Giorgio Bocca attacca lo scrittore di Alba: «falsa Resistenza». La difesa degli studiosi
di Paolo Di Stefano
Cordelli: «Chi lo critica vittima dell’ideologia». Mondo: «Giudizi da smemorati»
Nel ‘52, quando uscì la prima raccolta di racconti di Beppe Fenoglio, I ventitré giorni della città di Alba, il parere dell’«Unità» fu durissimo: «Fenoglio ci presenta degli strani partigiani, che stanno tra la caricatura e il picaresco, che combattono per avventura o addirittura per niente e per nessuno (...)». Questa stroncatura la ricorda ora Gabriele Pedullà (che allo scrittore piemontese ha dedicato una monografia, La strada più lunga, Donzelli), leggendo l’intervista di Bruno Quaranta a Giorgio Bocca apparsa ieri sulla «Stampa». Dice Bocca a proposito del Partigiano Johnny: «Fenoglio della Resistenza non ha capito nulla. Io, di quei venti mesi, ho un’idea politica e storica. So qual è stato il valore della Resistenza, so perché il sogno che la innervava è naufragato. Fenoglio è come Pansa». Insomma, ci racconta una Resistenza «falsa», ridotta a «teatro di assassini, di cialtroni, di poveracci». «Questo - continua Pedullà - è il risultato dell’abbrutimento della discussione sulla Resistenza seguita ai libri di Pansa: una discussione che produce reazioni uguali e contrarie. Secondo "l’Unità", nel ‘52, il libro di Fenoglio era un attacco alle idealità resistenziali. Certo, nel primo racconto c’era un tono eroicomico, ma come si fa a liquidare Una questione privata e Il partigiano Johnny come rappresentazioni false della Resistenza...». Contini parlò di una «trascrizione prettamente esistenziale, non agiografica, di probità flaubertiana». Semplicemente una Resistenza non oleografica: «In "Patria indipendente", la rivista dell’Associazione dei partigiani, fino alla metà degli anni ‘70 il nome di Fenoglio non compare mai: agli ex partigiani piacevano solo i santini eroici della guerra civile, un po’ come a Bocca. E con il silenzio condannavano Fenoglio come un calunniatore. In realtà io concordo con Sergio Luzzatto, quando sostiene che gli scrittori, e Fenoglio per primo, scrivendo a caldo hanno dato un’idea della Resistenza molto più vera e reale di quella ricostruita dagli storici». C’è in Bocca una sorta di strabismo ideologico, secondo Franco Cordelli, che pure è un suo lettore fedele. «L’intervista è simpatica, ma il giudizio su Fenoglio è totalmente ideologico e quindi sbagliato, anche ideologicamente. Un conto è esprimere certe opinioni negli anni ‘50, come ha fatto Fenoglio, altro conto è esprimerle nel 2000 come Pansa. E comunque Fenoglio non si valuta in base a tali opinioni». Cioè? «Leggendo Fenoglio non ho mai pensato alla Resistenza come un problema politico: direi che non è l’aspetto più rilevante. La questione cruciale è semmai il rapporto tra realtà e idealità: la guerra partigiana per Fenoglio è un’occasione. Per Bocca, invece, la contingenza è la totalità. E poi, non è vero che il Partigiano Johnny è solo un teatro di straccioni e di assassini: anche dal punto di vista strettamente contenutistico è un’osservazione che non fotografa Fenoglio. Ma da Bocca non possiamo aspettarci il critico letterario. Sarebbe riduttivo considerare la letteratura solo come verità storica». E Cordelli conclude con una battuta amara: «Poiché Fenoglio non è entrato nel canone della letteratura italiana in America, la questione alla fine appare irrilevante. Tutto ciò che non è Levi, Calvino, Pasolini ed Eco non conta nulla, perché ormai chi determina i valori è la cultura americana. Dunque, chi se ne frega di Fenoglio...». Ironia della sorte. Fu proprio Calvino a scrivere con una punta di invidia che Una questione privata era «il romanzo che tutti avevamo sognato, quando nessuno più se l’aspettava (...). Il libro che la nostra generazione voleva fare». Lo ricorda uno dei primi studiosi di Fenoglio, Lorenzo Mondo, secondo il quale Bocca è «smemorato o mendace»: «Solo assassini, cialtroni, poveracci? Ma Bocca non si è accorto che ci sono in Fenoglio figure di altissima nobiltà morale, a cominciare dai suoi alter ego Johnny e Milton? E tanti altri personaggi di rigorosissima intransigenza civile ed etica, il tenente Biondo o il partigiano Tito, che muore perché gli scoppia una bomba tra le mani». Mondo ha una lettura ben poco benevola delle opinioni di Bocca: «È penoso che per contrastare revisionismi veri o presunti si ricorra a un bigottismo d’antan, per restituire una visione edulcorata e faziosa della lotta partigiana. Anche su Pavese, Bocca dice cose inaccettabili che fanno torto al buonsenso: è un errore giudicare un romanzo come un documento storico. La letteratura va al di là, e Fenoglio ha compiuto il miracolo di scrivere un’epopea con una dignità letteraria che travalica l’occasione, pur restando un cantore aderente alla realtà storica, cioè a un momento drammatico di lacerazione: tra intolleranza, violenza, vendetta, inconsapevolezza e però anche straordinario eroismo e grande nobiltà d’animo». Non solo Resistenza, ma «emblema di un’umanità resistente (e spesso soccombente)», ha scritto Gian Luigi Beccaria.
Beppe Fenoglio è autore (tra l’altro) de «I ventitrè giorni della città di Alba» (1952), «Una questione privata» (1963), «Il partigiano Johnny» (1968), «La paga del sabato» (1969) Nel gennaio 1944, Fenoglio si unì alle formazioni partigiane: in un primo momento, aggregandosi alle bande dei «rossi» comunisti, poi con i badogliani «azzurri». Partecipò anche all’esperienza della Repubblica partigiana di Alba (dal 10 ottobre al 2 novembre 1944).
«Corriere della sera» del 1 aprile 2007
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