Il suo poema fu ritrovato da Bracciolini nel 1417
di Paolo Mieli
Il 28 ottobre del 1958, quando fu eletto Papa, Angelo Roncalli scelse un nome che per il suo mondo da 500 anni era tabù: Giovanni XXIII. Tabù perché la Chiesa aveva già avuto, all'inizio del Quattrocento, un Giovanni XXIII e il suo non era stato un pontificato felice, al punto che si concluse con la deposizione del Papa stesso. In un anno, come vedremo, molto particolare: il 1417.
Quel Giovanni XXIII si chiamava Baldassarre Cossa, era nato nell'isola di Procida e apparteneva a una famiglia di pirati (due suoi fratelli furono catturati e condannati a morte, anche se poi, grazie agli intrighi di Baldassarre, la pena fu commutata in detenzione). Ma non fu per l'attività corsara che quel pontefice mise in imbarazzo i suoi contemporanei. Cossa si era già distinto, nelle vesti di camerlengo del papa napoletano Bonifacio IX, mettendo su un fruttuoso mercato di cariche ecclesiastiche e di indulgenze. Poi, quando morì papa Alessandro V, si mormorò che fosse stato lo stesso Baldassarre ad avvelenarlo. Ciò nonostante il Cossa fu scelto nel 1410 come suo erede e prese, appunto, il nome di Giovanni XXIII.
Erano anni di scisma, Cossa fu considerato un antipapa, e gli si contrapposero lo spagnolo Pedro de Luna (Benedetto XIII) e il veneziano Angelo Correr con il nome di Gregorio XII. Contro di lui - come nei confronti dei suoi predecessori, ma stavolta in maniera più decisa - si mosse il re di Napoli Ladislao d'Angiò-Durazzo, che nel 1413 invase Roma, costringendolo a rifugiarsi a Firenze e a chiedere aiuto all'imperatore Sigismondo di Lussemburgo. Questi lo aiutò, obbligandolo, però, a convocare, nel 1414, un concilio a Costanza sui monti tra la Svizzera e la Germania. Lì avrebbero affrontato anche le questioni poste dal riformatore ceco Jan Hus, erede per molti versi dell'eretico inglese John Wycliffe e precursore, con cento anni d'anticipo, di Martin Lutero. Sulle rive del Lago di Costanza si radunarono decine di migliaia di persone (principi elettori, duchi, ambasciatori di varie potenze, il margravio di Brandeburgo, oltreché trenta cardinali, trentatré vescovi, tre patriarchi, cento abati, cinquanta prevosti, cinquemila monaci e frati, diciottomila sacerdoti). Come prima cosa, il Papa e l'imperatore tesero la mano a Hus, invitandolo - con la garanzia dell'immunità - a Costanza per esporre le ragioni della sua protesta contro la vendita delle indulgenze. Era una trappola. Hus si fidò, si presentò, ma fu tratto in arresto senza neanche poter prendere la parola. E però Giovanni XXIII, che credeva di aver stretto con Sigismondo un patto indistruttibile in ragione di quel clamoroso voltafaccia, sbagliò ed ebbe, di lì a breve, una sorte in parte analoga a quella di Hus.
Che le cose per lui si stessero mettendo male, Baldassarre Cossa lo capì l'11 marzo del 1415 quando, dopo che l'arcivescovo di Magonza aveva dichiarato che non avrebbe obbedito a nessuno se non a lui, prese la parola il patriarca di Costantinopoli e, rivolto all'arcivescovo di cui si è appena detto, disse: «Chi è quel tipo? Merita di essere bruciato!». Baldassarre Cossa presagì il pericolo che si celava dietro quell'invettiva contro l'arcivescovo di Magonza, fuggì da Costanza e si rifugiò da un amico nel castello di Sciaffusa. L'amico, però, non era tale da resistere alle lusinghe dell'imperatore, al quale riconsegnò Giovanni XXIII, così che questi immediatamente poté farlo arrestare. Per un breve periodo (prima di essere segregato nel carcere imperiale di Heidelberg) il Papa fu rinchiuso nel castello di Gottlieben, sul Reno, dove era imprigionato Hus, che di lì a breve sarebbe stato arso sul rogo. Ma a differenza di quello per Hus, il procedimento giudiziario contro Giovanni XXIII andò più per le lunghe: venne istruito un processo nel corso del quale gli furono contestati reati di simonia, sodomia, stupro, incesto, tortura e omicidio. Un suo «devoto», Teodorico di Niem, depose contro di lui riferendo che in un solo anno aveva sedotto duecento donne: vedove, ma anche spose e suore. Il processo si concluse nel 1417, come si è detto, con la sua deposizione.
Ed è qui che comincia la nostra vera storia. Non tutti i collaboratori di Cossa lo tradirono come Teodorico di Niem: uno in particolare, Poggio Bracciolini, segretario personale del Papa, si limitò ad allontanarsi da Costanza e decise di dedicarsi alla sua passione, la ricerca di testi dell'antichità. Poggio Bracciolini - sul quale Eugenio Garin ha scritto pagine mirabili in Ritratti di umanisti (Bompiani) e in un saggio che accompagna l'edizione Bur di Facezie - era nato a Terranuova in Toscana e aveva all'epoca 37 anni. Nella sua lunga vita (morì quasi ottantenne) «servì» otto Papi. Nei giorni della disgrazia di Giovanni XXIII andò a cercare soddisfazione nei monasteri, dove giacevano sepolti piccoli e grandi capolavori dell'antichità copiati, nei secoli, dai monaci. E a Fulda - un'abbazia fondata nell'VIII secolo da un discepolo di san Bonifacio, l'apostolo della Germania - proprio in quell'anno, il 1417, Poggio trovò il De rerum natura: un meraviglioso poema di 7.400 versi in esametri composto da Tito Lucrezio Caro a metà del I secolo a. C.
A questo ritrovamento, che ha cambiato il corso della Storia molto di più di quanto si immagini, è dedicato lo straordinario libro di Stephen Greenblatt Il manoscritto che, nell'impeccabile traduzione di Roberta Zuppet, sta per essere pubblicato da Rizzoli. Con ogni probabilità, scrive Greenblatt, quando trovò il De rerum natura e lo fece copiare da uno scrivano, Poggio «conosceva già il nome di Lucrezio tramite Ovidio, Cicerone e altre fonti antiche che aveva studiato con cura insieme ai suoi amici umanisti». Ma «né lui né gli altri avevano letto più di uno o due scampoli della sua scrittura che, a quanto si sapeva, era andata perduta per sempre». E pensare che 1.450 anni prima il De rerum natura era ben conosciuto e molto apprezzato. «L'opera poetica di Lucrezio», aveva scritto Cicerone al fratello Quinto l'11 febbraio del 54 a. C., «è proprio come mi scrivi, rivela uno splendido ingegno, ma anche notevole abilità artistica». Virgilio lo aveva lodato (pur senza nominarlo) nelle Georgiche. E Ovidio aveva scritto estasiato: «I versi del sublime Lucrezio sono destinati a perire solo allora quando in un sol giorno tutta la terra sarà distrutta».
L'unico profilo biografico di Lucrezio era stato scritto alla fine del IV secolo d. C. - cioè centinaia di anni, quasi 500, dopo la morte del poeta - da un grande Padre della Chiesa, san Girolamo, il quale aveva parlato del poeta riferendo «che dopo essere impazzito per un filtro d'amore e aver scritto negli intervalli della follia alcuni libri, che Cicerone emendò, si suicidò all'età di 44 anni». Qui Greenblatt fa sua la tesi già argomentata da Luciano Canfora nella Vita di Lucrezio (Sellerio), secondo cui Girolamo elaborò un racconto maligno di pura fantasia, scritto in funzione delle guerre filosofico-religiose della Chiesa del suo tempo. Racconto che nulla aveva a che fare con i termini reali dell'esistenza dell'autore del De rerum natura.
Perché questa ostilità nei confronti di Lucrezio? Alla Chiesa del IV secolo interessava colpire il filosofo che aveva ispirato l'opera di Lucrezio: Epicuro. Epicuro era nato verso la fine del 342 a. C. nell'isola egea di Samo, dove suo padre, un povero maestro ateniese, era emigrato come colono. Aveva raccolto l'eredità di Leucippo di Abdera e del suo allievo Democrito (V secolo a. C.), sostenendo che ogni cosa esistita e che esisterà si compone di minuscoli atomi indistruttibili. Affermava anche che gli dei sono indifferenti alle sorti degli esseri umani. L'altra sua tesi filosofica secondo cui lo scopo supremo della vita è il piacere - seppur definito in termini assai sobri e responsabili - «fu uno scandalo sia per i pagani sia per i loro avversari, gli ebrei prima e i cristiani poi». Tra i primi cristiani, però, ce n'erano stati alcuni, tra cui Tertulliano, che avevano giudicato ammirevoli alcuni elementi dell'epicureismo. Ma quando, dopo Costantino, la religione cristiana si affermò definitivamente, la Chiesa stabilì che le tesi di Epicuro e Lucrezio sulla mortalità dell'anima andassero combattute in ogni modo.
«Platone e Aristotele, pagani che credevano nell'immortalità dell'anima, potevano in ultima analisi essere tollerati da un cristianesimo trionfante», scrive Greenblatt, «l'epicureismo no». Persino l'imperatore Giuliano l'Apostata (331-363 d. C. circa), che pure aveva cercato di proteggere il paganesimo dall'assalto cristiano, fece un'eccezione a danno di Epicuro: «Non dobbiamo ammettere i discorsi degli epicurei», scrisse. Epicuro non doveva più apparire quello che effettivamente era stato, vale a dire «l'apostolo della moderazione al servizio di un piacere ragionevole», bensì - secondo quelli che erano stati nel De ira Dei i dettami di Lattanzio, un nordafricano nominato precettore del figlio di Costantino - come «una figura dedita a eccessi sfrenati». La filosofia epicurea, sosteneva Lattanzio, ha numerosi seguaci «non perché proponga una qualche verità, ma perché il nome allettante del piacere invita molte persone». I cristiani, proseguiva, devono rifiutare tale invito e comprendere che «piacere è un nome in codice per vizio».
Tale condanna durerà molto a lungo: mille anni dopo, Dante nella Divina Commedia metterà Epicuro all'inferno (Canto X) in bare incandescenti con «tutti suoi seguaci che l'anima col corpo morta fanno». E Lucrezio doveva subire lo stesso trattamento. Così, tra il IV e il IX secolo, il De rerum natura sopravvisse solo per la sua preziosità stilistica, citato en passant in liste di esempi grammaticali e lessicografici, ossia come modello di un corretto uso del latino. Nel VII secolo, Isidoro di Siviglia, nel compilare una vasta enciclopedia, l'aveva utilizzato come fonte autorevole sulla meteorologia. Il libro, scrive ancora Greenblatt, era riemerso brevemente all'epoca di Carlo Magno, quando si era registrata una cruciale ondata di interesse per i volumi antichi e Dungal, un colto monaco irlandese, ne aveva meticolosamente trascritta una copia. Tuttavia «non essendo mai stato discusso o diffuso, il volume era ricaduto nell'oblio dopo ciascuna di quelle fugaci apparizioni». Accadde quasi per caso che qualche monaco nel IX secolo, del tutto ignaro delle polemiche di alcuni secoli prima e solo in omaggio allo stile e alla sintassi dell'opera, ne copiasse nuovamente il testo; certo non per diffonderlo, ma solo per tramandarlo. Tant'è che due manoscritti del De rerum natura - non quello da cui copiò Poggio Bracciolini che è andato distrutto - sono sopravvissuti, per essere infine ritrovati nella collezione di Isaac Voss, uno studioso olandese del XVII secolo e, dal 1689, si trovano all'Università di Leida. Ma nel Quattrocento di quei volumi non si sapeva ancora nulla.
Fu nel Quattrocento che Francesco Petrarca prima (a partire dal 1330) e poi Giovanni Boccaccio, Coluccio Salutati, cancelliere della Repubblica fiorentina, iniziarono a scoprire quel genere di testi e a diffonderli. Poggio, che arrivò a Roma 25 anni dopo la morte di Petrarca (1374), fu discepolo di quei grandi umanisti. Di volumi da riportare alla luce ce ne erano moltissimi. Nell'antica Grecia si era già sviluppata una grande passione per i volumi, passione che contagiò il mondo mediterraneo. Intorno al 40 a. C., all'incirca dieci anni dopo la morte di Lucrezio, a Roma, sull'Aventino, Asinio Pollione, un amico di Virgilio, costruì la prima biblioteca pubblica. Qualche anno dopo Augusto ne fondò altre due e nel IV secolo se ne contavano 28. Anche i privati che se lo potevano permettere iniziarono ad acquistare libri. Nella distruzione di Ercolano (79 d. C.) fu coperta di lava quella che oggi chiamiamo la Villa dei Papiri, dove erano collezionati innumerevoli rotoli di cui si è salvata la parte interna. Il grammatico Tirannione possedeva 30 mila volumi. Il medico Sereno Sammonico, 60 mila: Roma antica, scrive Greenblatt, era stata contagiata «dalla febbre greca dei libri». Nel corso di quei secoli furono realizzati e venduti decine di migliaia di volumi.
Poi venne Costantino, grazie al quale nel 313 d. C. iniziò il processo che avrebbe fatto del cristianesimo la religione ufficiale. E - nel 391 d. C. - Teodosio il Grande diede il via a una campagna per la distruzione dei luoghi del paganesimo, tra cui le biblioteche. Ad Alessandria se ne occupò il patriarca Teofilo e, qualche anno dopo di lui, suo nipote Cirillo, che estese l'attacco agli ebrei. Ai due si devono la distruzione della biblioteca del Serapeo e l'uccisione della filosofa Ipazia. «La sua figura», ha scritto Silvia Ronchey in Ipazia (Rizzoli), «ha incarnato la superiorità del paganesimo, con il suo pluralismo e la sua apertura, rispetto alla dogmatica chiusura dei monoteismi». Secondo alcuni, ha aggiunto la Ronchey, «il suo fu un assassinio politico; secondo altri, fu l'espressione dell'intolleranza religiosa di antichi monaci talebani, nella cui violenza si specchiavano la vocazione estremista e gli eccessi integralisti della Chiesa alle origini della sua scalata al potere». Per quel che riguarda la distruzione dei libri, gli «eccessi integralisti» cristiani fecero una parte, guerre e crisi economica il resto.
Talché sono sopravvissuti solo 7 degli 80 o 90 drammi di Eschilo e dei circa 120 di Sofocle, mentre Euripide e Aristofane se la sono cavata un po' meglio: 18 su 92 per il primo, e 11 su 43 per il secondo. Didimo di Alessandria scrisse più di 3.500 libri, che però, a parte qualche frammento, sono svaniti nel nulla. Alla fine del V secolo d. C. il curatore letterario Stubeo compilò un'antologia di prose e poesie dei migliori autori antichi: su 1.430 citazioni, 1.115 sono tratte da opere ormai irrecuperabili. Sono stati inghiottiti nel nulla i testi dei fondatori dell'atomismo, Leucippo e Democrito, e quasi tutte le centinaia di opere del loro erede intellettuale, Epicuro, di cui sono rimaste solo tre lettere e una lista di 40 massime riportate dallo storico della filosofia Diogene Laerzio. Così come sono scomparse del tutto le opere, citate con ammirazione da Quintiliano, di Macro, Varrone Atacino, Cornelio Severo, Saleio Basso, Gaio Rabirio, Albinovano Pedone, Marco Furio Bibaculo, Lucio Accio, Marco Pacuvio. Durante le guerre gotiche, scoppiate alla metà del VI secolo, e ancor più nel periodo successivo, «gli ultimi laboratori commerciali dedicati alla produzione di volumi erano falliti». Toccò ai monaci copiare i libri già in loro possesso, non potendo neanche più ricorrere ai produttori di papiro egiziano che, in assenza di un mercato librario remunerativo, erano tutti falliti. Così accadeva spesso che «lavorando con coltelli, spazzole e stracci, i monaci avevano cancellato dalle antiche pergamene i vecchi scritti - Virgilio, Ovidio, Cicerone, Seneca, Lucrezio - per sostituirli con i testi che i superiori avevano ordinato loro di copiare».
Ma il testo più importante - che se non fosse stato per quella missione di Poggio Bracciolini a Fulda forse avremmo perso per sempre (anche se poi se ne ritrovarono altre due copie del IX secolo, ma chissà se qualcuno sarebbe riuscito a leggerle secoli e secoli dopo) - fu quello di Lucrezio. Vediamo - con estrema semplificazione - quali sono i concetti basilari del De rerum natura anche se, avverte Greenblatt, una sintesi come quella che segue rischia di oscurare «l'incredibile vigore poetico» dell'opera che, del resto, il poeta stesso sminuisce quando paragona i propri versi al «miele spalmato intorno al bordo di una tazza contenente una medicina che altrimenti un bambino ammalato potrebbe rifiutarsi di bere».
Ogni cosa è fatta di particelle invisibili. Le particelle elementari della materia - «i semi delle cose» - sono eterni. Le particelle elementari sono infinite nel numero, ma limitate nella forma e nelle dimensioni. Le particelle si muovono in un vuoto infinito. L'universo non ha un creatore o un architetto. Ogni cosa prende origine da una «deviazione» (che Lucrezio chiama declinatio, inclinatio o clinamen). La deviazione è la fonte del libero arbitrio. La natura sperimenta senza sosta. L'universo non fu creato per o intorno agli esseri umani. Gli esseri umani non sono unici. La società umana non iniziò in un'età dell'oro in cui prevalevano la tranquillità e l'abbondanza, bensì durante una lotta primitiva per la sopravvivenza. L'anima muore. L'aldilà non esiste. La morte non è nulla per noi. Le religioni organizzate (va tenuto presente che Lucrezio scriveva alcuni decenni prima della nascita di Cristo) sono illusioni superstiziose. Le religioni sono tutte crudeli. Non esistono angeli, demoni o fantasmi. Lo scopo supremo della vita umana è l'aumento del piacere e la riduzione del dolore. Il maggiore ostacolo al piacere non è il dolore, bensì l'illusione. Comprendere la natura delle cose genera profondo stupore.
Poggio mandò il libro appena copiato a un amico, Niccolò Niccoli, perché ne facesse altre copie, senza neanche comprendere bene di chi si trattasse. Qualche anno dopo cercò di rientrarne in possesso («Voglio leggere Lucrezio ma vengo privato della sua presenza: intendi tenerlo per altri dieci anni?», protestava con Niccoli) e però non ci riuscì. Di lì a poco Johannes Gutenberg avrebbe inventato i caratteri mobili e il De rerum natura sarebbe stato finalmente stampato, diffuso e reso, per così dire, eterno. Comunque la sua fortuna fu immediata, già alla fine del Quattrocento. E con essa, quella di Epicuro. Nel 1509 allorché Raffaello dipinse la «Scuola di Atene» - una rappresentazione di omaggio alla filosofia greca - nella Stanza della Segnatura in Vaticano, diede a Platone e Aristotele «il posto d'onore nella luminosa scena», ma sotto l'ampio arco raffigurò anche Epicuro, stabilendo con ciò che la filosofia epicurea potesse «convivere in armonia con la dottrina cristiana», e fosse meritevole di un'attenta discussione da parte dei teologi raffigurati sulla parete opposta. Sbagliava.
Nel dicembre 1516, quasi un secolo dopo il ritrovamento del De rerum natura, il Sinodo fiorentino, un influente gruppo di ecclesiastici d'alto rango, proibì la lettura di Lucrezio nelle scuole. Poi, nel 1551 i teologi del Concilio di Trento misero al bando sia Epicuro che l'opera di Lucrezio. Ma era tardi. A quel libro si sarebbero ispirati Tommaso Moro, Giordano Bruno, William Shakespeare (e con lui Spencer, Donne, Bacone), Galileo Galilei. I Saggi di Montaigne, pubblicati per la prima volta in Francia nel 1580 e tradotti in inglese nel 1603, contengono quasi cento citazioni dal De rerum natura. Il filosofo, astronomo e sacerdote francese Pierre Gassendi (1592-1655) si dedicò a un ambizioso tentativo di riconciliare epicureismo e cristianesimo e uno dei suoi più celebri discepoli, Molière, si applicò a una traduzione (purtroppo perduta) del poema di Lucrezio. Ammiratore di Epicuro fu, nel XVII secolo, Isaac Newton, e così anche il presidente degli Stati Uniti Thomas Jefferson, che collezionò ben cinque edizioni latine del De rerum natura e in una lettera a William Short del 31 ottobre 1819 scrisse: «Ritengo che le dottrine autentiche di Epicuro (non quelle attribuite) contengano tutte le cose razionali della filosofia morale che ci hanno lasciato la Grecia e Roma». A Epicuro e Lucrezio renderanno omaggio Baruch Spinoza nel Seicento e Charles Darwin nell'Ottocento.
A questo punto dobbiamo riaffermare, con Greenblatt, che non esiste un'unica spiegazione per l'inizio del Rinascimento e la liberazione delle forze che hanno modellato il nostro mondo. E certo «non si può dire che un poema sia stato responsabile di un così drastico mutamento intellettuale, morale e sociale... Nessuna opera da sola avrebbe potuto produrre un effetto così esplosivo, soprattutto un testo di cui per secoli non si era potuto parlare liberamente in pubblico senza correre rischi». Ma si può dire che questo libro antico, ricomparso all'improvviso, «fece la differenza».
E i due protagonisti di quel fondamentale 1417? Giovanni XXIII, tornato ad essere Baldassarre Cossa, dopo tre anni di carcere, pagò la propria liberazione, fu nominato cardinale a Firenze, dove morì nel 1419, e fu sepolto in una bellissima tomba realizzata da Donatello nel battistero del Duomo. Poggio Bracciolini, per sottrarsi alle tensioni di cui si è detto all'inizio, accettò il posto di segretario di Henry Beaufort, vescovo di Winchester, e rimase in Inghilterra per quattro - per lui interminabili - anni. Poi tornò a Roma, in Vaticano. Si arricchì collezionando oggetti antichi. Nei suoi ultimi anni di vita fu cancelliere di Firenze. Morì nel 1459, fu sepolto nella chiesa di Santa Croce, ebbe un ritratto di Antonio Pollaiolo e la città di Firenze gli fece fare una statua che fu collocata davanti a Santa Maria del Fiore. Statua che, però, nel 1560, allorché fu ristrutturata la facciata del Duomo, fu spostata in un'altra parte dell'edificio. Nel 1959, in occasione del cinquecentesimo anniversario della sua morte, il paese in cui nacque è stato ribattezzato Terranuova Bracciolini e la statua è stata collocata nella piazza principale della cittadina. Greenblatt è andato a vederla e ha avuto l'impressione che «pochi di coloro che vi passano davanti per raggiungere i vicini spacci aziendali di abbigliamento abbiano idea di chi commemori». Un destino non insolito per un grande umanista che pure ha cambiato la storia dell'umanità.
Quel Giovanni XXIII si chiamava Baldassarre Cossa, era nato nell'isola di Procida e apparteneva a una famiglia di pirati (due suoi fratelli furono catturati e condannati a morte, anche se poi, grazie agli intrighi di Baldassarre, la pena fu commutata in detenzione). Ma non fu per l'attività corsara che quel pontefice mise in imbarazzo i suoi contemporanei. Cossa si era già distinto, nelle vesti di camerlengo del papa napoletano Bonifacio IX, mettendo su un fruttuoso mercato di cariche ecclesiastiche e di indulgenze. Poi, quando morì papa Alessandro V, si mormorò che fosse stato lo stesso Baldassarre ad avvelenarlo. Ciò nonostante il Cossa fu scelto nel 1410 come suo erede e prese, appunto, il nome di Giovanni XXIII.
Erano anni di scisma, Cossa fu considerato un antipapa, e gli si contrapposero lo spagnolo Pedro de Luna (Benedetto XIII) e il veneziano Angelo Correr con il nome di Gregorio XII. Contro di lui - come nei confronti dei suoi predecessori, ma stavolta in maniera più decisa - si mosse il re di Napoli Ladislao d'Angiò-Durazzo, che nel 1413 invase Roma, costringendolo a rifugiarsi a Firenze e a chiedere aiuto all'imperatore Sigismondo di Lussemburgo. Questi lo aiutò, obbligandolo, però, a convocare, nel 1414, un concilio a Costanza sui monti tra la Svizzera e la Germania. Lì avrebbero affrontato anche le questioni poste dal riformatore ceco Jan Hus, erede per molti versi dell'eretico inglese John Wycliffe e precursore, con cento anni d'anticipo, di Martin Lutero. Sulle rive del Lago di Costanza si radunarono decine di migliaia di persone (principi elettori, duchi, ambasciatori di varie potenze, il margravio di Brandeburgo, oltreché trenta cardinali, trentatré vescovi, tre patriarchi, cento abati, cinquanta prevosti, cinquemila monaci e frati, diciottomila sacerdoti). Come prima cosa, il Papa e l'imperatore tesero la mano a Hus, invitandolo - con la garanzia dell'immunità - a Costanza per esporre le ragioni della sua protesta contro la vendita delle indulgenze. Era una trappola. Hus si fidò, si presentò, ma fu tratto in arresto senza neanche poter prendere la parola. E però Giovanni XXIII, che credeva di aver stretto con Sigismondo un patto indistruttibile in ragione di quel clamoroso voltafaccia, sbagliò ed ebbe, di lì a breve, una sorte in parte analoga a quella di Hus.
Che le cose per lui si stessero mettendo male, Baldassarre Cossa lo capì l'11 marzo del 1415 quando, dopo che l'arcivescovo di Magonza aveva dichiarato che non avrebbe obbedito a nessuno se non a lui, prese la parola il patriarca di Costantinopoli e, rivolto all'arcivescovo di cui si è appena detto, disse: «Chi è quel tipo? Merita di essere bruciato!». Baldassarre Cossa presagì il pericolo che si celava dietro quell'invettiva contro l'arcivescovo di Magonza, fuggì da Costanza e si rifugiò da un amico nel castello di Sciaffusa. L'amico, però, non era tale da resistere alle lusinghe dell'imperatore, al quale riconsegnò Giovanni XXIII, così che questi immediatamente poté farlo arrestare. Per un breve periodo (prima di essere segregato nel carcere imperiale di Heidelberg) il Papa fu rinchiuso nel castello di Gottlieben, sul Reno, dove era imprigionato Hus, che di lì a breve sarebbe stato arso sul rogo. Ma a differenza di quello per Hus, il procedimento giudiziario contro Giovanni XXIII andò più per le lunghe: venne istruito un processo nel corso del quale gli furono contestati reati di simonia, sodomia, stupro, incesto, tortura e omicidio. Un suo «devoto», Teodorico di Niem, depose contro di lui riferendo che in un solo anno aveva sedotto duecento donne: vedove, ma anche spose e suore. Il processo si concluse nel 1417, come si è detto, con la sua deposizione.
Ed è qui che comincia la nostra vera storia. Non tutti i collaboratori di Cossa lo tradirono come Teodorico di Niem: uno in particolare, Poggio Bracciolini, segretario personale del Papa, si limitò ad allontanarsi da Costanza e decise di dedicarsi alla sua passione, la ricerca di testi dell'antichità. Poggio Bracciolini - sul quale Eugenio Garin ha scritto pagine mirabili in Ritratti di umanisti (Bompiani) e in un saggio che accompagna l'edizione Bur di Facezie - era nato a Terranuova in Toscana e aveva all'epoca 37 anni. Nella sua lunga vita (morì quasi ottantenne) «servì» otto Papi. Nei giorni della disgrazia di Giovanni XXIII andò a cercare soddisfazione nei monasteri, dove giacevano sepolti piccoli e grandi capolavori dell'antichità copiati, nei secoli, dai monaci. E a Fulda - un'abbazia fondata nell'VIII secolo da un discepolo di san Bonifacio, l'apostolo della Germania - proprio in quell'anno, il 1417, Poggio trovò il De rerum natura: un meraviglioso poema di 7.400 versi in esametri composto da Tito Lucrezio Caro a metà del I secolo a. C.
A questo ritrovamento, che ha cambiato il corso della Storia molto di più di quanto si immagini, è dedicato lo straordinario libro di Stephen Greenblatt Il manoscritto che, nell'impeccabile traduzione di Roberta Zuppet, sta per essere pubblicato da Rizzoli. Con ogni probabilità, scrive Greenblatt, quando trovò il De rerum natura e lo fece copiare da uno scrivano, Poggio «conosceva già il nome di Lucrezio tramite Ovidio, Cicerone e altre fonti antiche che aveva studiato con cura insieme ai suoi amici umanisti». Ma «né lui né gli altri avevano letto più di uno o due scampoli della sua scrittura che, a quanto si sapeva, era andata perduta per sempre». E pensare che 1.450 anni prima il De rerum natura era ben conosciuto e molto apprezzato. «L'opera poetica di Lucrezio», aveva scritto Cicerone al fratello Quinto l'11 febbraio del 54 a. C., «è proprio come mi scrivi, rivela uno splendido ingegno, ma anche notevole abilità artistica». Virgilio lo aveva lodato (pur senza nominarlo) nelle Georgiche. E Ovidio aveva scritto estasiato: «I versi del sublime Lucrezio sono destinati a perire solo allora quando in un sol giorno tutta la terra sarà distrutta».
L'unico profilo biografico di Lucrezio era stato scritto alla fine del IV secolo d. C. - cioè centinaia di anni, quasi 500, dopo la morte del poeta - da un grande Padre della Chiesa, san Girolamo, il quale aveva parlato del poeta riferendo «che dopo essere impazzito per un filtro d'amore e aver scritto negli intervalli della follia alcuni libri, che Cicerone emendò, si suicidò all'età di 44 anni». Qui Greenblatt fa sua la tesi già argomentata da Luciano Canfora nella Vita di Lucrezio (Sellerio), secondo cui Girolamo elaborò un racconto maligno di pura fantasia, scritto in funzione delle guerre filosofico-religiose della Chiesa del suo tempo. Racconto che nulla aveva a che fare con i termini reali dell'esistenza dell'autore del De rerum natura.
Perché questa ostilità nei confronti di Lucrezio? Alla Chiesa del IV secolo interessava colpire il filosofo che aveva ispirato l'opera di Lucrezio: Epicuro. Epicuro era nato verso la fine del 342 a. C. nell'isola egea di Samo, dove suo padre, un povero maestro ateniese, era emigrato come colono. Aveva raccolto l'eredità di Leucippo di Abdera e del suo allievo Democrito (V secolo a. C.), sostenendo che ogni cosa esistita e che esisterà si compone di minuscoli atomi indistruttibili. Affermava anche che gli dei sono indifferenti alle sorti degli esseri umani. L'altra sua tesi filosofica secondo cui lo scopo supremo della vita è il piacere - seppur definito in termini assai sobri e responsabili - «fu uno scandalo sia per i pagani sia per i loro avversari, gli ebrei prima e i cristiani poi». Tra i primi cristiani, però, ce n'erano stati alcuni, tra cui Tertulliano, che avevano giudicato ammirevoli alcuni elementi dell'epicureismo. Ma quando, dopo Costantino, la religione cristiana si affermò definitivamente, la Chiesa stabilì che le tesi di Epicuro e Lucrezio sulla mortalità dell'anima andassero combattute in ogni modo.
«Platone e Aristotele, pagani che credevano nell'immortalità dell'anima, potevano in ultima analisi essere tollerati da un cristianesimo trionfante», scrive Greenblatt, «l'epicureismo no». Persino l'imperatore Giuliano l'Apostata (331-363 d. C. circa), che pure aveva cercato di proteggere il paganesimo dall'assalto cristiano, fece un'eccezione a danno di Epicuro: «Non dobbiamo ammettere i discorsi degli epicurei», scrisse. Epicuro non doveva più apparire quello che effettivamente era stato, vale a dire «l'apostolo della moderazione al servizio di un piacere ragionevole», bensì - secondo quelli che erano stati nel De ira Dei i dettami di Lattanzio, un nordafricano nominato precettore del figlio di Costantino - come «una figura dedita a eccessi sfrenati». La filosofia epicurea, sosteneva Lattanzio, ha numerosi seguaci «non perché proponga una qualche verità, ma perché il nome allettante del piacere invita molte persone». I cristiani, proseguiva, devono rifiutare tale invito e comprendere che «piacere è un nome in codice per vizio».
Tale condanna durerà molto a lungo: mille anni dopo, Dante nella Divina Commedia metterà Epicuro all'inferno (Canto X) in bare incandescenti con «tutti suoi seguaci che l'anima col corpo morta fanno». E Lucrezio doveva subire lo stesso trattamento. Così, tra il IV e il IX secolo, il De rerum natura sopravvisse solo per la sua preziosità stilistica, citato en passant in liste di esempi grammaticali e lessicografici, ossia come modello di un corretto uso del latino. Nel VII secolo, Isidoro di Siviglia, nel compilare una vasta enciclopedia, l'aveva utilizzato come fonte autorevole sulla meteorologia. Il libro, scrive ancora Greenblatt, era riemerso brevemente all'epoca di Carlo Magno, quando si era registrata una cruciale ondata di interesse per i volumi antichi e Dungal, un colto monaco irlandese, ne aveva meticolosamente trascritta una copia. Tuttavia «non essendo mai stato discusso o diffuso, il volume era ricaduto nell'oblio dopo ciascuna di quelle fugaci apparizioni». Accadde quasi per caso che qualche monaco nel IX secolo, del tutto ignaro delle polemiche di alcuni secoli prima e solo in omaggio allo stile e alla sintassi dell'opera, ne copiasse nuovamente il testo; certo non per diffonderlo, ma solo per tramandarlo. Tant'è che due manoscritti del De rerum natura - non quello da cui copiò Poggio Bracciolini che è andato distrutto - sono sopravvissuti, per essere infine ritrovati nella collezione di Isaac Voss, uno studioso olandese del XVII secolo e, dal 1689, si trovano all'Università di Leida. Ma nel Quattrocento di quei volumi non si sapeva ancora nulla.
Fu nel Quattrocento che Francesco Petrarca prima (a partire dal 1330) e poi Giovanni Boccaccio, Coluccio Salutati, cancelliere della Repubblica fiorentina, iniziarono a scoprire quel genere di testi e a diffonderli. Poggio, che arrivò a Roma 25 anni dopo la morte di Petrarca (1374), fu discepolo di quei grandi umanisti. Di volumi da riportare alla luce ce ne erano moltissimi. Nell'antica Grecia si era già sviluppata una grande passione per i volumi, passione che contagiò il mondo mediterraneo. Intorno al 40 a. C., all'incirca dieci anni dopo la morte di Lucrezio, a Roma, sull'Aventino, Asinio Pollione, un amico di Virgilio, costruì la prima biblioteca pubblica. Qualche anno dopo Augusto ne fondò altre due e nel IV secolo se ne contavano 28. Anche i privati che se lo potevano permettere iniziarono ad acquistare libri. Nella distruzione di Ercolano (79 d. C.) fu coperta di lava quella che oggi chiamiamo la Villa dei Papiri, dove erano collezionati innumerevoli rotoli di cui si è salvata la parte interna. Il grammatico Tirannione possedeva 30 mila volumi. Il medico Sereno Sammonico, 60 mila: Roma antica, scrive Greenblatt, era stata contagiata «dalla febbre greca dei libri». Nel corso di quei secoli furono realizzati e venduti decine di migliaia di volumi.
Poi venne Costantino, grazie al quale nel 313 d. C. iniziò il processo che avrebbe fatto del cristianesimo la religione ufficiale. E - nel 391 d. C. - Teodosio il Grande diede il via a una campagna per la distruzione dei luoghi del paganesimo, tra cui le biblioteche. Ad Alessandria se ne occupò il patriarca Teofilo e, qualche anno dopo di lui, suo nipote Cirillo, che estese l'attacco agli ebrei. Ai due si devono la distruzione della biblioteca del Serapeo e l'uccisione della filosofa Ipazia. «La sua figura», ha scritto Silvia Ronchey in Ipazia (Rizzoli), «ha incarnato la superiorità del paganesimo, con il suo pluralismo e la sua apertura, rispetto alla dogmatica chiusura dei monoteismi». Secondo alcuni, ha aggiunto la Ronchey, «il suo fu un assassinio politico; secondo altri, fu l'espressione dell'intolleranza religiosa di antichi monaci talebani, nella cui violenza si specchiavano la vocazione estremista e gli eccessi integralisti della Chiesa alle origini della sua scalata al potere». Per quel che riguarda la distruzione dei libri, gli «eccessi integralisti» cristiani fecero una parte, guerre e crisi economica il resto.
Talché sono sopravvissuti solo 7 degli 80 o 90 drammi di Eschilo e dei circa 120 di Sofocle, mentre Euripide e Aristofane se la sono cavata un po' meglio: 18 su 92 per il primo, e 11 su 43 per il secondo. Didimo di Alessandria scrisse più di 3.500 libri, che però, a parte qualche frammento, sono svaniti nel nulla. Alla fine del V secolo d. C. il curatore letterario Stubeo compilò un'antologia di prose e poesie dei migliori autori antichi: su 1.430 citazioni, 1.115 sono tratte da opere ormai irrecuperabili. Sono stati inghiottiti nel nulla i testi dei fondatori dell'atomismo, Leucippo e Democrito, e quasi tutte le centinaia di opere del loro erede intellettuale, Epicuro, di cui sono rimaste solo tre lettere e una lista di 40 massime riportate dallo storico della filosofia Diogene Laerzio. Così come sono scomparse del tutto le opere, citate con ammirazione da Quintiliano, di Macro, Varrone Atacino, Cornelio Severo, Saleio Basso, Gaio Rabirio, Albinovano Pedone, Marco Furio Bibaculo, Lucio Accio, Marco Pacuvio. Durante le guerre gotiche, scoppiate alla metà del VI secolo, e ancor più nel periodo successivo, «gli ultimi laboratori commerciali dedicati alla produzione di volumi erano falliti». Toccò ai monaci copiare i libri già in loro possesso, non potendo neanche più ricorrere ai produttori di papiro egiziano che, in assenza di un mercato librario remunerativo, erano tutti falliti. Così accadeva spesso che «lavorando con coltelli, spazzole e stracci, i monaci avevano cancellato dalle antiche pergamene i vecchi scritti - Virgilio, Ovidio, Cicerone, Seneca, Lucrezio - per sostituirli con i testi che i superiori avevano ordinato loro di copiare».
Ma il testo più importante - che se non fosse stato per quella missione di Poggio Bracciolini a Fulda forse avremmo perso per sempre (anche se poi se ne ritrovarono altre due copie del IX secolo, ma chissà se qualcuno sarebbe riuscito a leggerle secoli e secoli dopo) - fu quello di Lucrezio. Vediamo - con estrema semplificazione - quali sono i concetti basilari del De rerum natura anche se, avverte Greenblatt, una sintesi come quella che segue rischia di oscurare «l'incredibile vigore poetico» dell'opera che, del resto, il poeta stesso sminuisce quando paragona i propri versi al «miele spalmato intorno al bordo di una tazza contenente una medicina che altrimenti un bambino ammalato potrebbe rifiutarsi di bere».
Ogni cosa è fatta di particelle invisibili. Le particelle elementari della materia - «i semi delle cose» - sono eterni. Le particelle elementari sono infinite nel numero, ma limitate nella forma e nelle dimensioni. Le particelle si muovono in un vuoto infinito. L'universo non ha un creatore o un architetto. Ogni cosa prende origine da una «deviazione» (che Lucrezio chiama declinatio, inclinatio o clinamen). La deviazione è la fonte del libero arbitrio. La natura sperimenta senza sosta. L'universo non fu creato per o intorno agli esseri umani. Gli esseri umani non sono unici. La società umana non iniziò in un'età dell'oro in cui prevalevano la tranquillità e l'abbondanza, bensì durante una lotta primitiva per la sopravvivenza. L'anima muore. L'aldilà non esiste. La morte non è nulla per noi. Le religioni organizzate (va tenuto presente che Lucrezio scriveva alcuni decenni prima della nascita di Cristo) sono illusioni superstiziose. Le religioni sono tutte crudeli. Non esistono angeli, demoni o fantasmi. Lo scopo supremo della vita umana è l'aumento del piacere e la riduzione del dolore. Il maggiore ostacolo al piacere non è il dolore, bensì l'illusione. Comprendere la natura delle cose genera profondo stupore.
Poggio mandò il libro appena copiato a un amico, Niccolò Niccoli, perché ne facesse altre copie, senza neanche comprendere bene di chi si trattasse. Qualche anno dopo cercò di rientrarne in possesso («Voglio leggere Lucrezio ma vengo privato della sua presenza: intendi tenerlo per altri dieci anni?», protestava con Niccoli) e però non ci riuscì. Di lì a poco Johannes Gutenberg avrebbe inventato i caratteri mobili e il De rerum natura sarebbe stato finalmente stampato, diffuso e reso, per così dire, eterno. Comunque la sua fortuna fu immediata, già alla fine del Quattrocento. E con essa, quella di Epicuro. Nel 1509 allorché Raffaello dipinse la «Scuola di Atene» - una rappresentazione di omaggio alla filosofia greca - nella Stanza della Segnatura in Vaticano, diede a Platone e Aristotele «il posto d'onore nella luminosa scena», ma sotto l'ampio arco raffigurò anche Epicuro, stabilendo con ciò che la filosofia epicurea potesse «convivere in armonia con la dottrina cristiana», e fosse meritevole di un'attenta discussione da parte dei teologi raffigurati sulla parete opposta. Sbagliava.
Nel dicembre 1516, quasi un secolo dopo il ritrovamento del De rerum natura, il Sinodo fiorentino, un influente gruppo di ecclesiastici d'alto rango, proibì la lettura di Lucrezio nelle scuole. Poi, nel 1551 i teologi del Concilio di Trento misero al bando sia Epicuro che l'opera di Lucrezio. Ma era tardi. A quel libro si sarebbero ispirati Tommaso Moro, Giordano Bruno, William Shakespeare (e con lui Spencer, Donne, Bacone), Galileo Galilei. I Saggi di Montaigne, pubblicati per la prima volta in Francia nel 1580 e tradotti in inglese nel 1603, contengono quasi cento citazioni dal De rerum natura. Il filosofo, astronomo e sacerdote francese Pierre Gassendi (1592-1655) si dedicò a un ambizioso tentativo di riconciliare epicureismo e cristianesimo e uno dei suoi più celebri discepoli, Molière, si applicò a una traduzione (purtroppo perduta) del poema di Lucrezio. Ammiratore di Epicuro fu, nel XVII secolo, Isaac Newton, e così anche il presidente degli Stati Uniti Thomas Jefferson, che collezionò ben cinque edizioni latine del De rerum natura e in una lettera a William Short del 31 ottobre 1819 scrisse: «Ritengo che le dottrine autentiche di Epicuro (non quelle attribuite) contengano tutte le cose razionali della filosofia morale che ci hanno lasciato la Grecia e Roma». A Epicuro e Lucrezio renderanno omaggio Baruch Spinoza nel Seicento e Charles Darwin nell'Ottocento.
A questo punto dobbiamo riaffermare, con Greenblatt, che non esiste un'unica spiegazione per l'inizio del Rinascimento e la liberazione delle forze che hanno modellato il nostro mondo. E certo «non si può dire che un poema sia stato responsabile di un così drastico mutamento intellettuale, morale e sociale... Nessuna opera da sola avrebbe potuto produrre un effetto così esplosivo, soprattutto un testo di cui per secoli non si era potuto parlare liberamente in pubblico senza correre rischi». Ma si può dire che questo libro antico, ricomparso all'improvviso, «fece la differenza».
E i due protagonisti di quel fondamentale 1417? Giovanni XXIII, tornato ad essere Baldassarre Cossa, dopo tre anni di carcere, pagò la propria liberazione, fu nominato cardinale a Firenze, dove morì nel 1419, e fu sepolto in una bellissima tomba realizzata da Donatello nel battistero del Duomo. Poggio Bracciolini, per sottrarsi alle tensioni di cui si è detto all'inizio, accettò il posto di segretario di Henry Beaufort, vescovo di Winchester, e rimase in Inghilterra per quattro - per lui interminabili - anni. Poi tornò a Roma, in Vaticano. Si arricchì collezionando oggetti antichi. Nei suoi ultimi anni di vita fu cancelliere di Firenze. Morì nel 1459, fu sepolto nella chiesa di Santa Croce, ebbe un ritratto di Antonio Pollaiolo e la città di Firenze gli fece fare una statua che fu collocata davanti a Santa Maria del Fiore. Statua che, però, nel 1560, allorché fu ristrutturata la facciata del Duomo, fu spostata in un'altra parte dell'edificio. Nel 1959, in occasione del cinquecentesimo anniversario della sua morte, il paese in cui nacque è stato ribattezzato Terranuova Bracciolini e la statua è stata collocata nella piazza principale della cittadina. Greenblatt è andato a vederla e ha avuto l'impressione che «pochi di coloro che vi passano davanti per raggiungere i vicini spacci aziendali di abbigliamento abbiano idea di chi commemori». Un destino non insolito per un grande umanista che pure ha cambiato la storia dell'umanità.
«Corriere della sera» del 4 settembre 2012
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