di Paolo Viana
«Il rispetto per il passato è la condizione per aprire un possibile futuro». Rémi Brague, il filosofo che Benedetto XVI ha appena insignito del premio Ratzinger per la teologia, parla con pacata mestizia, sforzandosi di essere semplice anche se in platea siedono solo filosofi come lui. Ha appena finito di spiegare che la Tradizione non è quella serie ininterrotta di crimini che si crede, che l’errore del rivoluzionario consiste nel supporre di dover fare tabula rasa del passato per costruire il futuro e quello del reazionario di "inventare la tradizione" per poterla conservare (il testo integrale della lezione, tenuta ieri alla Cattolica nell’ambito del ciclo "Tradizione e Innovazione", sarà pubblicato sul prossimo numero di Philosophical News) ma, anche se la sua relazione si intitola "Non tradire la tradizione", si capisce che considera (quasi) persa la battaglia. E per colpa dei media.
Professore, a cosa serve il passato?
«Non a rimanerci dentro; il punto non è restare nel passato ma restare fedeli a ciò che ci ha prodotto, perché noi siamo il prodotto del passato e dobbiamo essere in contatto con esso se vogliamo diventare passato a nostra volta; saremo il passato del nostro futuro, quello che si prepara oggi con noi. Per fare questo, servirebbe la capacità di lasciare che il passato produca i suoi effetti, l’attitudine nota a Burke ("Coloro che non guardano mai ai loro antenati non vedranno mai i loro posteri"), ma anche ai latini, che la sintetizzavano nella pietas».
E se non fosse un problema di capacità, se i nostri contemporanei non volessero proprio aver nulla a che fare con il passato?
L’uomo occidentale, o per lo meno l’intellettuale di questa parte del mondo, conserva un’immagine molto negativa del passato e lo rappresenta come una serie ininterrotta di crimini. C’è qualche elemento di verità in questa descrizione che porta l’Occidente a odiare se stesso: è vero che abbiamo scoperto, conquistato e sottomesso il resto del mondo, che l’abbiamo colonizzato… Il problema principale è però la nostra inclinazione a una confessione dei peccati senza assoluzione e senza perdono, che si traduce in un esercizio perverso, in quanto impedisce di agire, ci paralizza. Per uscire da questo complesso, la confessione, che ha una sua ragion d’essere, dovrebbe essere completata, cioè resa positiva, attraverso l’assoluzione e il perdono dei peccati; ma questo perdono può venire solo da Dio».
Quali conseguenza comporta la scelta ricorrente, nella cultura e nel costume, di rompere con il passato, condannarlo e condannare se stessi?
«Comporta il rischio di perdere la capacità di ricevere e trasmettere, che infatti oggi è avvelenata dal nostro rapporto con il passato. Il processo è molto avanti, investe il linguaggio. Pensiamo a quanto sia ambiguo oramai il termine "tradizione": ci piace il pane "tradizionale" e ci irrigidiamo non appena si parla di matrimonio "tradizionale". Sul piano filosofico, la tradizione è accettata quando ha un significato teleologico (purché il telos siamo noi), mentre la valutiamo negativamente quando la concepiamo come trasmissione, che è poi il significato della parola latina traditio».
Perché la trasmissione è diventata punto di rottura?
«Forse perché è più difficile trasmettere qualcosa, ci vuole una volontà, un progetto positivo, ed è più semplice affidarsi alla tradizione della pigrizia, di quello che riceviamo già fatto, che non richiede fatica né progetto. Il problema di questo nostro tempo diventa allora quello del coraggio: ci vuole coraggio per trasmettere qualcosa, per preparare il futuro e non accontentarsi di ricevere quanto il passato ci ha trasmesso».
Non crede che il problema sia anche di trovare un codice per trasmettere una tradizione che risulta oramai incomprensibile per chi comunica con Twitter e Facebook?
«Purtroppo quello che dice è fin troppo vero. Mi spiace ammetterlo ma è proprio così. Gli intellettuali al giorno d’oggi devono darsi il compito di trovare un linguaggio, prima di tutto, che sia comprensibile ai giovani. Quello che manca è in effetti un ponte attraverso il quale far passare alle masse ciò che pensano gli intellettuali e i media hanno la responsabilità tremenda di non far udire le idee alla gente, che di quelle idee ha invece un gran bisogno. I giornalisti sono come i sofisti descritti da Platone: ripetono, ripetono e ripetono quello che si dice in giro...».
«Avvenire» del 23 ottobre 2012
Nessun commento:
Posta un commento