo (mediatico) dell’oltraggio ha oggi un valore planetario, schiaccia chiunque. E poi, se pur fosse possibile rispondere con l’offesa all’offesa, e tutti si diffamassero e calunniassero reciprocamente, non saremmo in una società libera, bensì nell’anticamera di una guerra che può far scoppiare l’umanità.
Colpito al cuore dalla libertà d’offesa è anche quel decalogo dei diritti umani del Novecento su cui si fonda la società contemporanea, perché esso tutela, nello spirito e nella lettera, il rispetto della dignità della persona, chiede a tutti di vivere almeno in spirito di pacificazione. Ma quale dignità può avere una persona se è perfino teorizzato il diritto opposto di irridere, vilipendere, nel peggiore dei modi, i suoi sentimenti di pietà di fronte alla morte, o quel sentire religioso che è parte integrante della sua personalità? Veniamo così al punto cruciale. In alcuni ordinamenti occidentali è considerato normale che le offese contro le religioni, le convinzioni, i sentimenti della persona, non trovino limite, anche se raggiungono i vertici del dileggio più assurdo, e spesso (come nel caso odierno) della stupidità più grande. Chiediamoci se una cosa del genere non sia il frutto di una disumanizzazione delle nostre relazioni di convivenza. Ciò che è accaduto è possibile solo se partiamo da un principio che sta assumendo ormai il carattere di un tabù, per il quale “bisogna attribuire all’umorista la dimensione dell’irresponsabilità totale”. Non è solo un’opinione, oggi la satira è totalmente irresponsabile.
Riflettiamo allora su questa assurdità che supera ogni altra, perché non c’è campo dell’agire umano che possa ritenersi libero da responsabilità. L’«irresponsabilità totale» è l’attributo più odioso e odiato del potere assoluto, anzi è sinonimo di «potere totalitario», di un potere che fa degli altri ciò che vuole, senza vincolo di legge o morale, li emargina, li declassa, spesso li distrugge. Riccardo De Benedetti ha osservato che la satira riesce con la sua irresponsabilità totale a superare il valore della parola: l’immagine ottiene, in epoca mediatica, il più grande effetto blasfemo senza dire una sola parola.
Ma una vignetta formula spesso più che una parola, riassume a volte un discorso intero, e una narrazione irresponsabile è qualcosa che, dal profondo della coscienza, sappiamo di non poter accettare. In un recentissimo testo dal titolo “Quando la parola ferisce”, Cristiana Cianitto, mette a nudo la schizofrenia di una modernità globalizzata che da un lato utilizza la blasfemia per colpire la diversità religiosa, e dall’altro recepisce la libertà di espressione come libertà di offendere chiunque, senza distinzione. E infatti l’irresponsabilità totale fa degenerare ogni cosa, perfino la satira: perché una satira disumana non è più arguta, ariosa, graffiante, diventa cattiva, triste, orribile, infrange anche la pietà che nessuno nega mai alle vittime delle tragedie, naturali o no. Per dir meglio: la satira che dovrebbe graffiare i potenti, si fa onnipotente essa stessa e offende i più deboli, persino i defunti, rovescia la propria funzione e il proprio ruolo.
Però, una satira che non colpisce i potenti, ma i deboli, conduce a qualcosa che è l’antitesi dei diritti umani, la libertà di parola spinta all’assoluto provoca una formidabile regressione della libertà. Lancia un messaggio deprimente agli altri, a cominciare dai giovani: pensiamo ai giovani di tutte le razze, tradizioni e religioni, che ormai vivono in Italia e in Europa, e che sono i primi a gioire del sorriso, e dell’irrisione. Ma attenzione, sono anche i primi a dolersi della bruttezza e dell’oscenità che sporcano tutto, a rifiutarle come fonti di disgusto. Ricordo un pensiero espresso tempo addietro sul “Corriere della Sera” da Julián Carrón, per il quale l’Europa «è uno spazio di libertà», che «non vuol dire spazio vuoto, deserto di proposte di vita, perché di nulla non si vive». E il problema dell’Europa è se «essa saprà diventare finalmente il luogo di un incontro reale tra proposte di significato, pur diverse e molteplici». E possiamo aggiungere, per quanti credono di poter difendere la satira in nome del liberalismo, l’indicazione di Immanuel Kant per il quale l’uomo deve agire nel rispetto degli altri, perché «la dignità che egli possiede è ciò che rende eguali tutte le persone», è «un valore interiore assoluto».
«Avvenire» del 9 settembre 2016
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