di Pierluigi Battista
Ma davvero è così inaudita, storicamente sconosciuta, l’immagine raccapricciante del bambino dei talebani che sgozza la vittima con il suo coltello santo e assassino? Come se non ammontassero a centinaia di migliaia i «bambini-martiri» allevati nel «culto erotico della morte» (la definizione è di Carlo Panella nel libro «Fascismo islamico» appena pubblicato da Rizzoli) e mandati al sacrificio da Khomeini nella guerra santa contro l’Iraq. Come se non fosse una specialità delle dittature totalitarie l’ostentazione dei bambini esibiti da trofei di regime e costretti a esibirsi canterini e inghirlandati nell’adulazione del tiranno, di Stalin e Hitler, di Mao e di Saddam Hussein. Come, insomma, se il bambino usato, martirizzato, reso criminale sull’altare di un’Idea superiore che prevede l’annientamento proprio e del nemico non fosse il simbolo stesso delle utopie sanguinarie che abbiamo conosciuto nel «secolo delle idee assassine». L’omicidio come rito di iniziazione rivoluzionaria, la prova del sangue come sigillo di una devozione totale e assoluta non è stato inventato dai tagliagole dell’islamismo mahdista. Nel pieno delle purghe staliniane una medaglia speciale insigniva i bambini che si erano dimostrati perfetti delatori denunciando le mene controrivoluzionarie di padri e madri: il Partito come negazione di ogni particolarismo familiare, più importante di ogni affetto privato, di ogni sentimento liquidato come sopravvivenza «piccoloborghese» di un passato ripudiato. Ai bambini e agli adolescenti del Reich agonizzante, ha raccontato Joachim Fest, venne affidato il compito di una difesa impossibile nella Berlino devastata, a guardia del bunker dove Hitler trascorreva i giorni e le notti di una disfatta apocalittica che non avrebbe dovuto risparmiare nulla, nemmeno la vita dei più giovani. Sono note le gesta delle imberbi «guardie rosse» che Mao scatenò a caccia degli adulti da umiliare e sopprimere, carnefici chiamati a snidare la corruzione, uniche creature pure che non avrebbero arretrato nemmeno di fronte alle più atroci nefandezze della Rivoluzione culturale. E Pol Pot si servì di «adolescenti aguzzini» per compiere un massacro di dimensioni spaventose, per snidare gli adulti colpevoli solo di portare un paio di occhiali (pericolosi intellettuali) o di parlare una lingua straniera (pericolosi «cosmopoliti») o di aver vissuto nei vizi della città prerivoluzionaria e perciò destinati a finire in quella montagna di teschi che è l’immagine simbolo del delirio khmer rosso in Cambogia. I bambini come cera molle e plasmabile da modellare, puri e incontaminati, secondo i dettami del Verbo rappresentano perciò uno spettacolo tristemente consueto della nostra storia. E negli occhi del dodicenne che in Afghanistan si appresta ad affondare il coltellaccio nel collo della vittima si legge la riduzione degradante del nemico, dell’infedele, dell’apostata, della «spia» a puro oggetto sacrificale utile al trionfo della vera fede. E’ tipico dell’utopismo palingenetico confidare nella determinazione «innocente» dell’infanzia, scorgere nel bambino il vero «uomo nuovo» interamente forgiato dalla rivoluzione, libero dal peso inerte del passato, senz’altro legame affettivo, sentimentale, emotivo, semplicemente abitudinario con il mondo di ieri, irrimediabilmente sporco e infetto. I bambini come avanguardia di una società interamente nuova, senza l’impaccio delle remore morali elaborate di una società corrotta: tragicamente non c’è niente di inaudito in questa rappresentazione. Lo sgomento e l’orrore di quel bambino assassino non è lo stupore per un esotico terrificante. De nobis fabula narratur.
«Corriere della Sera» del 23 aprile 2007
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