31 ottobre 2009

Shakespeare e la Buona Novella

Al di là del dibattito biografico sull’adesione o meno del Bardo inglese al cattolicesimo, un saggio esplora le tracce evangeliche nel «messaggio» della sua opera
di Alessandro Zaccuri
Una presenza che, a partire dall’«Amleto», si fa via via sempre più evidente, fino alla «Tempesta»
«Lo sai chi è Shakespeare, ragazzo? Shakespeare è l’autore della Bibbia di re Giacomo». L’informazione che Leonardo DiCaprio riceve in Gangs of New York è tutt’altro che affidabile, eppure ha una sua verità, e non soltanto perché i due massimi monumenti della lingua inglese – le opere de Bardo e la ' versione autorizzata' della Sacra Scrittura – sono perfettamente coetanei, situandosi entrambi nel passaggio fra XVI e XVII secolo. No, la questione è più sottile e profonda, e riguarda quella che Harold Bloom ha definito « l’invenzione dell’umano » da parte di Shakespeare. Espressione fulminante, d’accordo, ma ancora incompleta rispetto al quadro che ora, in un saggio straordinario, Piero Boitani inserisce nella prospettiva di un ritrovato « cristianesimo naturale » .
Il libro si intitola Il Vangelo secondo Shakespeare ed è fondato sull’analisi dei cosiddetti last plays, gli ultimi testi del corpus shakespeariano, drammi in prevalenza romanzeschi la cui compattezza tematica è annunciata in Amleto e portata a compimento nella Tempesta. Due capolavori, fa notare Boitani, all’interno delle quali risuona in modo inequivocabile un amen di provenienza biblica, un « così sia » che, nel congedo del mago Prospero, insiste addirittura sulla clausola finale del Padre nostro: il perdono dei peccati, la liberazione dal male.
L’indagine sulle citazioni e allusioni scritturistiche in Shakespeare vanta una lunga traduzione erudita, di cui Boitani – docente di Letterature comparate alla Sapienza di Roma – tiene conto nella sola fase di documentazione, così come non si sofferma sulla questione, oggi molto dibattuta, della fede professata del grande drammaturgo, nei cui versi pure non mancano gli indizi di un’adesione al cattolicesimo.
A occupare la scena è invece la decifrazione della ' buona novella' che Shakespeare annuncia proprio a partire dalla tragedia del principe di Danimarca, quell’Amleto che desidera una ' consumazione' niente affatto nichilista, ma indirizzata piuttosto a emulare il consummatum est della Passione. Non diversamente Lear, il re ridotto alla condizione di Giobbe, spera di poter vivere un giorno come « spia di Dio » , un’immagine nella quale si concentra tutta la complessità della teologia shakespeariana. Non si tratta, avverte Boitani, di un sistema coerente, quanto di una costruzione poetica che tuttavia, anche quando sembra sconfinare nel sincretismo ed eludere le questioni fondamentali ( l’esistenza di un Dio personale, anzitutto, su cui Shakespeare non si pronuncia mai in termini definitivi), trova perfetta corrispondenza con il cuore dell’annuncio evangelico.
Illuminante, in particolare, risulta l’interpretazione di Boitani a proposito dell’uso dell’agnizione, e cioè del riconoscimento, nell’ultimo Shakespeare.
Si tratta di uno dei più antichi stratagemmi drammaturgici, per cui una persona creduta morta o semplicemente scomparsa torna a manifestarsi, ricomponendo il cerchio degli affetti e ristabilendo l’ordine di giustizia. Le agnizioni abbondano nei last plays, ma nessuna ha la forza perturbante del ritorno di Ermione nel Racconto di inverno. Una statua che prende vita, lasciando lo spettatore incerto tra lo stupore per l’incantesimo e la meraviglia per il miracolo. La risurrezione, il destino del corpo, il ruolo decisivo che – come già nei racconti della Pasqua – le donne assumono nella stagione estrema del teatro shakespeariano. Un Vangelo, insomma, che non soltanto ' inventa' l’umano, ma lo restituisce a se stesso, trasformandolo e salvandolo.
Piero Boitani , Il Vangelo secondo Shakespeare, Il Mulino, pp 176, € 15,00
«Avvenire» del 31 ottobre 2009

Tabù Tienanmen

Vent’anni dopo, la protesta resta una questione irrisolta di cui a Pechino si deve tacere: parla Philip J. Cunningham
di Riccardo Michelucci
Vent’anni possono essere sufficienti per dimenticare tutto. Lo spirito della grande mobilitazione studentesca per la democrazia che fu repressa nel sangue in piazza Tienanmen rischia di essere inghiottito nell’oblio e dimenticato anche dai libri di storia cinesi. Per evitarlo, e per commemorare il coraggio di coloro che vi presero parte, il ricercatore statunitense Philip J. Cunningham ha scritto Tienanmen Moon. Inside the Chinese Student Uprising in 1989, un libro importante, poiché l’autore ha vissuto quegli eventi in prima persona. «Non si tratta dell’ennesimo racconto sul massacro degli studenti, piuttosto della storia di quel formidabile movimento popolare che ha conquistato le menti e i cuori dei pechinesi, e gran parte del resto della nazione nella primavera del 1989».
Vent’anni fa Cunningham era solo un giovane straniero che studiava all’università di Pechino quando, senza volerlo, si trovò a faccia a faccia con la storia, divenendo testimone di uno dei fatti più importanti e drammatici del XX secolo. In quelle settimane marciò con gli studenti cinesi ed ebbe modo di osservare dall’interno, nei campus di Pechino, la nascita di una gigantesca protesta pacifica, che il governo cinese avrebbe poi schiacciato facendo uccidere centinaia di persone.
Oggi non esita a definire «straordinari, unici e indimenticabili» i mesi che precedettero la strage. «Il modo crudele e maldestro in cui è stata soffocata la rivolta - spiega - ha rappresentato un grave battuta d’arresto per la Cina. Ma quelle settimane ispirarono la mobilitazione di milioni di persone dietro agli striscioni di un movimento estremamente pacifico e affiatato. Che purtroppo è stato poi oscurato proprio da quanto è accaduto dopo».
Cunningham, nel suo libro lei esclude categoricamente che gli studenti siano stati manipolati dall’esterno come ha sempre affermato il governo di Pechino. Crede che la protesta sia stata quindi totalmente spontanea?
«Fu sicuramente molto spontanea, anche se non del tutto. Fin dall’inizio molte fazioni politiche hanno fatto a gara per cercare d’influenzarla. Alla fine, anche i servizi segreti occidentali che sembrava fossero stati colti impreparati come tutti noi, risultarono coinvolti, sebbene a quanto mi è dato sapere, la maggior parte di essi cercò semplicemente di aiutare gli attivisti più a rischio a scappare all’estero. I leader studenteschi erano degli individui assai difficili da inquadrare, considerevolmente più ambiziosi ed egocentrici della media dei partecipanti alla protesta. Ma in base a quanto ho visto posso affermare che la maggioranza assoluta dei manifestanti era davvero spontanea, animata da un misto d’idealismo, curiosità e desiderio di esprimere sentimenti sinceri, oltre a un pizzico d’avventura».
Dove si trovava esattamente in quei tragici giorni di giugno di vent’anni fa? «Ho frequentato la piazza tutti i giorni, per un mese intero. Ed ero lì la notte del 3 e nelle prime ore del 4 giugno, quando arrivò l’esercito con i cannoni e i carri armati».
Cosa fece nei giorni successivi al massacro? «Ho dato rifugio ad alcuni attivisti studenteschi e ho messo la mia stanza d’albergo a disposizione di una troupe televisiva della Bbc; ho aiutato a portare di nascosto delle videocassette fuori dall’albergo e poi fuori dal paese.
Poi mi sono messo in viaggio verso Hong Kong con la Bbc e ho lavorato a un documentario televisivo che fu mandato in onda alcune settimane dopo. Infine ho lavorato insieme al conduttore americano Ted Koppel a un documentario più approfondito sullo stesso argomento».
Da allora lei ha continuato a frequentare la Cina e ha vissuto a lungo in Asia. Cosa pensano adesso i cinesi di quei giorni? «Per loro Tienanmen è e resta un problema irrisolto del quale non si può parlare. Invece è una vicenda di cui dovremmo occuparci non ogni anno od ogni decennio, ma ogni quindici giorni, e farlo prima possibile.
Eppure, nonostante i tentativi di rimozione, si tratta di una vicenda che fa parte ormai della vita stessa dei pechinesi, oltre a essere un momento importante nella storia della loro città. Eventi simili di minore portata si sono verificati in molte altre città. Ma in generale, soprattutto per quanto riguarda le giovani generazioni, non c’è un’idea chiara su quanto sia realmente accaduto».
Perché ritiene che sia importante per la Cina mantenere viva la memoria del 4 giugno? «Oggi c’è la tendenza a girare intorno al problema - che per i media è ancora un tabù - e spesso si assiste a una discussione alquanto artificiosa e maldestra sull’importanza della stabilità, per spiegare i successi economici della Cina odierna, presumendo che siano stati possibili proprio grazie ad essa. Trovo che questa spiegazione sia assai poco convincente, poiché anche la verità e la riconciliazione portano stabilità, e probabilmente una stabilità più profonda e durevole di quella portata da una folle corsa verso il successo materiale a discapito di tutto il resto. La Cina dovrebbe sicuramente indirizzare meglio il lato umanitario e spirituale del suo grande sviluppo».
«Avvenire» del 31 ottobre 2009

Le cose ultime non sono stagionali

L'eterna domanda dell'uomo sulla morte
di Roberto Mussapi
Halloween si svela nel defilé
Leggo che Halloween deve e intende cambiare, da quest’anno: «Ci sono tutti i presupposti per trasformare la notte delle streghe in un evento fashion», ha fatto sapere Clara Tosi Pamphili, direttrice didattico dell’Accademia di costume e moda. Che prosegue: «Consigliamo capi grunge e un trucco più simile a modelle che a zombi, goffi e poco eleganti, magari con un ombretto rosso sotto l’occhio». Ci sono giornali che ne scrivono. E così apprendiamo come la festa delle zucche vuote intenda cambiare look, essendo impossibile riempire la zucca. Da Tim Burton a Vuitton, è una sfilata di firme.
Per contribuire alla celebrazione dei morti viventi, immagino. Halloween si svolge durante la celebrazione dei santi e dei defunti. Anzi, è stata inventata per quella festività, non avendo una reale tradizione ed essendo frutto di una trovata. Halloween smercia all’interno della meditazione cristiana sui morti (e quindi sulla Morte, sulla Resurrezione, sulla Vita Eterna) elementi che nulla hanno a che vedere con la riflessione, drammatica, del cristianesimo in materia. Ciò che è grave è l’invenzione, la trovata, che banalizza altre visioni della morte e del mondo dopo la morte, che informano religioni con grande spessore e potenza metafisica. L’animismo africano si innerva su una relazione vivi­morti di straordinario spessore dal punto di vista della ricerca dell’assoluto. Anche il mondo celtico – pur ormai recepito in Occidente soprattutto nelle sue versioni caramellose e pasticcione – affrontava seriamente la questione. Per non parlare degli Egizi, con la rinascita nel Sole, e della tragica visione del buio oltretomba dei Greci. Non esiste solo la visione cristiana, che comunque è quella (almeno) del mondo occidentale, e non merita di essere disturbata con strani festeggiamenti. È che la questione è la più drammatica dell’esistenza, e da quando esiste, l’homo religiosus ne resta attonito, e poi ne elabora una visione.
Consiglierei ai lettori di immergersi nei Sepolcri, il capolavoro di Ugo Foscolo: è straordinario, straziante e magnifico il volo con cui un uomo formalmente non credente nella vita eterna, almeno nell’accezione cristiana, si lanci verso l’alto e l’orizzonte, quasi forando la cappella Sistina e facendo parlare le epigrafi dalle tombe, per cercare durata oltre la morte, nella memoria e negli affetti, una comunione dei perduti. Un caso di slancio metafisico e poetico altissimo in una prospettiva stoica, terrena, apparentemente non trascendente, che il poeta sogna di superare, pur aderendovi, e che, nei versi, trascende. Questo è il genere di materia con cui confrontarsi, se si ritiene, quando si pensi ai Morti. L’impresa che ogni uomo affronta di fronte alla questione della sua vita stessa. Non si scherza, quindi, non si bamboleggia. Se Halloween fosse la manifestazione di un pensiero sulla morte differente da quello cristiano, meriterebbe di essere considerata con giusta attenzione. Se non parliamo di amore e morte, di che cosa parliamo? Ma non è nulla di simile, è una forse involontaria parodia del dramma dell’uomo. Ora la nuova tendenza, non sappiamo se sperata o destinata ad affermazione, ci offre la più inoppugnabile conferma: Halloween, per esistere, ha bisogno della moda, del rossetto delle modelle, del mondo dell’apparenza. Che non demonizzo, primo perché in Italia è proibito, secondo perché è anche una seria attività artigianale e industriale, e porta lustro e benessere al nostro Paese. Purché sia considerata tale, e non il tempio del sapere, la moderna Biblioteca di Alessandria. Halloween svela il suo destino: svezzarsi dagli zombi grossolani e diventare una vera sfilata. Di moda. Ma la domanda dell’uomo sulla morte non è mai stata, e quindi non è mai passata, di moda.
«Avvenire» del 31 ottobre 2009

L’outlet della vita artificiale vende per ora solo incubi

Scienza, etica e propaganda
di Assuntina Morresi
La creazione di ovociti e spermatozoi umani in laboratorio è ancora lontana, nonostante il gran parlare che se ne è fatto in questi giorni sui giornali di mezzo mondo. La ricerca in questo settore ha fatto forse qualche passo avanti, come possiamo leggere in un articolo pubblicato sulla rivista Nature, ma non sappiamo ancora se e quando si potranno effettivamente ottenere gameti artificiali umani, e ancora una volta sarebbe bene che i media pesassero toni e contenuti prima di lanciare improbabili notizie.
Questa ricerca pone o meno problemi etici a seconda della sua finalità: lo studio dei gameti nelle fasi iniziali della loro formazione potrebbe aiutare a comprendere i meccanismi necessari al loro sviluppo corretto, e magari a individuare alcune delle cause della sterilità umana. E la stessa ricerca potrebbe essere condotta non sulle staminali embrionali umane – come descritto nell’articolo su Nature – ma sulle pluripotenti indotte, cioè staminali analoghe a quelle embrionali, ottenute riprogrammando cellule della pelle, senza distruggere embrioni. Una linea di ricerca che non porrebbe alcun problema etico, insomma.
I problemi nascono invece se si vuole arrivare a produrre gameti in laboratorio.
La prima difficoltà, insormontabile, secondo chi scrive, riguarderebbe proprio la modalità di sperimentazione: anche ammesso che si riuscisse a creare gameti in vitro, l’unica dimostrazione definitiva del loro funzionamento sarebbe usarli per far nascere bambini, e verificare poi che i nati fossero sani. Un esperimento impossibile da realizzare negli esseri umani, a meno di non ammetterne la creazione a fini sperimentali: in altre parole, dovremmo pensare a persone concepite, fatte nascere e crescere per sperimentare l’efficacia della tecnica che, producendo gameti in laboratorio, ha permesso loro di esistere. Uno scenario folle ed inumano, che in questi termini sarebbe francamente inaccettabile per chiunque (anche se sarebbe onesto ammettere che nell’ambito della fecondazione assistita questo spesso è stato il modo di procedere, per "migliorare" le tecniche di procreazione in vitro: l’esperimento diretto sull’uomo).
Ma anche la possibilità di creare in laboratorio quantità di spermatozoi e ovociti da rendere disponibili a persone sterili e infertili – ipotesi comunque remota ed altamente improbabile – come prospettato in questi giorni da alcuni media, aprirebbe scenari orridi. Si creerebbe un mercato dei gameti impossibile da controllare e tantomeno da gestire, molto più ampio di quello che già esiste nei Paesi in cui è ammessa la fecondazione eterologa: il legittimo desiderio di avere dei figli si concretizzerebbe in un’enorme compravendita di cellule per la creazione di potenziali nascituri.
Si porrebbero poi quesiti surreali, come ad esempio: a chi apparterrebbero i gameti ottenuti da embrioni "soprannumerari", cioè abbandonati nelle cliniche di fecondazione in vitro? L’eventuale coppia che volesse usarli, da chi li dovrebbe comprare? Senza pensare che i bambini che eventualmente venissero al mondo, avrebbero ricevuto il loro patrimonio genetico da embrioni, cioè da persone non nate, e d’altra parte, potremmo immaginare situazioni da film di fantascienza anche con gameti ottenuti da cellule non embrionali.
Probabilmente sarà la struttura profonda della stessa natura umana a salvarci dagli incubi annunciati, così com’è stato per il fallimento degli embrioni ibridi uomo-animale: un esperimento inumano, progettato, giustificato e sbandierato come un progresso scientifico, che si è rivelato irrealizzabile. Difficilmente arriveremo all’outlet dei gameti artificiali. Ma nel frattempo, con il grande battage mediatico, qualcun altro si sarà convinto che in laboratorio tutto è possibile, mentre la scienza, agli occhi dei più e purtroppo anche nella realtà, minaccia di trasformarsi in un gioco per apprendisti stregoni.
«Avvenire» del 31 ottobre 2009

30 ottobre 2009

Febbre maiala

Ecco perché le milioni di dosi di vaccino influenzale possono restare negli hangar
di Roberto Volpi
E’ un dilemma impietoso. Ma i medici, ci sono o ci fanno? Ovvero: i medici razzolano male pur predicando bene o non razzolano bene pur predicando male? Sto parlando dei vaccini, e segnatamente del vaccino tanto reclamizzato per arginare l’ancor più reclamizzata influenza A (H1N1), l’influenza suina della quale, non appena è entrata nell’ambito della biomedicina, sono state oscurate le cause più immediate e profonde (cosicché essa sembra una congiura di perfidi virus sbucati dalle viscere dell’inferno dove i buoni ricercatori delle multinazionali del farmaco sono impegnati a ricacciarli). I medici, dunque, non si stanno vaccinando contro l’influenza suina. Il chirurgo morto a Napoli magari l’avrebbe fatto, ma il vaccino non era disponibile (e il pover’uomo ne aveva proprio di tutte, tant’è che le sue condizioni sono precipitate in un amen).
E comunque, mai i medici si sono vaccinati contro le influenze stagionali e pressoché contro alcunché. Quando lo hanno fanno sono arrivati a percentuali del 20 per cento buone a fare il solletico a virus che fossero devastanti. C’è chi ha l’abitudine di vaccinarsi sempre, i medici hanno piuttosto l’abitudine contraria. Nessuna autorità sanitaria ha mai sollevato un sopracciglio su un tale comportamento. Che vuoi che sia mai un’influenza stagionale. E avevano ragione, i medici, a non vaccinarsi. Le influenze stagionali sono sempre arrivate e poi sparite tra disastri annunciati e più modeste conseguenze concrete, senza uno straccio di prova che la popolazione vaccinata abbia sortito risultati migliori di quella non vaccinata.
Anche stavolta i medici hanno pensato di continuare come sempre. Ma potevano farla franca di fronte alla più pubblicizzata delle “pandemie”? Quella per la quale decine di milioni in Italia e un paio di miliardi di dosi di vaccino nel mondo sono state acquistate a scatola chiusa? Quella che tiene a casa i bambini dalle scuole non in quanto malati ma in virtù della paura d’ammalare e di essere contagiati? Quella che si dice abbia fatto in America mille vittime, mentre una comune influenza ne fa venti volte tante? No, che non potevano. Ed ecco le autorità sanitarie richiamarsi al loro buon cuore: compite un gesto d’amore verso gli altri vaccinandovi. Ma hanno anche rivolto richiami all’ordine e poco larvate minacce di essere, se pubblici, esonerati dal servizio. E’ scattata la controffensiva. A seguito della quale è probabile che i medici che si vaccineranno saranno uno su tre, magari di più.
Perché credono nella virulenza dell’influenza e nell’efficacia del vaccino? Nient’affatto. Ascoltati a tu per tu, anzi, si lasciano andare ad apprezzamenti che rasentano la scurrilità. Perché nella maggioranza dei medici alberga un sano buon senso fondato sull’esperienza umana e professionale, sulla memoria del passato e l’osservazione del presente. “Ho cominciato a constatare che le malattie pediatriche più comuni, le infezioni ricorrenti delle vie aeree superiori, o le manifestazioni allergiche, erano ridotte nei bambini non vaccinati rispetto a quelli sottoposti alle vaccinazioni”, afferma Eugenio Serravalle, stimatissimo pediatra pisano dall’esperienza trentennale, nel suo ultimo libro “Bambini super vaccinati”. E continua: “Ho iniziato a vedere questa pratica con occhi diversi (…). Ho cominciato a pormi altre domande”.
Una domanda che si è posto riguarda il peso dell’industria del farmaco sulla ricerca e sulle società scientifiche, sul modo di interpretare i fenomeni sanitari e sulle politiche dei governi. Tra i due terzi e i tre quarti degli studi e delle sperimentazioni sui vaccini pubblicati ogni anno sono finanziati dall’industria farmaceutica, hai voglia di cercare su queste riviste articoli meno favorevoli ai vaccini. Così i medici sono i primi scettici verso i vaccini, specialmente verso quelli antinfluenzali, la cui efficacia non è mai stata valutata sul campo. E così, ancora, si trovano magari a consigliare questi vaccini, ma in generale guardandosi dall’assumerli. I loro rappresentanti rilasciano dichiarazioni ultracombattive, ma se l’esempio dovesse venire da loro le decine di milioni di dosi di vaccino anti A (H1N1) resterebbero in gran parte a svernare negli hangar. E questo con tranquilla coscienza, perché lo sanno che vaccino-non vaccino non fa gran differenza.
«Il Foglio» del 30 ottobre 2009

Super Google spaventa il mondo

Il gigante di Silicon Valley è in grado di scrutare consumi e abitudini di milioni di persone
di Massimo Gaggi
Controllo dati e telefonini: i nuovi timori di governi e imprese L' azienda «Non siamo monopolisti e abbiamo sempre rispettato il motto: non fare mai del male»
Fog, «fear of Google». Il timore che l'azienda di Mountain View possa diventare un «monopolista della conoscenza» difficile da scalfire e con un'incredibile forza di penetrazione nelle vite della gente è ormai talmente diffuso che un paio d'anni fa, per evocare le paure suscitate da Google, è stato addirittura coniato un acronimo. Preoccupazioni che avevano cominciato a prendere forma fin dal 2004, quando l'azienda fondata da Larry Page e Sergey Brin cominciò ad assumere la forma di una corazzata dell'«information technology». Che fin dall'inizio non nascose l'ambizione - allora considerata un po' «naive» - di «organizzare tutta la conoscenza del mondo». Quelle paure, oggi meno citate di qualche anno fa dalla stampa, sono sempre più diffuse e radicate a livello di governi e nelle grandi imprese: la crescita tumultuosa di Google e lo sviluppo di tecnologie potentissime e ubique, capaci di radiografare gli angoli più remoti della realtà, hanno - infatti - nel frattempo moltiplicato le aree «sensibili». Non si tratta più solo del controllo dei due terzi del mercato mondiale della ricerca di dati e informazioni o del sistema di posta G-mail che scruta elettronicamente ogni messaggio e invia avvisi pubblicitari personalizzati all'utente «spiato». Le incognite del futuro riguardano anche nuove aree come le comunicazioni telefoniche nelle quali Google sta entrando con la piattaforma Android e i sistemi Google Voice e Google Wave. Certo, oggi i business prevalenti sono ancora quelli legati agli 800 milioni di computer quotidianamente attivati in tutto il mondo. Qui, collegando i suoi vari sistemi - dalla «biblioteca universale» a Google News, dagli archivi sanitari «on line», ai video di YouTube - il gigante della Silicon Valley è teoricamente in grado di costruire una sterminata mappa di profili personali sempre più articolati e penetranti: non più soltanto cosa consumi (gli acquisti online, gli annunci pubblicitari realmente consultati) e dove vai (prenotazioni di voli, treni, alberghi, concerti o teatri), ma anche dove sei in questo momento (dal sistema di localizzazione «Latitude» al nuovo servizio stradale basato su tecnologia satellitare Google Maps Navigation lanciato proprio ieri negli Usa). E poi, ancora, come stai (dati sulla salute), qual è il tuo presumibile orientamento politico e cosa leggi (consultazione di siti d'informazione online, accessi alla «biblioteca universale», acquisto di libri digitali). La società californiana si difende negando di comportarsi da monopolista e sostenendo di aver sempre rispettato il motto dei suoi fondatori: «Don't be evil», non fare mai del male. Ma davanti all'infinita potenza tecnologica di Google, alla concentrazione delle sue strutture in un solo Paese (gli Stati Uniti), la capacità di quest' azienda di far evaporare i «business model» di interi settori produttivi (dai giornali, sempre più in crisi, alle tv, le cui fondamenta vengono erose dalla crescita esponenziale di YouTube) e di trasformare con un «click» la «privacy» dei cittadini in un «optional», il problema non può essere ridotto alla buona fede dei fondatori e di Eric Schmidt. Anche se si ha fiducia nel vertice attuale di Google, nessuno può garantire per il futuro. E, come abbiamo visto nel caso delle banche «too big to fail» (troppo grosse per essere lasciate fallire), certi problemi è meglio affrontarli per tempo. Ma, probabilmente, non è nemmeno questo il punto. La questione vera è che l'accelerazione dello sviluppo tecnologico di Google sta creando scenari economici, sociali e anche giuridici mai immaginati prima: problemi che pochi percepiscono e nessuno sembra in grado di affrontare. Basta pensare a quello che sta per accadere nel mondo dei telefoni dove sono già attivi 3 miliardi di cellulari e, soprattutto, 600 milioni di «smart-phone», capaci di collegarsi a Internet. Per questi apparecchi Google ha sviluppato la piattaforma Android e, in primavera, ha lanciato in via sperimentale il servizio telefonico via web Google Voice e Google Wave: un sistema che registra e archivia tutte le comunicazioni di un utente che vengono trasformate in byte e che viaggiano (gratis) su Internet, anziché sulle normali linee telefoniche. Chiamate che possono sempre essere riascoltate o aggregate con altre comunicazioni per nomi o per argomenti. Quando questo sistema sarà pienamente operativo, l'utente americano (in Europa i problemi regolamentari sono più complessi) che dà carta bianca a Google pur di risparmiare sulla bolletta, non saprà più nemmeno lui quali delle sue telefonate sono passate per i normali canali di tlc (che registrano la chiamata ma non il contenuto della conversazione) e quali, invece, sono state dirottate automaticamente su Internet perché il «software» di Google ha individuato in quel momento una connessione-dati affidabile. Proviamo solo a immaginare cosa, un domani, tutto ciò potrà significare per le indagini disposte dall'autorità giudiziaria: delle chiamate fatte via Internet la società telefonica legata contrattualmente a quel telefonino non saprà nulla. Quella telefonata sarà stata integralmente registrata, ma si troverà in un «server» lontano, probabilmente negli Usa. Casi come questo si moltiplicheranno man mano che la convenienza economica spingerà individui e imprese a trasferire dati e «file» dai computer domestici e aziendali alle cosiddette «nuvole»: giganteschi «depositi di megabyte» offerti da operatori come Google. Il «cloud computing» è il nostro futuro: se ne è convinto anche il governo Usa che si sta già preparando. Hanno cominciato ad accettare questa realtà, sia pure con scarso entusiasmo, anche aziende come Microsoft e Yahoo! Ma le domande principali rimangono senza risposta. Chi sarà il re delle nuvole? E chi lo controllerà?

Nel mondo dei telefoni sono già attivi 3 miliardi di cellulari e, soprattutto, 600 milioni di «smart-phone». Per questi apparecchi Google ha sviluppato la piattaforma Androi L' ultima novità In primavera, ha lanciato in via sperimentale il servizio telefonico via «web» Google Voice e Google Wave che registra le comunicazioni di un utente che vengono trasformate in byte e che viaggiano (gratis) su Internet, anziché sulle normali linee telefoniche.
«Corriere della Sera » del 29 ottobre 2009

La famiglia dimenticata

Grande assente nel dibattito politico
di Isabella Bossi Fedrigotti
Negli
Il dibattito politico, al di là di qualche flebi­le voce non raramen­te del tutto formale e superficiale, ignora la fa­miglia. Ma la ignora an­che dal punto di vista eco­nomico, nel senso che so­no spariti dall’agenda i provvedimenti tesi a so­stenerla. E questo quan­do la famiglia sembra og­gi più indispensabile che mai, tant’è vero che, se l’Italia riesce alla meno peggio a resistere alla cri­si, è merito, in buona par­te, proprio di questa «im­presa » tradizionalmente pronta a soccorrere i suoi membri in difficoltà.
Per non parlare della te­levisione, voce che urla, spesso sovrasta le altre e che la evita se non addirit­tura la irride, per esem­pio intitolando «La fami­glia » una trasmissione condotta da quattro per­sone fintamente giovani, che tra canzoni e musi­che si scambiano lazzi pe­santi e volgarità varie sui fatti del giorno. Oppure mettendo in scena la fal­sa famiglia allargata del «Grande fratello», il cui vero cuore casalingo è co­stituito da una doccia tra­sparente dove vedremo al­ternarsi — soli o in com­pagnia — i suoi vari e sempre più volutamente strampalati componenti.
Ma siamo sicuri che tut­to ciò corrisponda davve­ro alla realtà del Paese? Siamo sicuri che la mag­gioranza degli italiani — perché speriamo sia una maggioranza — ancora non del tutto prona al ma­gistero televisivo, non del tutto sconfitta nella gran­de guerra che ci vorreb­be, fin da piccoli, consu­matori fervidi prima di es­seri umani, condivida il suggerimento, sublimina­le certo, però diffuso e forte, secondo il quale la famiglia è cosa buona giu­sto per i nonni? E che, a prescindere dalle eventua­li convinzioni religiose, sia indifferente al destino dell’istituzione familiare in un tempo come questo di evidente disagio giova­nile oltre che di minaccio­sa recessione?
L’appello alla famiglia di un ormai ex politico ca­duto forse lungo la via dell’improvviso ed ecces­sivo potere è suonata — è vero — un po’ come un’in­vocazione lanciata da un moribondo alla Croce ros­sa. Tuttavia la risposta ab­bastanza imprevedibile della moglie ha in un cer­to senso confermato che, alla resa dei conti, anche per le cosiddette élite e non solo per gli strati più semplici della popolazio­ne, la famiglia non è affat­to istituzione da rottama­re bensì rete preziosa, a volte davvero unica e ulti­ma. E noi che avevamo spesso ironizzato sulle mogli di politici inglesi e americani, in piedi, con un sorriso amaro, però mano nella mano accan­to al fedifrago reo confes­so, dobbiamo riconosce­re che quella solidarietà forse non era legata sol­tanto alla paura di perde­re uno status.
Resta da chiedersi per­ché la famiglia tenda re­golarmente a passare per ultima nella vita pubblica italiana, dimenticata se non svillaneggiata dai mezzi di comunicazione. La risposta ce la può dare forse il diritto romano se­condo il quale il matrimo­nio è per prima cosa un contratto che, come tutti i contratti, costringe i con­traenti a delle responsabi­lità. Ma parlare di respon­sabilità nel Paese dell’eter­na giovinezza oggi pare a volte quasi un affronto. Per parte loro, politica e media si affrettano a con­validare questa tendenza, a metterci il timbro e far­la loro. Se non a promuo­verla.
«Corriere della sera» del 29 ottobre 2009

Popper: sull’etica la scienza si fermi

Il grande filosofo della «Società aperta» sosteneva la necessità di un non sconfinamento di campi fra la scienza e la religione, dopo i conflitti dell’800
di Dario Antiseri
E in campo morale indicava i limiti della ricerca a favore del «regno del sacro»
Le riflessioni contenute nel vo­lume La società aperta, riguar­danti il rapporto tra scienza e fede, sono un’eco della più ampia trattazione del problema sviluppa­to da Karl Popper nella conferenza su Scienza e religione. «Non molto tempo fa - leggiamo all’inizio del suo discorso - esisteva una notevole ten­sione fra scienza e religione. Questa tensione si accentuò durante il XIX secolo, in particolare a partire dalla polemica su Darwin e la teoria del­l’evoluzione ». Ebbene, la tesi prin­cipale fatta propria da Popper è che «non ci può essere alcun disaccordo fra una scienza che non tenti di ol­trepassare i suoi confini e una reli­gione che non tenti di trattare argo­menti che in realtà appartengono al campo della scienza». Il contrasto del XIX secolo fra scienza e religio­ne - soggiunge Popper - trova la sua scaturigine in uno sconfinamento da entrambi i lati. «Entrambe le par­ti sono colpevoli, gli scienziati così come i difensori della fede: gli scien­ziati perché non si resero conto che il loro campo è interamente confi­nato al mondo dell’esperienza e per­ché lo straordinario sviluppo scien­tifico di cui erano testimoni li spin­se a credere che non ci fosse niente nel nostro mondo che non sarebbe rientrato un giorno nel campo del­la scienza. I difensori della fede, dal­l’altro lato, sono colpevoli perché non si resero pienamente conto che la fede religiosa è fondamental­mente differente da quella che soli­tamente chiamiamo conoscenza scientifica e che non è compito del­la religione fare affermazioni su pro­blemi che rientrano nel campo del­la scienza e che possono essere stu­diati con il metodo scientifico».
Né sostenibile, secondo Popper, è la posizione di coloro che affermano che la scienza o, meglio, gli sviluppi della scienza, supporterebbero la fe­de religiosa. Popper, al riguardo, as­sume un punto di vista completa­mente differente: «Ammettiamo - e­gli dice - che la scienza sia conside­rata come un qualcosa che suppor­ti la religione; allora, se in una de­terminata fase del suo sviluppo ri­sulta che essa è d’accordo con alcu­ne dottrine religiose che noi ab­bracciamo per questa ragione, do­vremmo anche accettare la confu­tazione di queste dottrine da parte della scienza, se in una certa altra fa­se del suo sviluppo la scienza do­vesse giungere ad una concezione differente». E, in effetti, la scienza «non si sviluppa tramite l’accumu­lazione di conoscenze»; essa, piut­tosto, «si sviluppa tramite rivoluzio­ni ». Legare la fede religiosa ad una teoria scientifica equivale a porla a livello delle ipotesi scientifiche. «Mi sembra però perfettamente chiaro ­insiste Popper - che questo non sia il significato della dottrina religiosa dell’esistenza di Dio. Una fede reli­giosa non si basa su ipotesi. Essa si situa a un livello completamente dif­ferente ». E qui sta «la ragione per cui scienza e fede non possono essere in conflitto reciproco, né supportarsi reciprocamente». Il livello in cui o­perano le fedi è soprattutto quello etico. E «il regno delle nostre azioni pratiche, dei nostri obiettivi pratici, e in particolare delle nostre decisio­ni morali, il modo in cui ci compor­tiamo nei confronti degli altri uomi­ni e in cui tentiamo di condividere le nostre vite, tutte queste cose co- stituiscono un regno che in un cer­to senso non rientra nel campo del­la scienza». In ambito etico, laddo­ve si deve scegliere quale compor­tamento assumere, «dobbiamo a­derire a quell’insegnamento fonda­mentale che è anche quello del cri­stianesimo, ossia che la nostra co­scienza è l’ultima corte d’appello. In tutte queste questioni, la scienza non può aiutarci. La scienza nel suo campo di ricerca specifico non può dirci che cosa dovremmo fare. Non interferisce nel campo morale e re­ligioso ». E c’è un ulteriore problema affron­tato da Popper: il problema del con­flitto tra religione e irreligiosità; un problema considerato di grande ri­levanza sia dai credenti in una o in un’altra delle religioni riconosciute, sia da quanti si sono considerati o si dichiarano atei o liberi pensatori o di non avere nessuna religione. «Penso anche qui - sottolinea Pop­per - che entrambe le parti abbiano torto. Lo credo più in particolare nel caso di quegli atei che hanno soste­nuto con così tanta enfasi di non cre­dere in nessuna religione specifica. Sostengo che queste persone erano indubbiamente religiose proprio nello stesso senso in cui diciamo che sono religiosi coloro i quali credono nelle tante differenti fedi. E sosten­go che quanto più entusiastica­mente dichiaravano la loro irreli­giosità, tanto più chiaramente di­mostravano, in realtà, di appartene­re a una religione. La mia tesi è che, sebbene ci possano essere vari gra­di di fede, sebbene la fede possa es­sere molto forte in alcuni e piuttosto debole in altri, non esiste probabil­mente alcun uomo che ne sia total­mente privo. Di conseguenza, anzi­ché contrapporre religione e irreli­giosità, possiamo contrapporre sol­tanto i differenti generi e gradi di fe­de ». E tra le fedi «completamente disu­mane » Popper ha in mente «i vari ti­pi di totalitarismo e di razzismo»: «Questi sono movimenti che con u­na fervente fede tentano di distrug­gere la maggiore conquista del cri­stianesimo: la credenza che siamo tutti fratelli, che tutte le differenze fra noi non sono alla fine molto im­portanti; la credenza, in breve, nel­l’unità dell’umanità». Di fronte alle diverse fedi e ai differenti principi e­tici, non possiamo rivolgerci alla scienza per decidere a chi credere o che cosa credere e che cosa fare. Di fronte al pluralismo delle fedi e al politeismo dei valori siamo con­dannati ad essere liberi: «Dobbiamo aderire a quell’insegnamento fon­damentale che è anche quello del cristianesimo, ossia che la nostra co­scienza è l’ultima corte d’appello». Ed ecco come lo stesso Popper rias­sume il nucleo centrale della sua conferenza: «I regni della scienza e della religione non interferiscono reciprocamente. Ogni conflitto fra scienza e religione è dovuto a uno sconfinamento, da una parte o dal­l’altra. Ma i regni della religione e dei problemi morali in larghissima mi­sura coincidono. Ciò non significa, tuttavia, che l’essere religioso renda morale un uomo. Esistono anche re­ligioni del male e solo la nostra de­cisione, basata sulla nostra coscien­za, può aiutarci a distinguere che co­sa è giusto e che cosa è sbagliato».

Il volume di Karl Popper «Dopo la società aperta» viene pubblicato in questi giorni da Armando (pagine 556, euro 39) e ci rivela lo sviluppo filosofico e politico di Popper durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale, dai suoi primi pensieri socialisti all’umanitarismo radicale della «Società Aperta». I saggi riportati, molti dei quali tradotti in italiano per la prima volta, dimostrano con chiarezza il pensiero di Popper sulla religione, sulla storia, su Platone, Aristotele e sui vari e complessi aspetti della società contemporanea. Dalla prefazione di Dario Antiseri pubblichiamo in questa pagina per gentile concessione dell’editore, un brano del capitolo «Riflessioni sul rapporto tra scienza e fede religiosa».
«Avvenire» del 30 ottobre 2009

La civiltà del doping

Parla lo scrittore Ferdinando Camon, che in un volume racconta i suoi incontri con gli studenti nelle scuole contro la droga
di Lorenzo Fazzini
Ferdinando Camon è uno scrittore molto noto, i suoi libri sono tradotti in 22 lingue; nel 1978 ha vinto il Premio Strega con Un altare per la madre, cui sono seguiti numerosi romanzi che hanno riscontrato il successo di critica e pubblico. Ma se del suo lavoro intellettuale - scrive commenti anche su questo giornale, così come per Le Monde - molto si sa, Camon ora svela in Figli perduti. La droga discussa con i ragazzi (Garzanti, pagine 96, euro 12) il suo quasi trentennale impegno contro la piaga della tossicodipendenza.
Dai primi anni Ottanta gira le scuole, le realtà giovanili, perfino le sale da ballo, per capire, allertare, dialogare sul rischio di cadere nella trappola di quella che lui stesso, in questo appassionate volumetto, chiama «la civiltà del doping».
Professor Camon, lei incontra gli studenti nelle scuole per parlare di droga. Che impressione ne ha avuto?
«Negli incontri fatti - a breve sarò a Trento e a Treviso - non mi sono accorto di avere di fronte a me dei drogati, ma ragazzi attenti e svegli: sono stati bei colloqui. Ho visto i giovani drogati nelle discoteche i sabati sera oppure dove abito, la zona studentesca di Padova: è un 'inferno' della droga, dove ci sono drogati e spacciatori che dormono nei pianerottoli dei condomini, si infilano nei garage per mangiare e dormire. Tra gli studenti dell’università vi è un’alta quantità di drogati».
Da dove le deriva questo interesse per affrontare il dramma della tossicodipendenza?
«All’inizio degli anni Ottanta lavoravo al provveditorato degli studi di Padova con l’incarico dell’aggiornamento dei docenti, ai quali tenevo conferenze e corsi. Quando fu fondato il primo Cad (Centro antidroga) in Veneto, mi venne chiesto di rappresentare la scuola all’interno dell’equipe dove c’erano una psicologa, uno psichiatra e una persona che si occupava dell’aspetto farmacologico. Fu un lavoro utile. Essere scrittore ha a che fare con questo lavoro perché, per parlare di droga ai giovani, bisogna saper usare le parole. Con loro affronto quello che è stato scritto nei libri o raccontato nei film sulla droga. Di fronte al provveditorato dove lavoravo un tempo c’era una scritta: 'Si droga, vede'. A quel tempo la droga era vista come segno di protesta contro la società. Io, invece, voglio far capire ai ragazzi qualcosa di diverso: 'Chi si droga, muore'. Qualche tempo fa a Bassano, una delle zone con il picco più alto di utilizzo di ecstasy, i carabinieri hanno fatto una retata sequestrando oltre 2 mila pasticche di droga. L’ecstasy causa un lampo nel cervello e io rabbrividisco al pensiero che migliaia di giovani il sabato sera possano vivere qualcosa del genere».
Parlare di droga oggi non è più tanto di moda…
«Oggi la droga viene più praticata, se ne parla con minor frequenza, viene ideologizzata di meno rispetto al passato».
La Chiesa in Italia sta affrontando con grande interesse e partecipazione la 'sfida educativa' verso le nuove generazioni.
«I ragazzi non si drogano in quanto figli, ma in quanto ragazzi. Adottano il loro comportamento nei gruppi, non in famiglia, lo mutuano dall’amico o dall’amica a scuola, il sabato sera, in discoteca.
La formazione dei ragazzi oggi avviene in senso orizzontale, cioè tramite le compagnie, e non verticalmente, dalla famiglia. La correzione dei loro comportamenti deve avvenire lì mentre invece quando un giovane si droga la scuola, la società, la città restano indifferenti. Dove abito (Padova, ndr) ci sono tantissimi drogati, ma la città non se ne interessa, non sono state aperte comunità di recupero. I ragazzi vengono messi nelle mani dei Sert e degli psichiatri».
La cultura - il mondo degli intellettuali, dei mass media, … - ha delle responsabilità?
«La cultura non sta facendo la sua parte. Personalmente mi sento isolato. Io ho conosciuto dei drogati e le loro famiglie, ho partecipato ai funerali di persone drogate. Nella mia vita mi sono occupato di questo problema. Ma i giornali non se ne occupano, nemmeno la tv e l’informazione in generale. Forse solo il cinema (nel suo libro Camon affronta opere come I ragazzi dello zoo di Berlino, Pianoforte e Trainspotting, ndr) presenta questa problematica con autenticità e un’attenzione acuta. Il mondo della cultura ha la responsabilità di non far fronte a questo problema».
Al di là della messa in guardia dei pericoli della droga, qual è la miglior prevenzione per un giovane?
«Non c’è dubbio che un ragazzo con una fede solida non cade nella droga. La fede e la droga si escludono a vicenda. La fede è riempire di senso il mondo, la droga è svuotarlo di significato. Anche l’amore è un altro elemento decisivo: è difficile che pensi alla droga un giovane innamorato. Anche i ragazzi impegnati a scuola, quelli che hanno un traguardo da raggiungere, non rischiano di cadere. Invece sono a rischio quelli dei livelli medio-bassi. Lì la droga interviene come un riempitivo: i giovani ignorano il pericolo che la droga rappresenta. Poi, succede che è troppo tardi. Il rimedio è avvertirli, dire che il drogato è un uomo prostrato, fisicamente e psichicamente degradato. La scuola ha il compito di far provare agli studenti paura e schifo della droga».
«Ho parlato con centinaia di ragazzi delle superiori per renderli coscienti dei pericoli. Ma il mondo intellettuale in Italia tace e ha una responsabilità precisa nell’ignorare o sottovalutare il diffondersi della piaga. Nella mia città, Padova, interi condomini sono in mano agli spacciatori».
«Avvenire» del 30 ottobre 2009

29 ottobre 2009

Chagall: bagliori di poesia

Il rapporto del pittore russo con il mare Mediterraneo. L'esposizione Centocinquanta opere tra dipinti, sculture e lito
di Wanda Lattes
I colori della Provenza, il mito della Grecia e la spiritualità della TerrasantaQuei paesaggi marini inondati di sole mutarono il profilo interiore di un artista cresciuto nel gelo
Che cosa direbbe Marc Chagall se, ancora vivo all'età di oltre centodieci anni, potesse venire a Pisa per visitare la mostra che, nel Palazzo Blu, presenta 150 sue opere, tra dipinti, sculture, ceramiche e litografie? Quale sarebbe la reazione di fronte all'impresa che ha spinto gli ordinatori, Claudia Beltramo Ceppi e Meret Meyer, a trovare un titolo tanto ambizioso come Chagall e il Mediterraneo? Indagherebbe, con quella sua intelligente, colta curiosità, sulla storia che permette a Pisa di considerarsi, anche ora che è preziosa terraferma, una capitale di quel mare cui allude il titolo? E si commuoverebbe ancora una volta al ricordo del primo lontanissimo incontro con il mare, lui ventiseienne figlio del gelo di una steppa russa, lui che nella cultura trovava la forza di attraversare l'Europa per conoscere «l'azzurro ineffabile» cantato da Puskin? L' attenzione richiesta dalla mostra, allestita sul lungarno pisano, non può essere affrontata con un opportuno animo critico se non si lascia bruciare, almeno per un poco, il fuoco delle domande nate di fronte al titolo stesso. Quando nel 1972 si inaugurò a Nizza la mostra dei suoi 17 dipinti ispirati dalla Bibbia, Chagall disse, sicuro e netto ad André Malraux: «Il testo sacro è la più grande fonte di poesia di tutti tempi». E infatti a quella fonte continuò sempre a ritornare, in tante opere fondamentali sparse per l'Occidente. Del mare, però, l' artista non ha mai parlato esplicitamente. Come potrebbe commentare, dunque, questa rassegna pisana che suggerisce una lunga passione per un mondo che non è il suo? Un mondo che non sembra naturale per il colto ebreo russo divenuto parigino, tanto lontano dal suo cosmopolitismo sensuale quanto da quella isba dell' infanzia, immersa nel gelo invernale, a Vitebsk in Bielorussia, dove la luce era poca e il pane nero aiutava appena ad apprezzare le aringhe affumicate (la stessa isba rievocata tante e tante volte, con amore ossessivo)? Che cosa c' entra, insomma, Chagall, con il nostro mare? La mostra Chagall e il Mediterraneo non può quindi non provocare, sulle prime, un certo smarrimento. Presto superato grazie alle spiegazioni dei curatori che, attraverso un ordinamento rigoroso delle opere e un catalogo (edito da Giunti) ricco di informazioni e commenti, conducono per mano il visitatore nel Mediterraneo, in Grecia, in Israele sulle orme dell' artista. A capire l' amore di Chagall per la Grecia e per il suo cielo, il suo mare, la sua luce - un amore dapprima legato soltanto al valore dell' arte antica - ci aiuta il racconto dell' amicizia con l'autore-editore greco Triade, e il soggiorno ad Atene, Delfi, Poros. I quadri, e poi le litografie, ci trasmettono infatti il sogno di Icaro, il mito di Dafni e Cloe, ma anche gli innamorati di Vitebsk, uniti nella fantasia della luce. Senza dimenticare l' idillio di Chagall con la Terra Santa, raggiunta - guardacaso - con un viaggio in nave sul Mediterraneo, che lo porta a riconoscere e interpretare Il Muro del Pianto, o il Sacrificio di Isacco, ma anche a ricordare la Sinagoga di Vilno bruciata dai nazisti. Il viaggio sulle onde e nella luce che la mostra cerca di teorizzare approderà al Mediterraneo della sua casa a Nizza, e alla Costa azzurra, passando tra meravigliosi mazzi di fiori, sogni dell'unica donna veramente amata, la sua Bella, e rievocazioni di quello che ora chiameremmo l'imprinting, l'Adamo nudo, o il Mosè che abbraccia le Tavole. Linee libere, colori decisi, quasi sempre «schiaffati», senza incertezze, su quello sfondo blu che il pennello di Moshe Segal, in arte Marc Chagall, offre inesauribile, intarsiandolo spesso con figurine oniriche. Il mare, il Mediterraneo, si muove per decenni davanti a quegli occhi chiari, all'interno di quella testa piccola e aggraziata che la vecchiaia non sciuperà. È dentro al sogno, incessante, di un una stirpe esule, deportata, ma non schiava dell' oblio. Anche se, forse, il mare lo vediamo raffigurato soltanto in uno dei quadri in mostra, in una scena tranquilla, sulla costa italiana, a Petra Cava.

La guida «Chagall e il Mediterraneo», fino al 17 gennaio a Blu Palazzo d' Arte e Cultura, a Pisa (Lungarno Gambacorti 9). In mostra 150 opere, tra dipinti, sculture, ceramiche, litografie. Orari: da martedì a domenica 10-19. Biglietti: intero 8 euro. Info: 199285141, www.chagallpisa.it.
Il catalogo (Giunti Arte mostre musei, 240 pag) costa 30 euro
La vita di Chagall
Primo di nove figli di una famiglia di religione ebraica, Di origine ebraica, Marc Chagall nasce a Vitebsk (Bielorussia) nel 1887. A Parigi dal 1910, si afferma come artista e conosce il Fauvismo e il Cubismo. Quindi il primo matrimonio e una figlia. Nel '17 partecipa alla rivoluzione russa. Di nuovo a Parigi nel '23, con il nazismo è costretto a fuggire. Nel '41 è negli Usa. La morte della moglie per malattia lo getta nella depressione. Due anni dopo il ritorno in Europa, l' amore per Virginia Haggard, un nuovo figlio, gli fa riscoprire i colori brillanti. Si sposa due volte. Muore a Saint-Paul de Vence nel 1985 I fiori in Francia Forse perché sono stato povero, da me non c'erano fiori. La prima a portarmene è stata Bella. Poi, in Francia... Si può riflettere e pensare a lungo sul senso dei fiori, ma per me sono la vita stessa nella sua smagliante felicità. La luminosità greca La Grecia è ancora l'Europa e però è già l'Oriente. Laggiù tutto è luce. Una luce unica, di un nitore e di una dolcezza indicibile. Ero felice di calpestare quel suolo famoso, di contemplare i resti della sua grandezza.
«Corriere della Sera» del 28 ottobre 2009

L'imbianchino di Dio e la sua Bibbia

La storica animatrice della Bezalel Academy di Gerusalemme e i ricordi di un' amicizia
di Francesco Battistini
Ziva Amishai: «Dipinse l' ebraismo più familiare sognando la pace»
«Enigmatico. Poetico. Impalpabile». Francamente, dice Ziva Amishai di Marc Chagall, era uno che spiazzava. L'ultima volta che venne in Israele, 1977, Ziva se la ricorda bene: grandi onori per i novant'anni, retrospettiva, cittadinanza gerosolimitana e laurea honoris causa assieme a Harold Wilson, l'ex premier inglese... «Chagall aveva già fatto decine di viaggi, qui. Ma era un entusiasta di tutto. Ogni cosa lo stupiva. Un giorno, andammo a vedere una fattoria. Si fermò davanti a una mucca, come fosse la cosa più straordinaria. Esclamò con ironica meraviglia: "Guarda, una mucca ebrea!"». Una cosa che avrebbe potuto dire anche nel '31, la sua prima volta in Palestina. Perché Chagall ha sempre dipinto le mucche («le amo molto»). «E perché era perennemente alla ricerca delle sue radici ebraiche: vedeva nel Medio Oriente, in ogni angolo, un luogo in cui i suoi avi avevano vissuto e sofferto». Il pittore sionista. L'imbianchino di Dio. Ci fu uno Chagall innamorato d'Israele, e delle origini bibliche, che certa critica ha un po' evitato e per ragioni non solo artistiche. C'è un'ebraicità insistita che turbò, e spinse a polemizzare, il cattolico Giovanni Testori. È tutto ciò che invece affascina Ziva Amishai, 70 anni, storica animatrice della Bezalel Academy di Gerusalemme, studiosa e testimone delle immersioni che l'artista si concedeva nella terra degli avi. «Chagall aveva molti amici. I suoi appuntamenti erano Teddy Kollek, il sindaco di Gerusalemme che aveva trasferito di personale sue opere da Parigi in città, portandole dentro cinque valigie. O Abraham Sutzkever, il poeta, bielorusso come lui. O Reuven Rubin, il pittore più vicino alla sua arte. Li vedeva, ma non divideva la loro casa: preferiva stare in hotel. Scendeva spesso all'American Colony. Solo la prima volta accettò d'essere ospite di Meir Dizengoff, il sindaco di Tel Aviv che amava attirare artisti in Palestina, perché trovassero ispirazione». Chagall non faticò a trovarla, l'ispirazione. «Sono un piccolo ebreo di Vitebsk - si chiedeva -, che vado a fare in Palestina?». Girò tra Haifa e il lago di Tiberiade, s'appassionò ai kibbutz e alla cabala. «Dipinse il giudaismo che gli era familiare - spiega la professoressa Amishai - e che prese come base per esplorare la Terrasanta. Riprodusse luoghi che avevano per lui un significato personale, come la Porta dell'Immondizia, la piccola e modesta sinagoga di Hagoral». Lasciando capolavori come le vetrate bibliche dell' ospedale Hadassah, «dodici finestre attraverso le quali passa una cosa mistica». O le decorazioni della Knesset, il Parlamento israeliano: «Un'idea meravigliosa. Alla Knesset, c'è tutto Chagall condensato: gli arazzi, ispirati alle sue illustrazioni della Bibbia, si rifanno alla storia del popolo ebreo; il mosaico murale del Parlamento è una rappresentazione del Muro del Pianto; i mosaici del pavimento riprendono le opere del primo viaggio in Palestina e gl'interni delle sinagoghe di Safed e di Gerusalemme. La Chagall Room è l'unica sala del Parlamento dedicata a un artista. Perché qui ha fuso il biblico e il moderno, Re Davide e il popolo d' Israele, la tradizione ebraica e la cittadinanza israeliana. Ma non ha usato gli occhi d' un pioniere: l'idea è di trasmettere un senso di pace». Una pace sognata, non pensata: «I suoi sentimenti politici erano fortemente pro-israeliani e antiarabi. Ma non perché ce l'avesse con l'Islam. Non si poneva in uno scontro di religioni. Solo, vedeva la storia come un cammino di salvezza del suo popolo. Una volta, andò al Cairo a vedere le piramidi. Ma rifiutò di continuare il viaggio in Egitto: "Non mi disturbo per dei Faraoni che hanno fatto i progrom contro i miei avi!". Ironizzava sul messaggio della sua opera: "Chagall... chi può capire Chagall?", diceva a chi gli chiedeva un'interpretazione». Lo capivano in molti, invece. Quindici anni dopo la morte, una sera di giugno, un dipinto sparì dal Jewish Museum di New York. I ladri si fecero vivi con una lettera all' Fbi. Non volevano soldi: lo Studio per ' Sopra Vitebsk' , troppo sconvolgente, sarebbe stato restituito solo in cambio della pace in Medio Oriente. Il quadro ritornò pochi mesi dopo. La pace, si sa.
«Corriere della Sera» del 28 ottobre 2009

La dolce rivoluzione della luce

L'ingrediente base della pittura prende il sopravvento sulla forma
di Francesca Bonazzoli
Dai fondali d' oro del Medioevo agli effetti immateriali di Turner Tecniche innovative I pittori del nord Europa, in particolare i francesi, furono i primi a mostrare nei loro dipinti passione e tecniche speciali e innovative per ricreare la luminosità
La luce è l'ingrediente base e più antico della pittura eppure, paradossalmente, il suo utilizzo come soggetto pittorico è recente. Nei secoli, infatti, sono stati impiegati via via tanti tipi di luce, ma si è dovuti arrivare all'Ottocento per giungere alla rappresentazione della luce stessa. Nell' arte antica era il corpo umano al centro dell' interesse degli artisti il cui massimo virtuosismo stava nell'imitazione della realtà, ovvero in ciò che i greci chiamavano «mimesis». L'arte medievale volse invece lo sguardo verso un mondo fantastico, popolato di draghi, mostri, santi asceti e cavalieri che della luce vera non sapevano che farsene. L' unica luce che contasse era quella dell'oro, usato in grande profusione nei dipinti perché simboleggiava quella divina e portava la pittura in un ambito contemplativo, dove venivano meno le coordinate dello spazio e del tempo date dalla luce vera. Nemmeno il Rinascimento mostrò uno specifico interesse e si rivolse invece allo studio della nuova scienza: la prospettiva. Certo Piero della Francesca, autore del trattato «De prospectiva pingendi», aveva fatto della sintesi forma-luce-colore l'equivalente di una gabbia prospettica e anche Beato Angelico o Domenico Veneziano erano ben consapevoli del fascino esercitato da tonalità luminose. Ma era un uso decorativo, come per Lorenzo Lotto che si ostinava a dipingere con colori lucenti, freddi e separati l'uno dall'altro, quando ormai Leonardo e persino il più giovane collega Tiziano avevano adottato la pittura tonale, fatta di trapassi sfumati da un tono di colore simile all' altro, abbandonando gli effetti di contrasto, come di smalti abbaglianti e pietre preziose, dei colori quattrocenteschi. Anche un pittore come Caravaggio, che con l' uso particolare della luce fece una rivoluzione, in realtà la utilizzò come un mezzo grazie al quale era dato vedere l' oggetto dipinto: la sua era una luce che rivelava ciò che è coperto dalle tenebre, ma non era ancora una rappresentazione/ritratto della luce. Nemmeno Canaletto e Bellotto, nel secolo del Lumi, arrivarono a rappresentare la luce, ma la utilizzarono come il mezzo razionale della visione, attraverso la camera ottica. Chi invece mostrò una passione del tutto nuova e speciale per la luce, furono i francesi e in genere i pittori del nord Europa che scendevano a Roma proprio per catturare quel particolare azzurro dorato della città eterna. I primi furono Claude Lorrain e Nicolas Poussin che nel quarto decennio del Seicento fecero da apripista ai tanti che, nel Settecento neoclassico, da Valenciennes a Guffier, da Thomas Jones a Robert Cozens a Granet, inventarono il versante solare del paesaggio razionalista, fondato su «ordre, calme et clarté», un «paysage portrait» realizzato per la prima volta all'aperto attraverso una sintesi visiva essenzialmente cromatica e non prospettica. Come per l' inglese Thomas Jones, il quale ritraeva la lastra accecante d' azzurro del cielo di Napoli e le variazioni infinitesimali dell' ombra su un muro scrostato. Si arriva così al «paysage vérité» di Corot da un lato e dall' altro agli effetti atmosferici e luministi di William Turner che trascende il dato realistico per arrivare a dipingere uno spazio-luce libero da ogni impianto prospettico dove le forme perdono la loro precisa consistenza a scapito dei colori-luce i quali divengono il soggetto stesso del quadro. La luce comincia finalmente ad essere la vera protagonista del quadro e saranno gli impressionisti a sancire il cambiamento. Se quello che conta è ora dipingere la luce stessa nelle sue infinite variazioni, allora la cattedrale di Rouen sarà per Monet solo un pretesto, una parete/specchio dove catturare il riflesso del sole. Fu allora che divenne quasi una necessità trasferirsi al Sud, verso la luce del Mediterraneo: se non più quella di Roma, quella della Provenza e della Costa Azzurra. Quelle tinte accese, senza compromessi, così diverse dai mezzi toni di Parigi o Londra, richiesero ai pittori un altro modo di dipingere al punto che spesso cambiarono radicalmente lo stile e la tavolozza. Così avvenne per Van Gogh, Matisse, Renoir, Picasso, Chagall e per tutti coloro che accettarono di ingaggiare la più antica delle sfide che possa essere posta a un pittore, quella di fissare l'immaterialità della luce.
«Corriere della Sera » del 28 ottobre 2009

Gli uomini, i trans e quel mondo dove non c' è posto per le donne

Tradimenti e paure
di Marina Terragni
Ricordate il vecchio Freud, di fronte al mistero delle «sue» isteriche? Che cosa vuole una donna? si lambiccava il cervello. Una risposta precisa non seppe trovarla neanche lui. Al tempo dei patriarchi la sessualità maschile era la norma, e quella delle donne un oscuro tumulto non autorizzato. Ma un uomo? Che cosa vuole, un uomo? verrebbe voglia di chiedergli oggi. Perché dei desideri delle donne ormai si sa tutto. Dalle autovisite in avanti, il mistero è stato pubblicamente scandagliato per almeno mezzo secolo. E i desideri degli uomini? Ecco, ti pare di avere proprio tutto: la vita che volevi, il lavoro, e poi la casa, il conto in banca, e la famiglia, i figli e forse - che esagerazione! - perfino l'amore. Poi un bel giorno, per ricatto o per puro caso, vieni a sapere di una certa Brenda o Nazaria o Wynona che come un' oscena badante si prende cura del padre dei tuoi figli. E all'epicentro del terremoto che fa crollare la tua vita perfetta, un maestoso fallo con cui non c'è possibilità di gara. Una nuova versione dell'invidia del pene? «A un'altra donna, tutto sommato, sei sempre pronta», racconta una che c' è passata. «Soprattutto sui 50, quando diventano fascinosi e brizzolati e cominciano a tentennare. Sai che vanno in cerca di conferme. E se capita, dopo un po' di purgatorio magari te li riprendi pure in casa. Ma così...» si mette le mani tra i capelli. «Ed era anche un mostro. Che cosa fai, con una rivale che ha il 44 di piede e siliconi della sesta?». Il modello manca. C'è tutta una genealogia di tradite lacrimose a cui riferirsi quando si tratta «banalmente» di una donna: le madri, le nonne; le crisi di nervi della principessa Maria Stella Salina, quando il Gattopardo Don Fabrizio, stampatole un brusco bacio sulla fronte, lascia Donnafugata per una fuga in carrozza dalla sua favorita. Le convenienti ritrosie della moglie a cui tocca convivere con la lascivia autorizzata dell' amante. Una poligamia informale. Le cose andavano così, quando il patriarcato aveva dato al mondo il suo ordine: per quanto discutibile, almeno riconoscibile. Una saprebbe regolarsi perfino se l'altra fosse inequivocabilmente un altro. Ormai anche qui qualche precedente si è accumulato. Ti puoi anche disperare come Julianne Moore, moglie anni Cinquanta in «Lontano dal paradiso», di fronte al coming out del tuo amato sposo, ma non puoi non comprendere. E dopo un ragionevole periodo di assestamento, se hai un'anima sufficientemente grande puoi anche continuare ad amare. Come una sorella. Non tutto è perduto. Ma di fronte a Brenda, Nazaria o Wynona ti va in pappa il cervello: che cos' ha? È gay? Non sta bene? O è semplicemente un maiale? Chi chiamo? L' avvocato, uno psichiatra o l' esorcista? Non è un caso, per quanto possa apparire pazzesco, che oggi la sessualità maschile sia diventata una questione politica. Il fatto è che si tratta davvero di una questione politica. Che cosa sono gli uomini, crollata la narrazione patriarcale? Su che cosa puntellano la loro identità se non possono più contare sul dominio delle donne? Che cosa ne è della loro maestosa cultura e del mondo che ci hanno costruito sopra, se le fondamenta sono piene di crepe? Non c'è proprio niente da ridere. La pochade della nostra trans-repubblica - ricatti, contro-ricatti, gente in mutande, partouze, mercimoni, filmini, escort che chiacchierano, mogli che sbarellano - è solo la divertente parodia. Sotto, le lugubri note di una danse macabre di fine civiltà. Questo delle trans non è solo un vizietto per potenti. Se una metà abbondante di chi fa il «mestiere» è pene-dotata, è perché esiste una corrispondente - e ipocrita - domanda da parte di un'enorme quantità di impiegati, ragionieri, amministratori di condominio, onesti padri di famiglia. Ok il seno e un nasino femminile, ma nessuna operazione definitiva. «Quello» lo si tiene, o si perderebbero i clienti che a quel punto si rivolgerebbero a «semplici» donne (e sai la noia...). «Perfino i papponi - conferma Ginny, pioniera operata a Londra più di trent' anni fa - oggi chiedono alle ragazze di mettersi su da travestiti»: sei una donna, d' accordo, ma cerca almeno di sembrare un uomo che vuole sembrare una donna... Vertiginoso! La trans del resto è un modello universale, valido anche per le comuni rifatte, quelle rispettabili signore tumefatte e zigomate che fanno shopping in via Condotti o su Park Avenue. Non è forse da travestito quella loro facies chirurgica, la stessa di tante opinioniste «zero tituli» dei nostri salotti tv? Qualcosa vorrà pur significare. Il trans oggi ha un' audience strepitosa: dopo Silvia, MtF - da uomo a donna - al Grande Fratello è la volta di un più raro FtM. E Maurizia Paradiso, che rivela a Pomeriggio 5 la sua prossima pater-maternità grazie all' utero della modella colombiana Francine... Ginny spiffera i nomi (irriferibili) di vari ricchi e famosi, abituali degustatori della specialità maschio-con-tette: a quanti tremeranno i polsi! E dice che questo andazzo è cominciato a metà anni Ottanta, con l' invasione dei viados brasiliani. O non è piuttosto che i viados sono accorsi a frotte per corrispondere a una domanda maschile emergente: giacere con uomini parzialmente adattati a donne? Tra i pochi disposti a parlarne - per il resto, omertoso, complice, imbarazzato silenzio - l'ex calciatore francese Éric Cantona, che in un' intervista ha ammesso: «La donna ideale potrebbe essere un travestito, perché ha un po' di entrambi». E su «Via Dogana», periodico della Libreria delle Donne di Milano, Stefano Sarfatti Nahmad dice: «Comincio a credere che gli uomini che sono interessati al pieno godimento sessuale troveranno più facilmente quello che cercano scegliendo un rapporto omosessuale». Ma forse non è tanto, riduttivamente, questione di essere o non essere gay. Traditi e abbandonati dalle donne, mortificati dalla loro autonomia, sfiniti dalla loro libertà e dalla loro voglia di stravincere, molti maschi regrediscono a un consolatorio «tra uomini». Un mondo a cui le donne non hanno accesso: solo maschere di donne, come sulle scene del teatro medievale; solo pseudo-donne, a misura di un immaginario semplificato e un po' autistico. Un'omosessualità spirituale e culturale che può contemplare anche un passaggio strettamente sessuale. Mi scrive, straordinariamente sincero, un lettore sul blog: «Il vero unico desiderio è vivere momenti di bel cameratismo con altri maschi... Anche il travestito ama esclusivamente il mondo maschile e ritiene che la sua "missione" sia dare amore ad altri maschi, di cui comprende le sofferenze profonde che nessuna donna potrebbe lenire». Non varrebbe la pena di pensarci un po' su? Dispensatrici di bellezza e di gioia, le donne hanno rinunciato per sempre a questa prerogativa divina? Valgono questo prezzo, i loro strepitosi guadagni? Per completezza d' informazione chiedo a Ginny, che ne ha viste e ne ha passate tante, che cos' ha capito in definitiva del sesso degli uomini: «Mah... - riflette -. Che ci pensano sempre. E che sono strani».
«Corriere della Sera» del 28 ottobre 2009

Erri De Luca: vi racconto il mio Ieshu

In un librettino di poche pagine (ma di notevole successo) lo scrittore non credente eppure innamorato della Sacra Scrittura enuncia le «penultime notizie» pervenute sul Messia di Nazaret
di Alessandro Bottellli
Una «vita di Cristo» non definitiva perché da 2000 anni siamo ancora ai tempi supplementari
Sarà per l’aria che lassù si respira, per quel limpido impasto di luce e di cielo che affonda radici in radiose, non misurate lontananze, e in cui la vista, smarrita, a tratti acuisce nel pallido sforzo di intravederne i confini. Sarà per quella fraterna alleanza alle cime, alle vette, ai pinnacoli, sillabati unghia a unghia per grazia di chiodi e piccozza, che ancora una volta la prosa di Erri De Luca, scrittore­scalatore educato da strade in salita a risparmiare sui fiati, fa solchi e allunga ponti là dove più pensavamo aver accumulato il nostro piccolo fardello di sapienza quotidiana. Penultime notizie circa Ieshu/Gesù (Edizioni Messaggero Padova, pagine 96, euro 5) offre a chi lo attraversa il versante opposto d’orizzonte, dilagando con lo sguardo innamorato sopra estesi panorami di parole, rese eterne però dal fitto intrico d’echi e quiete risonanze, o, forse più semplicemente, dal dono azzurro delle nuvole.
Nel libro, dai alcune tornite definizioni dell’amore. Scrivi: «Chi dà tutto in amore non si ritrova sul lastrico, ma più fornito di prima». E all’inizio: «L’amore è questa incomprensibile energia per la quale più se ne spende, più se ne riproduce nelle fibre. Al contrario, chi lo risparmia lo spreca, se lo ritrova inutile e marcito». Tu hai fiducia nell’amore? E che idea ti sei fatto, attraverso lo studio della Bibbia, dell’amore divino?
«Personalmente ho fatto un uso improprio del verbo 'amare'. Ma quando ho trovato queste notizie nella scrittura sacra, ho capito che cos’era quel verbo, e come mai con la forza di quel verbo il monoteismo era riuscito a soppiantare le altre religioni precedenti. E a farlo dentro il Mediterraneo, cioè nel mare più politeista e più abbondante di divinità di tutta la storia dell’umanità. Quel mare veniva rigirato da questa notizia monoteista che si fondava sull’amore. Era una forza di impianto, perché si impiantava su un terreno di idoli che mai avevano chiesto niente di simile ai propri praticanti di culto, ma nello stesso tempo possedeva anche una forza di espianto, capace di sbaragliare, di estirpare dal suolo e dal cuore degli uomini gli idoli precedenti. Tutto ciò è avvenuto grazie a quella energia superiore fornita dal verbo 'amare'. Ecco, io le notizie sul verbo 'amare' le ho imparate nella scrittura sacra».
Un verbo indispensabile, che nutre e sostenta la pratica della fede: «Voi credete con la sovrabbondanza dell’amore, non con la carestia della sapienza», viene detto a Ioséf/Giuseppe, dopo che gli è stata annunciata la nascita di un figlio non suo. Credere dovrebbe essere, come per Abramo, «scatto di totale» e fiducioso «affidamento», in cui le inquietudini del dubbio non possono né devono avere alcun diritto di cittadinanza?
«La lingua italiana ha un unico verbo per indicare il credere. Sia se crediamo nella divinità o nella buona sorte o nella estrazione dei numeri del lotto, il verbo che usiamo è sempre uguale. In questo, è più preciso l’inglese, che adopera il verbo think per esprimere un’opinione, per dire 'io credo che', e il verbo trust quando vuole indicare 'io ho fede'. Sulle banconote americane c’è pure scritto 'In God we trust', 'Noi crediamo in un Dio'. Ma messa lì, quella frase occupa davvero un posto improprio.
Insomma, noi abbiamo una debolezza di vocabolario: usiamo un solo verbo per le opinioni e per la temperatura della fede. E il credere della scrittura sacra, il credere della fede comporta una elevata temperatura corporea».
In quest’ottica, quindi, l’intelligenza potrebbe essere un ostacolo per vivere con pienezza sia il dono dell’amore sia quello della fede?
«No, non è un ostacolo. Semplicemente non è richiesta. Nella scrittura sacra la divinità chiede di essere amata in tutto il cuore, in tutto il fiato e in tutte le forze. Se voleva metterci anche in tutta l’intelligenza lo poteva fare benissimo, non le mancava l’iniziativa né lo spazio. E invece sono quelle le caratteristiche dell’amore richiesto: il cuore, il fiato, le forze. Per credere non c’è bisogno di essere non dico intelligenti, ma nemmeno istruiti».
Quello di Gesù, pur essendo in sé qualcosa di estremamente nuovo e rivoluzionario, «era un annuncio che riscaldava il cuore senza armarlo d’ira e di rivolta». Tu che vieni anche dai giorni della rabbia e dello scontro, come giudichi il messaggio assolutamente non violento portato in mezzo agli uomini dal Redentore?
«Intanto bisogna immaginarsi il suo tempo, raffigurarselo. Gesù abitava in un paese occupato dalla più forte potenza militare straniera, quella romana. Prima e dopo di lui migliaia di giovani ebrei finivano impalati sulla croce, sullo strumento di tortura e di supplizio inventato ed esportato lì proprio dai Romani. Lui stesso era nato in un momento in cui gli invasori chiedevano un censimento e facevano spostare la popolazione ebraica per poterla meglio contare. E, di conseguenza, meglio spremere. Egli si trova dunque in una situazione di oppressione e di rivolte continue contro l’occupante romano, che, d’altronde, non ha trovato mai così tanta resistenza ostinata come da quelle parti. Questo si spiega col fatto, appunto, che gli abitanti della zona erano titolari del monoteismo, del Dio unico, e si trovavano invece il faccione di Giove Iuppiter piazzato sopra il tempio di Gerusalemme, sopra la casa di quella loro divinità che non voleva nemmeno essere raffigurata. Quindi non solo l’occupazione militare era un’ulcera per l’anima ebraica, ma altrettanto lo era quel politeismo imposto.
In questa situazione, nella Pasqua finale della vita di Gesù a Gerusalemme, quando tutto il popolo va lì e converge e manca quasi niente perché scoppi un’insurrezione contro l’occupante romano, lui non dice parole di pace, ma che smontano in un attimo la tensione e l’ostilità. Già prima però, con la frase: 'Date a Cesare quel che è di Cesare', aveva chiarito che il potere politico, il potere degli uomini sugli uomini è qualcosa di effimero, che sta bene sopra una moneta e che non decide né della libertà né della vita di un uomo. Lì Gesù disinnesca una miccia che contava anche su di lui per innescare la rivolta. A Gerusalemme, infatti, viene accolto in maniera trionfale. Entra come un re, in groppa a quella cavalcatura speciale che era l’asina. Senza dubbio c’è grande attesa nei suoi confronti. E lui disarma quell’attesa, la riporta al suo messaggio di salvezza indipendente dalla scelta delle armi».
Ieshu/Gesù «dimostrava senz’armi il sovvertimento delle gerarchie e delle potenze», attraverso la forza dirompente della sua predicazione. La parola, dunque, è capace, da sola, di modificare la realtà?
«La parola pronunciata da quella voce, e cioè dalla voce giusta e nel momento opportuno, certamente è molto più capace delle armi di fare breccia. Non tutte le parole hanno però un simile potere. Noi siamo adesso in un tempo ciarlatano, in cui le parole vengono pronunciate e smentite il giorno dopo. Queste parole qui contano esattamente lo sputo, il fiato che ci vuole a pronunciarle e scadono subito dopo».
Pensi che il messaggio di Gesù Cristo possa ancora farsi largo e attecchire nel cuore degli uomini del ventunesimo secolo?
«Evidentemente sì. Le sue parole non solo muovono, ma addirittura commuovono ancora le generazioni che le ascoltano e che le leggono. Specialmente il messaggio lanciato dalla montagna delle letizie, quello che io dico dei sovvertimenti dei valori e delle gerarchie, in cui lui fa sapere che gli ultimi sono i primi, beh, quel messaggio è fresco di stampa e di speranza in ogni generazione».
Ma il tempo che noi stiamo vivendo, affermi, è un prolungamento di ciò che in realtà si è compiuto con la morte e la risurrezione di Cristo. Che significato assume questa coda temporale, questo strascico di giorni lungo ormai duemila anni?
«Sì, questi tempi supplementari infiniti tra l’annuncio e la sua manifestazione finale durano da duemila anni. È un po’ quello che, in scala più grande, viene comandato a Noè, quando gli viene commissionata un’arca gigantesca, superiore per dimensioni a un campo di calcio, alta tre piani e piantata in mezzo alle montagne e ai boschi. Insomma, un lavoro enorme, portato poi a termine da solo. Un’opera visionaria, molto più della torre di Babele, che voleva costringere l’umanità sua contemporanea a interrogare Noè su quel manufatto. Serviva a far sapere agli uomini del tempo che c’era una possibilità di ravvedersi e di rendere inutile quell’arca. Tutto il lavoro di costruzione dell’arca è dunque un tempo supplementare concesso all’umanità contemporanea di Noè per ravvedersi. Cosa che però non avviene e allora il diluvio ha inizio – così è scritto nel libro Genesi/ Bereshìt. Ecco, questi tempi supplementari del cristianesimo sono i tempi della costruzione dell’arca di Noè».
In uno degli scritti contenuti nel libro dai nuova collocazione al Paradiso: non più sospeso ad altitudini incommensurabili, bensì ubicato in qualche luogo reale, qui, sulla terra, ripristinando quella che dici essere la sua sede originaria, etimologica, e cioè in un giardino di alberi da frutta. Ma oggi potrebbe ancora esistere sul pianeta un luogo degno di ospitare il Paradiso?
«Immaginata come una residenza non definitiva ma provvisoria, ci sono tanti piccoli giardini in cui improvvisamente è possibile realizzare quella concordia e quella unità che c’è nel paradiso. Insomma, è continuamente possibile, su piccola scala e in circostanze minime, in brevi momenti, anticipare quel luogo. Oggi lo possiamo trovare dentro a un ospedale di brava gente nostrana in certi posti dell’Africa, o magari nel comportamento eroico di qualche sacerdote in una parrocchia sgangherata».
Lì c’è un frammento di Paradiso…
«Sì, lì c’è la costituzione di un paradiso in terra».
«Avvenire» del 18 ottobre 2009

«Questa società non sa più educare»

Donati: una scuola fondata sull’esperienza
di Stefano Andrini
«Negli Stati Uniti sem­pre più famiglie de­cidono di educare in proprio i figli. E sempre più stu­diosi sembrano convinti che sa­rebbe meglio chiudere scuole che hanno l’unico obiettivo di far sta­re insieme i ragazzi». Il sociologo Pierpaolo Donati lancia la provo­cazione al Consiglio nazionale del­l’Agesc convocato a Bologna. Nes­suna tentazione di iscriversi al « partito della descolarizzazione » di massa. Ma idee molto chiare sul vero significato dell’attuale emer­genza educativa. « Non abbiamo – spiega – solo qualche difficoltà ad educare. Il problema è che stiamo andando verso una società che dice che è strutturalmente impossibile edu­care e ci impedisce di farlo». Que­sto modello culturale « teorizza l’impossibilità di educare e co­struisce dei sistemi di interazione anche scolastici che non prevedo­no più l’educazione nel senso di una maturazione delle persone » . Prevale invece, secondo Donati «un adattamento spontaneo qua­si di tipo darwiniano. In questo contesto né la famiglia né la scuo­la non solo non possono più edu­care i figli ma non sono più legit­timati a farlo». A questo punto Do­nati rilancia la grande domanda: questa società vuole veramente e­ducare? E la risposta è negativa « perché si intende l’educazione come apprendimento per l’ap­prendimento. Se funzioni bene, in caso contrario sei lasciato ai mar­gini ». Si capisce allora che la que­stione educativa è diventata in realtà antropologica «se vogliamo educarci dobbiamo interrogarci su chi è l’uomo oggi». L’emergenza e­ducativa richiede dunque un si­stema scolastico con nuove carat­teristiche: deve essere un servizio relazionale e deve essere un servi­zio riflessivo. «Non regge più – insiste Donati – un paradigma educativo inteso co­me trasmissione di valori, come in­put utilizzati per riempire il vuoto dei ragazzi. Anche perché sotto questo profilo i videogiochi han­no già vinto la battaglia sulla scuo­la: favorendo la nascita di genera­zioni immerse in un eterno pre­sente, non generate e incapaci di generare. In questa prospettiva i valori non dicono più nulla ai gio­vani. C’è bisogno di una scuola fondata sull’esperienza. Dove il soggetto si forma, prima ancora che attraverso la cultura, a contat­to con gli altri » . Per questo il so­ciologo si dichiara ottimista. «Se il nostro problema fosse solo tra- smettere la cultura avremmo per­so in partenza. Ma puntando sul­l’esperienza e sulle relazioni noi recuperiamo un altro modo di e­ducare fondato su relazioni che si costituiscono in rete».
Qui entra in gioco una particolare peculiarità di cui sono ricche le scuole paritarie: la capacità di ri­generare il capitale sociale, ovvero il patrimonio di fiducia, recipro­cità, sussidiarietà. Diversamente dalle scuole statali dove lo stesso capitale viene solo consumato e lentamente si spegne. «Questo av­viene – a parere di Donati – perché nelle scuole statali domina un plu­ralismo che neutralizza tutte le re­lazioni ». Se vogliamo dunque ave­re scuole riflessive, dice il sociolo­go, occorre puntare sul capitale so­ciale e sulla presenza capillare del­le associazioni familiari. «Vi do un consiglio. Se incontrate il ministro Gelmini chiedete non buone pa­role ma un disegno di legge che vi faccia en­trare nelle scuole con tanto di diritti e di rico­noscimento giuridico». Le associazioni familia­ri, ricorda Donati, «non sono un complemento, una integrazione o uno spazio di buona vo­lontà e generosità che affianca le scuole o che propone anche qual­che propria scuola, ma devono diventare un pilastro essenziale nel­la riorganizzazione del sistema scolastico». Ma non solo. Sul mo­dello tedesco delle alleanze locali amiche della famiglia ( che coin­volgono tutti i soggetti di uno stes­so territorio) le associazioni dei ge­nitori dovrebbero sperimentare al­leanze di questo tipo anche per i servizi educativi.
«Avvenire» del 18 ottobre 2009

Il prototipo dei Gulag

Nuovi documenti fanno luce sulla nascita del sistema concentrazionario sovietico, che fu spiato dagli emissari di Hitler
di Lorenzo Fazzini
Fu il campo dove il grande teologo Pavel’ Florenskij venne rinchiuso e ucciso con un colpo alla nuca insieme a 1115 detenuti nell’ottobre del 1937. Da celeberrimo monastero ortodosso, abitato fin dal XVI secolo, divenne il prototipo dell’universo concentrazionario che Alexander Solzenicyn avrebbe reso letterariamente immortale nel suo Arcipelago Gulag. «La specificità del Gulag è frutto dei principi sperimentati alle Solovki: l’utilizzo dei forzati per risparmiare, il prolungamento arbitrari della detenzione con nuove condanne all’esilio, la subordinazione dei detenuti politici ai criminali, l’interdipendenza tra razione alimentare e lavoro, e infine l’umiliazione costante dei prigionieri attraverso un regime che calpesta i diritti umani più elementari». E, inoltre, la particolare ferocia verso quanto sapeva di religione: dal 1927 in Urss bastava «partecipare a manifestazioni religiose» per ottenere il massimo della pena.
La ricercatrice francese Francine-Dominique Liechtenhan ha compito un pregevole lavoro sulle isole Solovki come modello del sistema repressivo in Urss. Il laboratorio del Gulag. Le origini del sistema concentrazionario sovietico (da oggi in libreria per Lindau, pagine 314, euro 24,50) getta una luce complessiva sull’eziologia di quanto la neonata Germania nazista avrebbe preso ad esempio. È proprio Liechtenhan a concretizzare, con un eclatante riferimento, l’affermazione di Alain Besançon su comunismo e nazismo quali «gemelli eterozigoti».
Nota infatti l’autrice: «Ben prima della sua ascesa al potere, Hitler manda degli emissari per verificare l’operato dei "giudeo-bolscevici". I risultati soddisfano gli ideologi nazisti, che utilizzano le informazioni delle loro spie per scatenare la propaganda antisovietica. […]. Dai campi i nazisti sapranno trarre ispirazione dieci anni dopo».
Quali le caratteristiche peculiari delle Solovki, arcipelago del Mar Bianco (nel 1929 nelle 6 isole più importanti si contano 39 campi), estremo nord-ovest della Russia, al largo di Archangel’sk? Anzitutto, la scelta geografica dei gerarchi di Mosca per impiantare il germe concentrazionario: un territorio inospitale, con temperature di -30° in inverno, una zona irraggiungibile da novembre e giugno. Qui trovano "casa" criminali comuni, oppositori politici, religiosi, ex membri dell’alta società zarista. Con due curiosità non indifferenti: i detenuti più rappresentati cono i contadini (nel 1927, secondo Liechtenhan, rappresentano il 67% dei reclusi: ma il comunismo non doveva "liberare" i servi della gleba?). I membri del Partito comunista poi rappresentano, con il 7%, la maggior quota di carcerati politicizzati, visto che il 92% era senza partito. Come a dire: i più reclusi alle Solovki erano gli stessi comunisti.
La detenzione, che arrivò a riguardare fino a 70 mila persone in contemporanea, aveva l’obiettivo di "rieducare" i "nemici del popolo" al credo sovietico: «Nel gergo ufficiale sovietico - scrive l’autrice -, essere condannati ai campi non significa soffrire né morire, bensì prepararsi a una vita migliore, fedele ai precetti del comunismo». Ma la durezza del campo portava all’abbruttimento dell’umano, ovvero corruzione, prostituzione, furti, omicidi, inauditi casi di cannibalismo: «A volte la madre preferisce far sparire il neonato seppellendolo nella foresta. Secondo alcune testimonianze, non sarebbero mancati i casi di antropofagia: detenute spinte dalla fame che avrebbero dissotterrato i corpicini per mangiarli o addirittura per vederne i resti spacciandoli come carne animale». Eccola, la "grandezza" del nuovo homo sovieticus.
Quindi Liechtenhan (docente alla Sorbona e all’Institut Catholique di Parigi) rimarca come, con il famigerato articolo 58 introdotto nel ’27 nel codice penale, la detenzione fossa diventata in Urss un espediente economico (oggi riattualizzato dai laogai, i campi di lavoro in Cina): «Il codice penale è rimodellato in funzione della richiesta di manodopera, la società sovietica diventa un "universo concentrazionario"».
Di fronte a questo stravolgimento dell’umano, le reazioni furono divergenti: vi fu il caso del celebre scrittore Maksim Gor’kij che - visitate le Solovki - redasse un resoconto filogovernativo: quelle carceri diventano «una scuola preparatoria» e l’internamento «una cosa giusta». Arvo Tuominen, comunista finlandese, invece, che visitò il campo di Kem’ nel ’33, ne rimase sconvolto: «I prigionieri avevano abbandonato ogni speranza. Il campo era come un cimitero per i vivi».
Nell’agosto scorso il nuovo patriarca di Mosca Kirill ha visitato le Solovki, che nel 1990 è tornata ad essere un monastero (la cattedrale è stata riaperta nel 2003): ricordando suo nonno, prigioniero, il capo della Chiesa russa ha auspicato che le Solovki diventino «un centro di studio nazionale sull’impresa dei martiri e confessori della fede durante il Novecento». Sarebbe un modo splendido per "vendicare" in maniera pacifica decenni di violazioni della dignità umana in nome del Sol dell’avvenire.
«Avvenire» del 29 ottobre 2009

Ma lo sai quanto costa la tua istruzione allo stato italiano?

Avvenire del 28 ottobre 2009

27 ottobre 2009

Torniamo per pietà alla vera questione morale

Riflessioni sul caso Marrazzo (e su noi uomini)
di Davide Rondoni
Il caso Marrazzo continua a tener banco, trascinato agli onori delle cronache da una catena di piccoli e grandi squallori. E io vorrei tenermi lontano dal guazzabuglio delle reazioni di parte e ancor di più – com’è costume di questo giornale – dal greve gioco al massacro che s’è subito aperto. Perché è legittimo stigmatizzare le debolezze di un uomo pubblico – e trarne, sul piano politico e morale, le inevitabili conseguenze – ma non può diventare motivo per massacrare la dignità sua e la sensibilità di coloro che lo amano o che gli sono legati.
Che questa sia, piuttosto, l’occasione per una riflessione seria, dura e al tempo stesso pietosa (sì usiamolo questo aggettivo, senza il quale ogni società umana decade, poiché senza pietà ogni umano consorzio si disfa e si insanguina). Perché si tratta di considerare una cosa: nel cuore di un uomo può agire la spinta ideale, buona e costruttiva a darsi da fare, a impegnarsi bene, e anche, contemporaneamente, agire la spinta a buttarsi via, a obnubilarsi in un oscuro dispendio di se stesso, del proprio corpo, della propria energia. Costruzione e dispendio. Fare del bene e buttarsi via. Questo può succedere, e non di rado.
Succede perché l’uomo è anche fatto così. Non è un meccanismo dove al bene si attacca e consegue per forza il bene. Possono convivere male e bene, alternarsi. Succedere l’uno all’altro. Non ce ne dovremmo stupire, se ci conosciamo almeno un poco. Lo diceva anche san Paolo di se stesso, figurati se non vale per ognuno di noi poveracci. I cristiani iniziano il momento più importante per loro, la Messa, battendosi il petto. L’ultimo peccatore come il Papa.
Sembra che queste cose non abbiano a che fare con la cronaca. Questa eterna contraddizione dell’esser nostro vale per i re, per i capi, e per il popolo. Per gli eletti, e per gli elettori. Se la questione morale fosse davvero il proporsi di una questione circa la moralità, beh allora dovremmo finalmente discutere su quali sono i reali argini alla debolezza morale (e dovremmo discutere anche su perché accade che mentre qualcuno viene "massacrato" e fatto fuori sui giornali sulla base di carte false, intorno ad altri, persino immortalati in video sgradevoli, scattano strani meccanismi di solidarietà e di protezione ad alto livello). Dovremmo discutere, insomma, su che cosa rende "morale" la vita di un uomo. La mancanza di errori? La presenza di un controllo totale sui suoi atti pubblici e privati? O la sua magari faticosa adesione a un pulito e schietto ideale di umanità? La sua costruzione di un’identità pubblica che non sia l’altra faccia di quella privata?
Eppure il caso Marrazzo mi suscita infinita pena. Dello stesso tipo di pena che ho verso me stesso, la medesima abbandonata e irrimediabile pena. Se davvero la "questione morale" fosse un momento per guardarsi in faccia, anche con le proprie debolezze, allora forse la politica e i suoi teatri ne riceverebbero una nuova tensione positiva, e un’aria meno ammalata. Se davvero fosse un’occasione per parlare tra uomini in carne e ossa, preoccupati per il decadere delle istituzioni politiche e di garanzia; insomma, se il disastro umano di questo o quel caso noto servisse per uscire un attimo dal teatro di "bambocci" (cioè di pupi, d’uomini finti) a cui sembra ridursi spesso la politica italiana, allora penso che ne verrebbe un guadagno per tutti. Ridiscutendo di cosa sia la morale, che tensione sia, che necessità ci sia di non fissarsela da soli, di non rispondere soltanto – senza stile e senza sobrietà – alla propria immagine di potere o di pensiero.
Una vera questione morale sarebbe il tratto di un’epoca di agire retto e dove non si usa la comune debolezza umana come clava gli uni contro gli altri. Dove politici, uomini dello Stato e mass media non lavorano per sfasciare la gente. E per prenderla per il naso. Sarebbe una stagione meno farisaica e scandalistica, più pulita e di maggior tensione al bene comune. Se no, ne verrà solo altro avvilimento, e incattivimento. Proseguendo un periodo cupo e pazzo in cui in nome della morale fai-da-te o improvvisamente riscoperta si distoglie amoralmente lo sguardo dai problemi veri della gente vera e si aprono le porte ai modi più feroci e distruttivi di lotta.
«Avvenire» del 27 Ottobre 2009