di Roberto I. Zanini
Dell’antichità romana
pensiamo di conoscere molte cose. Ne conosciamo i grandi personaggi, la lingua,
la storia, l’immenso patrimonio artistico, la poesia, la letteratura. Le
ricerche archeologiche e gli scritti dell’epoca ci hanno fatto conoscere le
abitudini quotidiane. Delle metropoli romane possiamo immaginare i colori e i
suoni. Molto poco, però, conosciamo degli odori. In particolare di quelli
alimentari, che in una città come Roma aleggiavano per fori, templi, terme e
vicoli dalle prime ore dell’alba fino a notte avanzata, provenienti dalle cucine
della tabernae e dai banchi degli ambulanti che, racconta Marziale
negli Epigrammi, «avevano sottratto la città intera», così che «le
strade sembravano sentieri». Qualche decennio prima Seneca parla di bancarelle,
lixae, in cui si vendono biscotti, bibite, frutta secca (i romani erano
ghiotti di pistacchi, introdotti dal 37 a.C.), frutta fresca, e cibi caldi
arrostiti o bolliti (come luganeghe, interiora e pollame), conditi con salse dai
sapori assai difficili per i palati contemporanei. Una pittura di Pompei
presenta un giovane che acquista una porzione calda di cappone da un ambulante.
In un’altra celebre pittura della città vesuviana è rappresentata una rissa al
di fuori dell’anfiteatro, fra le tende e i carretti dei venditori take
away dell’epoca. Odori e sapori che rivivono, corredati da esaustivi
riferimenti storici, oltre che da ricette autentiche, nel volume Ars
culinaria (Donzelli, pagine 444, euro 24,00) della filologa Antonietta Dosi
e dell’archeologa Giuseppina Pisani Sartorio. Un po’ testo di storia, un po’
libro di cucina, riesce a rendere evidente non solo come mangiavano i romani, ma
soprattutto come le ricette di duemila anni fa sopravvivano tutt’oggi, con
alcune modifiche, nelle nostre cucine regionali e in molte dell’Oriente, Vicino
ed Estremo. Ricette antiche poste a fronte delle loro derivate moderne. Con la
possibilità, che è quel che ancor più incuriosisce, di poterle sperimentare
nelle due maniere, scoprendo che la fricassea ha almeno due millenni e che il
foie gras, con relativo paté, non lo hanno inventato i francesi, ma i romani,
che nella versione più sofisticata lo chiamavano ficatum, perché tratto
da oche ingrassate con fichi. Naturalmente necessari alcuni adattamenti. Sia per
l’introvabilità di certi ingredienti, soprattutto erbe selvatiche, spezie e
aromi, che i romani utilizzavano in gran numero, facendoli venire da ogni angolo
del mondo; sia per l’onnipresente prescrizione del garum, nella cottura
o nel condimento finale. Una salsa a base di interiora di pesce crudo, salato e
speziato, che spesso doveva risultare mefitica, anche se ne esisteva una
versione per commensali ricchi e raffinati, che veniva realizzata in maniera non
troppo dissimile dall’attuale salagione delle acciughe. Qualcosa che somiglia al
garum si trova in alcune conserve di piccoli pesci, tipiche delle
popolazioni dei delta dell’Estremo Oriente, come quello del Mekong, ma anche
nella più raffinata e appetitosa "sardella" calabrese, sebbene ricca di
peperoncino, pianta che i romani non potevano certamente conoscere.
Fonte primaria di queste antiche ricette è il De re coquinaria attribuito ad Apicio, forse il più celebre fra i mangioni dell’antichità e l’unico, di cui ci sia giunta notizia, che abbia codificato le conoscenze culinarie dell’epoca in uno specifico trattato. Vissuto in epoca augustea, divenne più conosciuto nei secoli del nostro Artusi, tanto che i cuochi latini, che prima venivano denominati magirii (dal greco magheiroi), cominciarono a chiamarsi apicii. Dopo di lui un egiziano di origine greche, vissuto a Roma intorno al 200 d.C., tale Ateneo, ha inserito numerose ricette in un trattato in 15 volumi, i Deipnosofisti (I sapienti a banchetto) in cui sono gli stessi filosofi a parlare di cucina. E di cucina parlano nelle loro opere (citate con ampi riferimenti) anche i grandi come Cicerone, Orazio, Virgilio, Petronio, Giovenale, Catullo, Plinio il Vecchio, Plinio il Giovane, Catone il Censore. Quest’ultimo nel De agri cultura, presenta numerose ricette (fra le quali quelle di una focaccia sottile che veniva arrotolata, fatta seccare e cotta come oggi si fa con la pasta), offre uno spaccato delle sobrie abitudini, quasi del tutto vegetariane, dei romani dei primi secoli. Secondo Giovenale e Plinio, del resto, il grande Marco Curio Dentato, colui che sconfisse i sabini e Pirro, sarebbe unicamente vissuto di rape, legumi e verdure del suo orto.
In quell’epoca la carne veniva utilizzata quasi esclusivamente nei grandi festeggiamenti in onore degli dei, anche se alla dea Cerere, nei cosiddetti cerealia, si offrivano farro e frumenti: da qui il nome poi loro attribuito di cereali. Anche il verbo "immolare", relativo ai sacrifici animali sugli altari degli dei, deriva dall’abitudine "alimentare" di cospargere la "vittima" di un tritello di farro e sale passati alla mola (mola salsa), qualcosa di simile alla moderna impanatura. Ben diversa dall’alimentazione di Curio Dentato quella dell’imperatore Massimino (235-238 d.C.), che si vantava di mangiare soltanto carne al punto che, stando a Giulio Capitolino, ne avrebbe ingerita ben 13 chili in un solo giorno. Ghiotto di frutta l’imperatore Albino (193-197), che pare giungesse a mangiare anche dieci meloni a pasto. Marziale scrive con ironia del suo avaro padrone di casa, Cecilio, che imponeva al cuoco di preparare per i suoi convitati interi pranzi a base di economica zucca per tutte le portate, dall’antipasto al dolce. Fra le carni quella di maiale era la più apprezzata e i salumi più pregiati venivano, come oggi, dalla Gallia Cisalpina. «Nessun animale – scrive Plinio – fornisce più del porco alimenti alla ghiottoneria, dato che presenta circa cinquanta sapori, mentre la carne degli altri animali non ne ha che uno». Il riferimento è all’abilità degli allevatori di far variare il sapore in base all’alimentazione. E quando il maiale era ripieno, spesso di animali più piccoli, veniva chiamato "troia", (il porcus troianus della cena di Trimalcione nel Satyricon di Petronio) perché farcito alla maniera in cui il famoso cavallo venne farcito da Ulisse. Una citazione colta dell’epoca, entrata poi nel gergo popolare in riferimento alla scrofa.
I pesci, il garum di Marziale e le sei salse di Apicio
I pesci e i crostacei piacevano talmente che i ricchi realizzavano nelle loro villae delle piscine per allevarli. Ateneo racconta che Apicio ne era così ghiotto da attrezzare una nave per andare a pescare gamberi e scampi sulle coste libiche, salvo poi scoprire che erano del tutto uguali a quelli tirrenici. Già nel primo secolo a.C. i romani allevavano sia ostriche che mitili. Le murene erano considerate una prelibatezza (Apicio indica ben sei salse diverse per condirle) e, stando a Plinio, il loro allevamento fece la fortuna di molti commercianti. Tale Gaio Irrio ne aveva un allevamento immenso tanto da poterne vendere semilia in una sola volta per i festeggiamenti dei trionfi di Cesare. Alla morte di Lucullo, i pesci dei suoi allevamenti vennero venduti per l’enorme cifra di quarantamila assi. Moltissime le ricette per cucinarli. Alcune in tutto simili alle attuali, come questo ius in pisce elixo (pesce alla creta con salsa) di Apicio, che sembra una variante del nostro pesce al sale: «Metti in un mortaio sale e semi di coriandolo, pestali bene e avvolgi il pesce ben pulito, poi disponilo in un tegame, sotto un coperchio bene ingessato e cuocilo al forno. Levalo, spruzzalo con aceto fortissimo e servilo». Esistevano anche numerose industrie di conservazione, soprattutto in Sicilia, per tonno, sgombri, sardine. Il garum migliore, invece, veniva da una manifattura di Cartagena. Per capire cosa fosse questo condimento che è alla base dell’intera cucina romana ecco la ricetta proposta da Gargilio Marziale nelle Geoponiche: «Si prendano pesci grassi come salmoni, anguille, salacche, sardine. Si prendano erbe aromatiche secche come aneto, menta, levistico, puleggio, serpillo. Di queste erbe si disponga un primo strato nel fondo di un grande vaso. Si faccia quindi uno strato di pesci interi o a pezzi, se sono grossi. Si copra con uno spesso strato di sale e si ripeta l’operazione fino a che il vaso sia colmo. Si chiuda e si lasci macerare per sette giorni. Poi per venti giorni si rimesti il miscuglio. Allora si raccolga il liquido che cola».
Le carni e per i grandi ricevimenti struzzi, bagnet e fricassea
Si mangiava carne di ogni tipo. Ovine, caprine, di volatili come i tacchini (a smentire la credenza che vengano dalle Americhe), i polli e persino struzzi. Il cane era una prelibatezza: Festo (Breviarium rerum gestarum populi romani) racconta che nel II d.C. i "cuccioli alla mammella" figuravano nei pranzi più importanti e in quelli in onore agli dei. Il maiale era il cibo di tutti. I bovini, usati quasi esclusivamente per i tiri agricoli, vennero introdotti nell’alimentazione comune avanti nei secoli, per una sorta di sacro rispetto per il lavoro dei campi. Venivano cotte con salse ricchissime di aromi, con aggiunte di formaggio e spesso rifinite con le uova, alla maniera della fricassea. Ed è frequente imbattersi in ricette assai simili a quelle contemporanee. Catone, per esempio, riporta un intingolo dicendo serva per «liberare il ventre», ma che depurato dalle erbe lassative e dall’onnipresente pesce sembra l’antesignano di pietanze come la cassoeula lombarda: «Prendi una marmitta, versaci sei sestarii di acqua, uno zampetto di maiale, un pezzo di prosciutto, due cime di cavolo, due gambi di bieta con la radice, un germoglio di felce, un po’ di erba mercuriale, due libbre di mitili, un cefalo, un pesce scorpione, sei lumache di mare, un pugno di lenticchie. Fa cuocere finché il brodo si riduce a un terzo». E il bollito misto alla maniera piemontese sembra provenire dalla descrizione fatta da Ateneo di quel che si preparava ad Alessandria d’Egitto nei lephtopolia (botteghe del bollito), con «piedini, testa, orecchie, mascella, trippe e lingua». Espertissimo di condimenti il solito Apicio accompagnava i suoi bolliti (di singole carni) con salse fatte di pepe, levistico, menta, aceto, garum, laser, cumino, olio e miele, che ricordano il classico bagnet verde piemontese fatto con prezzemolo, aceto, olio, acciuga salata (in luogo del garum), aglio (al posto dell’introvabile laser), pepe. Nella stessa bagna cauda trionfano i sapori delle acciughe salate e dell’aglio.
Fonte primaria di queste antiche ricette è il De re coquinaria attribuito ad Apicio, forse il più celebre fra i mangioni dell’antichità e l’unico, di cui ci sia giunta notizia, che abbia codificato le conoscenze culinarie dell’epoca in uno specifico trattato. Vissuto in epoca augustea, divenne più conosciuto nei secoli del nostro Artusi, tanto che i cuochi latini, che prima venivano denominati magirii (dal greco magheiroi), cominciarono a chiamarsi apicii. Dopo di lui un egiziano di origine greche, vissuto a Roma intorno al 200 d.C., tale Ateneo, ha inserito numerose ricette in un trattato in 15 volumi, i Deipnosofisti (I sapienti a banchetto) in cui sono gli stessi filosofi a parlare di cucina. E di cucina parlano nelle loro opere (citate con ampi riferimenti) anche i grandi come Cicerone, Orazio, Virgilio, Petronio, Giovenale, Catullo, Plinio il Vecchio, Plinio il Giovane, Catone il Censore. Quest’ultimo nel De agri cultura, presenta numerose ricette (fra le quali quelle di una focaccia sottile che veniva arrotolata, fatta seccare e cotta come oggi si fa con la pasta), offre uno spaccato delle sobrie abitudini, quasi del tutto vegetariane, dei romani dei primi secoli. Secondo Giovenale e Plinio, del resto, il grande Marco Curio Dentato, colui che sconfisse i sabini e Pirro, sarebbe unicamente vissuto di rape, legumi e verdure del suo orto.
In quell’epoca la carne veniva utilizzata quasi esclusivamente nei grandi festeggiamenti in onore degli dei, anche se alla dea Cerere, nei cosiddetti cerealia, si offrivano farro e frumenti: da qui il nome poi loro attribuito di cereali. Anche il verbo "immolare", relativo ai sacrifici animali sugli altari degli dei, deriva dall’abitudine "alimentare" di cospargere la "vittima" di un tritello di farro e sale passati alla mola (mola salsa), qualcosa di simile alla moderna impanatura. Ben diversa dall’alimentazione di Curio Dentato quella dell’imperatore Massimino (235-238 d.C.), che si vantava di mangiare soltanto carne al punto che, stando a Giulio Capitolino, ne avrebbe ingerita ben 13 chili in un solo giorno. Ghiotto di frutta l’imperatore Albino (193-197), che pare giungesse a mangiare anche dieci meloni a pasto. Marziale scrive con ironia del suo avaro padrone di casa, Cecilio, che imponeva al cuoco di preparare per i suoi convitati interi pranzi a base di economica zucca per tutte le portate, dall’antipasto al dolce. Fra le carni quella di maiale era la più apprezzata e i salumi più pregiati venivano, come oggi, dalla Gallia Cisalpina. «Nessun animale – scrive Plinio – fornisce più del porco alimenti alla ghiottoneria, dato che presenta circa cinquanta sapori, mentre la carne degli altri animali non ne ha che uno». Il riferimento è all’abilità degli allevatori di far variare il sapore in base all’alimentazione. E quando il maiale era ripieno, spesso di animali più piccoli, veniva chiamato "troia", (il porcus troianus della cena di Trimalcione nel Satyricon di Petronio) perché farcito alla maniera in cui il famoso cavallo venne farcito da Ulisse. Una citazione colta dell’epoca, entrata poi nel gergo popolare in riferimento alla scrofa.
I pesci, il garum di Marziale e le sei salse di Apicio
I pesci e i crostacei piacevano talmente che i ricchi realizzavano nelle loro villae delle piscine per allevarli. Ateneo racconta che Apicio ne era così ghiotto da attrezzare una nave per andare a pescare gamberi e scampi sulle coste libiche, salvo poi scoprire che erano del tutto uguali a quelli tirrenici. Già nel primo secolo a.C. i romani allevavano sia ostriche che mitili. Le murene erano considerate una prelibatezza (Apicio indica ben sei salse diverse per condirle) e, stando a Plinio, il loro allevamento fece la fortuna di molti commercianti. Tale Gaio Irrio ne aveva un allevamento immenso tanto da poterne vendere semilia in una sola volta per i festeggiamenti dei trionfi di Cesare. Alla morte di Lucullo, i pesci dei suoi allevamenti vennero venduti per l’enorme cifra di quarantamila assi. Moltissime le ricette per cucinarli. Alcune in tutto simili alle attuali, come questo ius in pisce elixo (pesce alla creta con salsa) di Apicio, che sembra una variante del nostro pesce al sale: «Metti in un mortaio sale e semi di coriandolo, pestali bene e avvolgi il pesce ben pulito, poi disponilo in un tegame, sotto un coperchio bene ingessato e cuocilo al forno. Levalo, spruzzalo con aceto fortissimo e servilo». Esistevano anche numerose industrie di conservazione, soprattutto in Sicilia, per tonno, sgombri, sardine. Il garum migliore, invece, veniva da una manifattura di Cartagena. Per capire cosa fosse questo condimento che è alla base dell’intera cucina romana ecco la ricetta proposta da Gargilio Marziale nelle Geoponiche: «Si prendano pesci grassi come salmoni, anguille, salacche, sardine. Si prendano erbe aromatiche secche come aneto, menta, levistico, puleggio, serpillo. Di queste erbe si disponga un primo strato nel fondo di un grande vaso. Si faccia quindi uno strato di pesci interi o a pezzi, se sono grossi. Si copra con uno spesso strato di sale e si ripeta l’operazione fino a che il vaso sia colmo. Si chiuda e si lasci macerare per sette giorni. Poi per venti giorni si rimesti il miscuglio. Allora si raccolga il liquido che cola».
Le carni e per i grandi ricevimenti struzzi, bagnet e fricassea
Si mangiava carne di ogni tipo. Ovine, caprine, di volatili come i tacchini (a smentire la credenza che vengano dalle Americhe), i polli e persino struzzi. Il cane era una prelibatezza: Festo (Breviarium rerum gestarum populi romani) racconta che nel II d.C. i "cuccioli alla mammella" figuravano nei pranzi più importanti e in quelli in onore agli dei. Il maiale era il cibo di tutti. I bovini, usati quasi esclusivamente per i tiri agricoli, vennero introdotti nell’alimentazione comune avanti nei secoli, per una sorta di sacro rispetto per il lavoro dei campi. Venivano cotte con salse ricchissime di aromi, con aggiunte di formaggio e spesso rifinite con le uova, alla maniera della fricassea. Ed è frequente imbattersi in ricette assai simili a quelle contemporanee. Catone, per esempio, riporta un intingolo dicendo serva per «liberare il ventre», ma che depurato dalle erbe lassative e dall’onnipresente pesce sembra l’antesignano di pietanze come la cassoeula lombarda: «Prendi una marmitta, versaci sei sestarii di acqua, uno zampetto di maiale, un pezzo di prosciutto, due cime di cavolo, due gambi di bieta con la radice, un germoglio di felce, un po’ di erba mercuriale, due libbre di mitili, un cefalo, un pesce scorpione, sei lumache di mare, un pugno di lenticchie. Fa cuocere finché il brodo si riduce a un terzo». E il bollito misto alla maniera piemontese sembra provenire dalla descrizione fatta da Ateneo di quel che si preparava ad Alessandria d’Egitto nei lephtopolia (botteghe del bollito), con «piedini, testa, orecchie, mascella, trippe e lingua». Espertissimo di condimenti il solito Apicio accompagnava i suoi bolliti (di singole carni) con salse fatte di pepe, levistico, menta, aceto, garum, laser, cumino, olio e miele, che ricordano il classico bagnet verde piemontese fatto con prezzemolo, aceto, olio, acciuga salata (in luogo del garum), aglio (al posto dell’introvabile laser), pepe. Nella stessa bagna cauda trionfano i sapori delle acciughe salate e dell’aglio.
«Avvenire» del 22 ottobre 2012
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