Arma spuntata
di Dario Di Vico
L'agitazione sembra un virus che obbliga le città a fermarsi per un giorno, slegata dalle relazioni con le controparti
Al via una settimana di disagi per i trasporti. Bus, tram e metro si
fermeranno domani per l'intera giornata per lo sciopero nazionale proclamato
unitariamente dai sindacati di categoria Filt-Cgil, Fit-Cisl, Uiltrasporti,
Uiltrasporti e Faisa-Cisal, per il mancato rinnovo del contratto scaduto nel
2007. Tra oggi e domani (a partire dalle 21 e per 24 ore) incroceranno le
braccia anche tutti gli addetti ai servizi ferroviari di pulizie,
accompagnamento notte e ristorazione a bordo treno. Lo sciopero nazionale di
domani fa seguito alla protesta di 4 ore dello scorso 20 luglio. Si svolgerà
secondo diverse modalità città per città e nel rispetto della garanzia dei
servizi minimi. Queste le modalità delle principali città: Roma dalle 8.30 alle
17.30 e dalle 20 a fine servizio; Milano dalle 8.45 alle 15 e dalle 18 al
termine del servizio; Napoli dalle 8.30 alle 17 e dalle 20 a fine servizio;
Torino dalle 9 alle 12 e dalle 15 a fine servizio; Venezia-Mestre dalle 9 alle
16.30 e dalle 19.30 a fine turno; Genova dalle 9.30 alle 17 e dalle 21 a termine
servizio; Bologna dalle 8.30 alle 16.30 e dalle 19.30 a fine servizio; Bari
8.30-12.30 e dalle 15.30 a fine servizio; Palermo dalle 8.30 alle 17.30;
Cagliari dalle 9.30 alle 12.45, dalle 14.45 alle 18.30 e dalle 20 alla fine del
servizio.
Domani gli autoferrotranvieri di tutt'Italia sciopereranno ancora una volta per il rinnovo del loro contratto che è stato firmato per l'ultima volta nel 2007. Come è avvenuto in svariate altre occasioni il fermo di tram, bus e metropolitane finirà per colpire gli strati più deboli del mercato del lavoro perché le cosiddette fasce orarie di salvaguardia non sono più da tempo uno strumento che va veramente in aiuto degli utenti. Il traffico delle grandi città e soprattutto quello che si muove dall'hinterland verso il centro non può essere più inscatolato in un unico format come ai tempi del fordismo e la grande massa dei lavoratori precari e a partita Iva, che si sposta durante il giorno in segmenti orari fortemente differenziati e che spesso non ha un unico indirizzo in cui lavora, subisce interamente il peso dello sciopero del trasporto locale.
In più gli osservatori di cose sindacali sono abbastanza convinti che l'agitazione di domani, a prescindere dalla sua riuscita, non smuoverà gli ostacoli. Gli enti locali che sono gli azionisti delle aziende di trasporto pubblico non sembrano focalizzati sulla risoluzione di questo conflitto, vivono una stagione di turbolenza tra spending review, taglio delle province ed episodi di malapolitica e di conseguenza non hanno risorse e lucidità per affrontare davvero i nodi aperti. Il guaio è che i sindacati degli autoferrotranvieri sono i primi ad essere coscienti di questo stallo, eppure insistono a convocare scioperi che finiscono per contrapporli all'utenza popolare piuttosto che incalzare le naturali controparti.
Così come l'epoca del budget zero ha reso inutile la tradizionale azione lobbystica della Confindustria, qualcosa di analogo sta succedendo per le forme di lotta sindacali. Lo sciopero è un'arma spuntata, spesso come nel recente caso del pubblico impiego le percentuali di adesioni sono basse, i leader lo chiamano «generale» più per minacciarlo nelle interviste che per organizzarlo veramente. Ci sarebbe tutta l'urgenza di una riconsiderazione degli strumenti di lotta sindacale, che però non arriva vuoi per l'oggettiva difficoltà a disegnare il nuovo vuoi per una ormai patologica pigrizia intellettuale.
In questo modo quello degli autoferrotranvieri si presta ad assomigliare a uno «sciopero endemico», una sorta di virus che periodicamente obbliga le città a fermarsi per un giorno, scisso da qualsiasi dinamica di relazione con le controparti. Non si sciopera per ottenere un obiettivo che è realmente alla portata di mano bensì solo per ribadire la propria esistenza organizzativa e per tener vivo il consenso della parte più militante degli iscritti. Poi se i lavoratori scioperano veramente oppure no cambia poco, anche perché in settori come quelli del trasporto pubblico per realizzare l'effetto ingorgo basta già il solo annuncio amplificato dai media.
Si può andare avanti? I sindacalisti più lungimiranti se lo stanno chiedendo, così come si interrogano sul dilagare delle forme di lotta spettacolari e autolesioniste. Ormai una vertenza aziendale non è tale senza il copione che vede salire su una torre, una gru o un grattacielo, almeno due o più lavoratori. Che ad uso delle tv e della stampa recitano il rosario della propria irriducibilità e intransigenza. Le confederazioni sindacali appaiono come spiazzate da questi episodi di radicalità o almeno fingono che sia così, senza però rendersi conto che ogni volta che il copione si ripete se ne va una fetta della propria titolarità di rappresentanza sociale. Il guaio del sensazionalismo conflittuale è che non solo oscura il prezioso lavoro quotidiano di tanti operatori sindacali che vivono a ridosso del disagio, ma alla lunga si annulla da solo. Arriveremo al punto che l'estremizzazione del gesto di protesta non farà più notizia, nella grande insalatiera mediatica si confonderà con qualcosa che è successo il giorno prima o che sta per accadere il giorno dopo.
Domani gli autoferrotranvieri di tutt'Italia sciopereranno ancora una volta per il rinnovo del loro contratto che è stato firmato per l'ultima volta nel 2007. Come è avvenuto in svariate altre occasioni il fermo di tram, bus e metropolitane finirà per colpire gli strati più deboli del mercato del lavoro perché le cosiddette fasce orarie di salvaguardia non sono più da tempo uno strumento che va veramente in aiuto degli utenti. Il traffico delle grandi città e soprattutto quello che si muove dall'hinterland verso il centro non può essere più inscatolato in un unico format come ai tempi del fordismo e la grande massa dei lavoratori precari e a partita Iva, che si sposta durante il giorno in segmenti orari fortemente differenziati e che spesso non ha un unico indirizzo in cui lavora, subisce interamente il peso dello sciopero del trasporto locale.
In più gli osservatori di cose sindacali sono abbastanza convinti che l'agitazione di domani, a prescindere dalla sua riuscita, non smuoverà gli ostacoli. Gli enti locali che sono gli azionisti delle aziende di trasporto pubblico non sembrano focalizzati sulla risoluzione di questo conflitto, vivono una stagione di turbolenza tra spending review, taglio delle province ed episodi di malapolitica e di conseguenza non hanno risorse e lucidità per affrontare davvero i nodi aperti. Il guaio è che i sindacati degli autoferrotranvieri sono i primi ad essere coscienti di questo stallo, eppure insistono a convocare scioperi che finiscono per contrapporli all'utenza popolare piuttosto che incalzare le naturali controparti.
Così come l'epoca del budget zero ha reso inutile la tradizionale azione lobbystica della Confindustria, qualcosa di analogo sta succedendo per le forme di lotta sindacali. Lo sciopero è un'arma spuntata, spesso come nel recente caso del pubblico impiego le percentuali di adesioni sono basse, i leader lo chiamano «generale» più per minacciarlo nelle interviste che per organizzarlo veramente. Ci sarebbe tutta l'urgenza di una riconsiderazione degli strumenti di lotta sindacale, che però non arriva vuoi per l'oggettiva difficoltà a disegnare il nuovo vuoi per una ormai patologica pigrizia intellettuale.
In questo modo quello degli autoferrotranvieri si presta ad assomigliare a uno «sciopero endemico», una sorta di virus che periodicamente obbliga le città a fermarsi per un giorno, scisso da qualsiasi dinamica di relazione con le controparti. Non si sciopera per ottenere un obiettivo che è realmente alla portata di mano bensì solo per ribadire la propria esistenza organizzativa e per tener vivo il consenso della parte più militante degli iscritti. Poi se i lavoratori scioperano veramente oppure no cambia poco, anche perché in settori come quelli del trasporto pubblico per realizzare l'effetto ingorgo basta già il solo annuncio amplificato dai media.
Si può andare avanti? I sindacalisti più lungimiranti se lo stanno chiedendo, così come si interrogano sul dilagare delle forme di lotta spettacolari e autolesioniste. Ormai una vertenza aziendale non è tale senza il copione che vede salire su una torre, una gru o un grattacielo, almeno due o più lavoratori. Che ad uso delle tv e della stampa recitano il rosario della propria irriducibilità e intransigenza. Le confederazioni sindacali appaiono come spiazzate da questi episodi di radicalità o almeno fingono che sia così, senza però rendersi conto che ogni volta che il copione si ripete se ne va una fetta della propria titolarità di rappresentanza sociale. Il guaio del sensazionalismo conflittuale è che non solo oscura il prezioso lavoro quotidiano di tanti operatori sindacali che vivono a ridosso del disagio, ma alla lunga si annulla da solo. Arriveremo al punto che l'estremizzazione del gesto di protesta non farà più notizia, nella grande insalatiera mediatica si confonderà con qualcosa che è successo il giorno prima o che sta per accadere il giorno dopo.
«Il Corriere della sera» del 1 ottobre 2012
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