Torna l'attenzione per la pratica dello scambio gratuito che produce relazioni estranee alla logica mercantile
di Matteo Aria e Adriano Favole
Nel corso della sua esistenza, Marcel Mauss scrisse opere acute e pionieristiche tra cui, nei primi anni Venti del Novecento, il celebre Saggio sul dono (Einaudi). L'etnologo francese scopri che in molte società antiche e in alcune società «primitive» gli scambi non avvenivano in base alla logica dell'interesse individuale e alla legge della domanda e dell'offerta. Intere culture infatti erano vissute o continuavano a vivere nell'atmosfera del dono, inteso come una prestazione di beni e servizi effettuata, senza garanzia di restituzione, al fine di creare, alimentare o ricreare il legame sociale tra le persone, come dice Jacques Godbout, uno dei massimi studiosi del fenomeno (Lo spirito del dono, Bollati Boringhieri). Mauss identificò la logica del dono e le sue tre «leggi» (dare, ricevere, ricambiare) nelle culture oceaniane, tra i melanesiani, i maori, i samoani, i tonga-ni. Nella società moderna il dono sopravviveva in modo residuale, per esempio a Natale o in occasione delle cerimonie nuziali e nelle relazioni amicali e famigliari. Mauss era piuttosto pessimista sul destino del dono nella società contemporanea: «L'uomo — scrive nel suo Saggio — è stato per lunghissimo tempo diverso, e solo da poco è diventato una macchina, anzi una macchina calcolatrice». Eppure, da socialista convinto e difensore dei valori della solidarietà, vedeva nel ritorno alla logica del dono l'unica via di redenzione di un mondo in cui andavano crescendo colossali diseguaglianze sociali ed economiche.
A lungo confinato nel ristretto circolo degli antropologi, il Saggio sul dono conoscerà una rinnovata fortuna alla fine degli anni Settanta, in coincidenza con le prime avvisaglie della crisi economica e con l'indebolirsi delle grandi narrazioni (in primis marxismo e strutturalismo), il dono, inteso come il totalmente altro dall'utile, perdita assoluta e incondizionata, affascinò filosofi come Jacques Derrida (Donner le temps, Galilée) ed Emmanuel Lévinas. Parallelamente, nonostante la trionfale ascesa dell'homo oeconomicus globalizzato, l'Occidente ha progressivamente riscoperto (o dato vita), ad alcune «isole» di dono protette dalle impetuose correnti del capitalismo: dal volontariato alla donazione del sangue, dai gruppi di acquisto ai condomini solidali, dalle economie informali alla decrescita, fino alle varie forme dello sharing. In Francia, i «nipoti» di Marcel si sono uniti nel Mauss, acronimo del Movimento anti utilitarista nelle scienze sociali ed eponimo del fondatore, rivendicando l'attualità dello spirito del dono nelle società contemporanee.
Se l'Occidente ha ritrovato il dono, va detto che il peccato originale del suo pensiero — l'etnocentrismo — ha finito per oscurarne il destino in altre società, come se l'«altrove» globalizzato non avesse più nulla da dire. Che fine ha fatto il dono in Amazzonia, nell'America «nativa», in Melanesia e in Polinesia? Che fine hanno fatto i sontuosi riti potlatch dei Kwakiutl americani, i cui capi rivaleggiavano in generosità fino a distruggere le ricchezze? E lo scambio kula degli abitanti delle isole Trobriand della Melanesia (Bronislaw Malinowski, Argonauti del Pacìfico occidentale, Bollati Boringhieri) che compivano lunghe navigazioni attraverso mari tempestosi per donare e ricevere collane di conchiglia (e rinsaldare nel contempo relazioni sociali e matrimoniali)? I polinesiani hanno rinnegato il dono adottando il denaro, le automobili, la televisione e i social network?
L'incontro con le società che ispirarono Mauss riserva anche oggi sorprese interessanti. Fin dall'esordio delle nostre ricerche in Oceania ci siamo accorti di quanto le atmosfere del dono fossero diffuse e, anzi, sembrassero rifiorire in modo creativo proprio in risposta all'affermarsi della modernità capitalistica. L'ospitalità, i beni di prestigio come i maiali e le stoffe di corteccia, gran parte dei servizi alle persone (crescere, accudire, cucinare, curare) rientrano tuttora nella sfera del dono. In particolare, i prodotti della terra non possono essere comprati e venduti, perché essi, a differenza delle merci che arrivano dall'Occidente, sono intrisi della persona che li ha seminati, cresciuti e prodotti: donandoli, si dona qualcosa di sé (Mauss lo chiamò hau, utilizzando una parola maori), cosa che costringerà chi riceve a ricambiare, alimentando una spirale infinita di relazioni.
Le culture del dono dunque esistono tuttora, ma la sua presenza non è esclusiva come immaginava Mauss. Partecipi della storia e della globalizzazione in corso, gli oceaniani (e molti altri nativi) hanno difeso e mantenuto ampia la sfera del dono, facendola tuttavia convivere da un lato con le merci che il mercato globale vomita incessantemente sulle loro isole e con la razionalità utilitaristica; dall'altro con un insieme di beni che solo di recente hanno attratto l'interesse di antropologi ed economisti. La circolazione degli oggetti, attraverso il dono e lo scambio di mercato, è in effetti garantita dal fatto che vi sono cose che non possono e non devono circolare affatto. Laddove il colonialismo non si è imposto con effetti troppo devastanti, la terra e l'acqua, forme di sapere come la danza e i racconti della tradizione orale, hanno mantenuto il loro status di beni inalienabili, come scoprì Annette Weiner, tornando a studiare negli anni Settanta i Trobriandesi di Malinowski (Inalienables possessions, University of California Press). Quelli che un tempo chiamavamo primitivi ci insegnano dunque che solo un'accorta politica dei beni comuni garantisce la sostenibilità dell'economia di scambio.
Le ricerche compiute in questi anni in Oceania e in altre parti di mondo, ci dicono che non esistono — almeno nella contemporaneità — società interamente fondate sul dono, ma forme di convivenza e complementarietà con il mercato. Tuttavia, sembra esserci una differenza piuttosto netta tra società ed epoche che sottomettono il sociale all'economico e altre che, attraverso il dono, compiono la scelta opposta. Diversamente dallo scambio basato sull'interesse egoistico dell'homo oeconomicus, il dono è un fattore di «domesticazione». Se il mercato per sua natura libera dai legami e crea differenza (di valore, di ricchezza, di status), il dono rafforza la somiglianza e «addomestica» l'altro: come dice la volpe al Piccolo principe, addomesticare «è una cosa da molto dimenticata. Vuol dire "creare dei legami"...».
Gli anni di benessere e crescita economica senza precedenti del dopoguerra, hanno costruito e reso abnorme l'homo oeconomicus che è in noi. Gli anni di crisi e decrescita che stiamo vivendo sembrerebbero viceversa più propizi a rafforzare il dono e la relazione. Forse, riflettendo sulle nuove esperienze del dono in Occidente e su quanto sta avvenendo nelle società in cui esso fu scoperto per la prima volta, possiamo concludere che non si tratta di uccidere l'homo oeconomicus, ma di pensare nuovi e più ampi spazi di convivenza tra mercato e dono, smettendo di vedere quest'ultimo come una chimera, un'utopia radicalmente antitetica al mercato.
Il dono continua per molti versi a essere un «enigma» (Maurice Godelier, L'enigme du don, Fayard) e la sua logica non è priva di ombre, ambiguità e avvelenamenti: il dono eccessivo distrugge ricchezza, quello unilaterale e asimmetrico umilia chi lo riceve, creando clientele e corruzione. Nonostante ciò, il dono, se adottiamo una visione «slargata» dell'umanità, appare alquanto tenace e persistente e, soprattutto, secondo la lezione di Claude Lévi-Strauss, è il fondamento stesso della società. Come dice il titolo del festival di Pistoia: «Dono, dunque siamo».
Viaggi e ricerche nel Pacifico
Gli autori di questo articolo, studiosi del dipartimento Culture, politica, società dell'Università di Torino, hanno compiuto vaste ricerche sul campo tra le popolazioni delle isole del Pacifico, note per la loro cultura del dono.
Adriano Favole ha lavorato in Nuova Caledonia e nel territorio di Wallis e Futuna. Dalle sue indagini è scaturito il saggio -
«Oceania. Isole di creatività culturale», edito da Laterza nel 2010.
Matteo Aria ha svolto ricerche nelle Marchesi e nelle Isole della Società, su cui ha scritto il libro «Cercando nel vuoto. La memoria perduta e ritrovata nella Polinesia francese» (Pacini, 2007)
Il francese Marcel Mauss (1872-1950) è considerato uno del fondatori dell'antropologia.
Nipote e allievo del grande sociologo Émile Durkheim, studioso delle pratiche magiche e religiose, è noto soprattutto per il suo «Saggio sul dono» del 1923 (edito in Italia da Einaudi), nel quale analizza a fondo i meccanismi della reciprocità.
Altre opere importanti di Mauss sono «Manuale di etnografia» (Jaca Book), «Teoria generale della magia» (Einaudi), «Saggio sul sacrificio» (Morcelliana)
All'insegnamento di Mauss si richiama il Mouvement anti-utilitariste en sciences sociales (in sigla appunto Mauss), che pubblica la «Revue du Mauss» e ha tra i suoi esponenti più noti Alain Caillé e il teorico della decrescita Serge Latouche
«Corriere della Sera – supplemento “la lettura”» del 20 maggio 2012
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