30 aprile 2007

L’orrenda abitudine dei bimbi carnefici (che sono un po’noi)

di Pierluigi Battista
Ma davvero è così inaudita, storicamente sconosciuta, l’immagine raccapricciante del bambino dei talebani che sgozza la vittima con il suo coltello santo e assassino? Come se non ammontassero a centinaia di migliaia i «bambini-martiri» allevati nel «culto erotico della morte» (la definizione è di Carlo Panella nel libro «Fascismo islamico» appena pubblicato da Rizzoli) e mandati al sacrificio da Khomeini nella guerra santa contro l’Iraq. Come se non fosse una specialità delle dittature totalitarie l’ostentazione dei bambini esibiti da trofei di regime e costretti a esibirsi canterini e inghirlandati nell’adulazione del tiranno, di Stalin e Hitler, di Mao e di Saddam Hussein. Come, insomma, se il bambino usato, martirizzato, reso criminale sull’altare di un’Idea superiore che prevede l’annientamento proprio e del nemico non fosse il simbolo stesso delle utopie sanguinarie che abbiamo conosciuto nel «secolo delle idee assassine». L’omicidio come rito di iniziazione rivoluzionaria, la prova del sangue come sigillo di una devozione totale e assoluta non è stato inventato dai tagliagole dell’islamismo mahdista. Nel pieno delle purghe staliniane una medaglia speciale insigniva i bambini che si erano dimostrati perfetti delatori denunciando le mene controrivoluzionarie di padri e madri: il Partito come negazione di ogni particolarismo familiare, più importante di ogni affetto privato, di ogni sentimento liquidato come sopravvivenza «piccoloborghese» di un passato ripudiato. Ai bambini e agli adolescenti del Reich agonizzante, ha raccontato Joachim Fest, venne affidato il compito di una difesa impossibile nella Berlino devastata, a guardia del bunker dove Hitler trascorreva i giorni e le notti di una disfatta apocalittica che non avrebbe dovuto risparmiare nulla, nemmeno la vita dei più giovani. Sono note le gesta delle imberbi «guardie rosse» che Mao scatenò a caccia degli adulti da umiliare e sopprimere, carnefici chiamati a snidare la corruzione, uniche creature pure che non avrebbero arretrato nemmeno di fronte alle più atroci nefandezze della Rivoluzione culturale. E Pol Pot si servì di «adolescenti aguzzini» per compiere un massacro di dimensioni spaventose, per snidare gli adulti colpevoli solo di portare un paio di occhiali (pericolosi intellettuali) o di parlare una lingua straniera (pericolosi «cosmopoliti») o di aver vissuto nei vizi della città prerivoluzionaria e perciò destinati a finire in quella montagna di teschi che è l’immagine simbolo del delirio khmer rosso in Cambogia. I bambini come cera molle e plasmabile da modellare, puri e incontaminati, secondo i dettami del Verbo rappresentano perciò uno spettacolo tristemente consueto della nostra storia. E negli occhi del dodicenne che in Afghanistan si appresta ad affondare il coltellaccio nel collo della vittima si legge la riduzione degradante del nemico, dell’infedele, dell’apostata, della «spia» a puro oggetto sacrificale utile al trionfo della vera fede. E’ tipico dell’utopismo palingenetico confidare nella determinazione «innocente» dell’infanzia, scorgere nel bambino il vero «uomo nuovo» interamente forgiato dalla rivoluzione, libero dal peso inerte del passato, senz’altro legame affettivo, sentimentale, emotivo, semplicemente abitudinario con il mondo di ieri, irrimediabilmente sporco e infetto. I bambini come avanguardia di una società interamente nuova, senza l’impaccio delle remore morali elaborate di una società corrotta: tragicamente non c’è niente di inaudito in questa rappresentazione. Lo sgomento e l’orrore di quel bambino assassino non è lo stupore per un esotico terrificante. De nobis fabula narratur.
«Corriere della Sera» del 23 aprile 2007

Immigrati e leggi

Non basta regolare i flussi: vanno salvati i nostri valori
di Magdi Allam
Diritti. Ancora diritti. Solo diritti. Ma dove sono i doveri? Se si voleva erigere un monumento al buonismo italico ci si è riusciti perfettamente. Il nuovo disegno di legge sull’immigrazione è la summa dei diritti che non vediamo l’ora di concedere, ma non vi è traccia dei doveri che dovremmo richiedere a chi arriva in Italia per migliorare le proprie condizioni di vita. Hai un contratto di lavoro per sei mesi? Ti diamo un permesso di soggiorno per uno o due anni. E quando scade te lo rinnoviamo per due o quattro anni. Sei rimasto disoccupato? Puoi stare tranquillamente in Italia per almeno un anno usufruendo di tutti i diritti dei cittadini. Ma chi paga? Arrivi in modo clandestino violando le leggi del tuo Paese e quelle italiane? No problem. Ti accoglieremo in un centro di accoglienza con comfort certificato dall’Onu, dalle Asl e da tutte le organizzazioni umanitarie. Dopo cinque anni di permanenza potrai decidere le sorti politiche delle nostre città votando e facendoti eleggere, anche se non te ne frega niente dell’interesse degli italiani o se il tuo obiettivo è di consolidare il potere di uno «stato etnico-confessionale-identitario» che prima o poi scatenerà la guerra contro noi tutti. Agli immigrati non chiediamo nulla, tutt’al più ci permettiamo di offrire loro dei corsi di lingua italiana e di conoscenza della Costituzione. Ma si tratta di un optional. Ci vanno ugualmente bene sia chi vi aderisce sia chi li rifiuta. La Carta dei valori, della cittadinanza e dell'integrazione? Stupenda enunciazione dei diritti dell’uomo universalmente riconosciuti. Peccato che non abbiamo il coraggio di chiedere a nessuno di sottoscriverla, in particolar modo all’Ucoii (Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia) per la quale era stata originariamente concepita. Non ci siamo proprio. Non va bene questo disegno di legge Amato-Ferrero così come era inadeguata la legge Bossi-Fini. Perché entrambe sono concepite come un meccanismo di regolamentazione dei flussi di immigrati, riducendo il ruolo del governo a quello di un’agenzia di collocamento. Tanto vale affidare tale compito a «Italia Lavoro», che lo farebbe probabilmente meglio se la si lasciasse operare autonomamente. Compito del governo dovrebbe essere la definizione di un modello di convivenza sociale, individuando i valori fondamentali e le regole condivise degli italiani che sostanziano una comune identità nazionale, al cui interno tracciare il percorso di integrazione degli immigrati secondo il principio dei diritti e dei doveri da ottemperare in modo obbligatorio, al fine di salvaguardare le nostre certezze e le legittime aspettative altrui. Diversamente ci si comporta da razzisti, non nei confronti degli immigrati, ma nei confronti degli italiani. La classe politica italiana dovrebbe finalmente capire che se vogliamo veramente fare il bene degli immigrati, dobbiamo innanzitutto realizzare il bene degli italiani. Possibile che la politica si riduca a distruggere ciò che ha fatto il precedente governo per mero tornaconto elettorale, invece di costruire valorizzando e migliorando l’esistente nel nome dell’interesse supremo degli italiani? Possibile che anche la sinistra riduca l’immigrato a forza lavoro anziché considerarlo nella sua integralità di persona che, proprio perché non deve essere discriminata, deve essere trattata alla pari dei cittadini, ossia sulla base del principio dei diritti e dei doveri? Diciamola tutta la verità: destra e sinistra sono finite nel vicolo cieco della faziosità partitica e del disinteresse della collettività perché è estremamente arduo in Italia definire il quadro delle certezze valoriali che sostanziano l’identità nazionale. E visto che non possiamo costruire partendo da noi stessi perché non sappiamo chi siamo, in cosa crediamo e il traguardo che dovremmo conseguire, finiamo per riversare le nostre aspettative sugli altri investendo nelle loro certezze. Azzerando tutto il nostro passato, relativizzando tutto il nostro presente, mettendo a repentaglio tutto il nostro futuro.
«Corriere della sera» del 25 aprile 2007

28 aprile 2007

Ritratto fedele

di Massimo Gramellini
L’autorevole Financial Times ha pubblicato un dossier assai autorevole sulla situazione mondiale delle corna. Da un esame autorevolissimo delle statistiche è emerso che una caterva di maschi africani, americani ed europei confessa di tradire la moglie. Fa eccezione l’Italia, dove appena tre uomini su cento riconoscono di aver commesso un adulterio, ma molto piccolo. Gli analisti britannici ne sono rimasti sorpresi. Ci conoscono poco. E ancor meno conoscono i risultati di ogni indagine demoscopica che ci riguardi. Com’è noto, il 92% degli italiani apprezza la cultura più del calcio, il 95% smania dal desiderio di pagare le tasse, il 97% detesta le barzellette becere e, finché la democrazia cristiana è esistita, il 112,8% negava di averla mai votata.
L’italiano è un dissimulatore professionale. Mettetegli davanti un sondaggista ed egli cercherà di soddisfarlo: barrando la risposta più nobile, la più lontana dalla bruta verità. Non per naturale tendenza al depistaggio o desiderio di compiacere l’interlocutore. E neppure per una visione edulcorata dell’esistenza che lo induce a preferire le bugie fantasmagoriche alla noia della realtà. Semplicemente è convinto che i sondaggi non siano un termometro di comportamenti, ma un indicatore di buoni propositi. A chi gli domanda cosa fa o cosa pensa, lui risponde cosa gli piacerebbe fare e pensare per sentirsi migliore di quel che è. Davanti all’intervistatore si comporta come un tempo davanti al prete: puntando a uscirne con un’iniezione di autostima che gli permetta di rimettersi a fare i propri comodi circondato da un alone di santità.
«La Stampa» del 26 aprile 2007

25 aprile: la Resistenza dell’esercito

Per qualcuno ancora oggi «l’unica guerra che può valere la pena di essere combattuta è la guerra civile» ...
di Indro Montanelli
Nel settembre del 1953, sulle pagine del Borghese, Indro Montanelli domandava che le uniformi dei soldati italiani ritornassero a tingersi del vecchio grigioverde delle battaglie del Piave e di Vittorio Veneto, dismettendo il colore cachi che aveva coperto le nostre truppe, tra 1943 e 1945, quando esse affiancarono le armate alleate nella lotta contro i tedeschi. L’antipatia per quel colore, aggiungeva Montanelli, proveniva «dai ricordi di un esercito italiano rimasto senza bandiera, vestito con gli scarti dei magazzini altrui, adibito ai bassi servizi dell’armata di Alexander», che costituiva l’interfaccia dell’«Italia delle segnorine, degli sciuscià, della borsa nera, che ai Patton e ai Rommel contrapponeva, esaltandoli, come eroi nazionali, i disertori, i doppiogiochisti, i contraffattori di sigarette americane».
Persino Montanelli, dunque, del cui ombroso ma robusto patriottismo non è dato dubitare, si dimostrava condizionato dal diffuso pregiudizio che considerava i reparti del Regio Esercito, cobelligeranti insieme a inglesi, americani, neozelandesi, marocchini, poco più che una torma di volenterosi ascari, addetti all’umile e poco rischioso servizio di retrovia. Eppure solo qualche anno prima il giudizio sui nostri militari, impegnati nella guerra di liberazione, era stato ben diverso, se, nell’estate del 1947 il partito contrario alla ratifica del punitivo Trattato di Parigi aveva chiesto, per bocca di Benedetto Croce e Vittorio Emanuele Orlando, di far pesare, presso i vincitori, il contributo delle nostre armi nella lotta contro i nazisti, ricordando come esso fosse stato almeno pari a quello delle forze della Francia di De Gaulle, che ora sedeva trionfatrice al tavolo della pace. Il farlo, aveva aggiunto Nitti, avrebbe comportato però una precisa volontà politica, che fu assente per la maggioranza dei partiti riuniti nella Costituente i quali, come annotava Giulio Andreotti nel suo diario, «per tema di passar per nazionalisti dimenticano di essere italiani».
In questo modo, il ricordo della guerra militare di liberazione venne rimosso dalla memoria della nazione, a tutto vantaggio di quello della resistenza civile, nonostante la notoria inefficacia dimostrata dalle formazioni partigiane sul campo di battaglia. Soltanto nell’ultimo quindicennio una attenta revisione storiografica, finalmente libera dall’ipoteca resistenziale, ha restituito la verità dei fatti, fornendo un’interpretazione esauriente, scrupolosa, obiettiva, che viene ora completata, grazie al contributo dei migliori specialisti della materia (Aga-Rossi, Rochat, Rusconi, Klinhkhamer), nel numero monografico degli Annali del Dipartimento di Storia dell’Università di Roma2, dedicato appunto alla Resistenza dei militari.
Da questa ricerca collettiva emergono alcune cifre eloquenti, al di là di ogni ulteriore commento. Tra 8 settembre 1943 e 25 aprile 1945, il ricostituito esercito italiano mobilitò circa mezzo milione di uomini, di cui 400mila operativi, inquadrati in sei Gruppi di combattimento e nei superstiti reparti dell’Aeronautica e della Marina, ai quali vanno aggiunti 80mila uomini che operarono attivamente in Italia e fuori d’Italia, conservando, come le divisioni «Venezia» e «Taurinense» in Jugoslavia, proprio vessillo e autonomo comando, e i più di 700mila internati nei lager tedeschi che, nella quasi totalità, rifiutarono di collaborare con le forze germaniche. A fronte di questo consistente apparato di uomini e di mezzi, le milizie partigiane schieravano, nella primavera del 1945, 70mila unità, quando all’approssimarsi della vittoria finale si erano ingrossate di nuove leve provenienti anche da numerosi disertori della Rsi.
Se non determinante, il contributo delle forze militari alla liberazione della Penisola fu comunque importante, in attività logistica e di sorveglianza delle retrovie, ma anche in episodi di guerra guerreggiata, che spesso si conclusero con successo, come accadde per la vittoriosa difesa della Corsica, nella battaglia del Garigliano e delle Romagne, negli scontri di Montelungo e di Monte Marrone, e più sovente si trasformarono nell’olocausto delle nostre truppe, soverchiate dalla preponderanza degli avversari. Di questo sacrificio sul campo dell’onore, in obbedienza al giuramento di fedeltà che legava soldati e ufficiali al legittimo monarca, fa testimonianza la tragica anabasi della divisione «Perugia» che, in Albania, dopo l’armistizio, rifiutò sia di consegnarsi ai tedeschi sia di unirsi ai partigiani, e, lottando accanitamente contro gli uni e contro gli altri, si aprì la strada fino alla costa, dove fu travolta dai più numerosi reparti della Wehrmacht, che passarono immediatamente per le armi i suoi 150 ufficiali.
Un martirio, quello della «Perugia», a cui non toccò poi il risarcimento della memoria, invece generosamente tributato alla divisione «Acqui», massacrata a Cefalonia, dopo alcuni giorni di cruento combattimento, dalle truppe di montagna del generale Lanz, la quale sarebbe divenuta il simbolo di una presunta fusione tra resistenza militare e resistenza civile, accomunate dagli obiettivi della lotta patriottica contro il nazismo. Un’operazione della memoria, questa, di cui fu principale artefice il presidente della Repubblica Ciampi, nel discorso del marzo 2001, da alcuni interpretato come un’interferenza politica della «storiografia del Quirinale». Si disse, allora, che il dramma svoltosi nell’isola greca, nel settembre del 1943, presentava troppe e troppo gravi zone d’ombra, per essere assunto a simbolo dell’unità nazionale, a meno che di quella unità non si volesse fornire ancora una volta una versione del tutto compatibile con la vecchia vulgata resistenziale.
L’episodio di Cefalonia si sviluppò, infatti, sul filo del rasoio dell’insubordinazione. I primi atti d’ostilità contro i tedeschi furono intrapresi contro la volontà del Generale Gandin, comandante del distaccamento italiano, convinto, come i fatti avrebbero tragicamente dimostrato, dell’impossibilità di opporre resistenza, in una situazione geostrategica ormai del tutto compromessa. Al braccio di ferro tra alcuni insubordinati e Gandin, si aggiungevano atti di ingiustificata violenza nei suoi confronti e contro altri ufficiali lealisti, che provocarono una situazione di collasso della catena gerarchica, a cui si tentò di ovviare con la convocazione di una sorta di soviet militare, dal quale sarebbe uscita la fatale decisione del ricorso alle armi. L’intero accaduto, che è stato giustamente definito «una pagina nera della storia militare italiana», conserva però, per l’opinione pubblica di sinistra, il grosso merito di «identificare il soldato di Cefalonia con il partigiano» (così scriveva l’Unità già nel settembre 1945), in colui per il quale, come fu detto da un autorevole intellettuale azionista, «l’unica guerra che può valere la pena di essere combattuta è la guerra civile».
«Il Giornale» del 25 aprile 2007

24 aprile 2007

Armeni: la memoria riscritta dai turchi

Alla cerimonia di riapertura della Chiesa della Santa Croce si è parlato ancora di «cosiddetto genocidio». E nel Museo di Van una sezione è dedicata ai massacri compiuti dagli armeni
di Marta Ottaviani
Città di origine armena, fiorente per cultura e ricchezza, teatro di una tragedia e, oggi, terra di mezzo fra tentativi di riconciliazione e negazionismo storico. Se c'è un luogo dove la Storia si è scatenata con tutta la sua violenza e dove il destino è stato beffardo è proprio Van.
La riapertura, dopo un lungo restauro, della chiesa armena della Santa Croce sull'isola di Akdamar, nel lago di Van, è stata accolta da tutti come un gesto di distensione nei frapporti fra Ankara ed Erevan. Si tratta di uno dei monumenti armeni più importanti sul suolo turco, dopo la città di Ani, vicino a Kars. La presenza di una delegazione del governo armeno e il fatto che era stato restaurato un luogo sacro a una religione che non era quella musulmana, aveva riacceso la speranza. L'evento era stato anche opportunamente reclamizzato dal governo turco, come gesto di apertura.
Un primo tentativo di dialogo su quello che in Turchia è chiamato «Ermeni Soykirim Iddialari», il «cosiddetto genocidio armeno», e che è considerato dalla comunità internazionale il primo grande massacro del XX secolo. Una tesi che la Turchia non ha mai accettato, negando il numero dei morti (la versione ufficiale dice circa un milione, Ankara al massimo 300mila), negando che si sia trattato di un'eliminazione sistematica della popolazione armena. Di contro, ha accusato alcune potenze europee (soprattutto la Russia) di aver perpretato l'eccidio al suo posto e soprattutto sostiene che all'epoca dei fatti persero la vita anche oltre mezzo milione di turchi.
Storie di odio e dolore, avrebbero dovuto trovare in quell'isola nel lago di Van un nuovo punto di partenza. Il condizionale sembra quanto mai d'obbligo, perché nella stessa località, oltre alla chiesa della Santa Croce, sorge anche un museo, il Museo di Van per la precisione, che ha una sezione intitolata «ai massacri compiuti dagli Armeni». Il suo obiettivo è dimostrare e documentare i massacri compiuti dalle truppe russe e armene nella regione nel 1915. Praticamente un genocidio al contrario. Secondo i dati ufficiali locali, solo nella zona di Van furono sterminati oltre 2500 turchi. Il massacro, sempre secondo la versione, si estese anche ad altre zone dell'Anatolia orientale. I pannelli illustrativi del museo spiegano che sono state trovate fosse comuni con medaglie e rosari di chiara fattura ottomana insieme con proiettili di fabbricazione russa e che questa sarebbe la prova tangibile dell'avvenuto massacro.
Della versione ufficiale, che solo a Van furono 80mila gli armeni sterminati dai turchi e curdi (che a quei tempi combattevano paradossalmente dalla stessa parte), nessuna traccia. Chiesa della riconciliazione contro museo della negazione, insomma.
Ma non solo. Sulla riapertura del luogo di culto sull'isola di Akdamar, che di quell'eccidio è stata imponente testimone, si è addensata più di una nube. È stato riaperto al culto classificato come «museo». Ma, soprattutto, quella consacrata nel X secolo come «Chiesa della Santa Croce», sulla sua sommità la croce non la porta più da tempo. L'argomento in Turchia ha fatto discutere e diviso giornalisti, politici e esperti d'arte. Stando alla versione ufficiale dei restauratori, il simbolo sacro non è stato rimesso sulla cupola perché assente già dalla fine del 1800, ossia da quando l'edificio fu abbandonato.
La polemica non è mancata, anche perché lo stesso Patriarca armeno di Istanbul, Mesrob II, è intervenuto chiedendo con forza che la croce venisse rimessa sulla sommità dell'edificio e che la chiesa potesse ospitare almeno una funzione religiosa all'anno. Il ministro della Cultura, Atilla Koc, che fa parte di un governo di orientamento «islamico-moderato» ha riferito di aver preso in seria considerazione entrambe le richieste, ma che ci vorrà tempo.
La Diaspora Armena, che ha rifiutato l'invito del governo turco a partecipare all'inaugurazione ha fatto anche sapere che i turchi hanno trasformato il nome della Chiesa da Akhtamar in Akdamar. Il giorno della riapertura, fra l'esecuzione dell'inno turco e ritratti di Mustafa Kemal Atatürk, fondatore dello Stato laico e moderno, il passato armeno della chiesa non è mai stato menzionato e nonostante la presenza di una delegazione proveniente da Erevan, non c'era una sola bandiera armena a sancire definitivamente quel tentativo di riconciliazione.
Oggi, a Van, c'è una chiesa chiamata museo: senza croce, senza Messa, senza fedeli. E un museo che racconta una storia diversa. Nonostante tutto, però, forse adesso c'è anche un filo di speranza.
«Il Giornale» del 23 aprile 2007

Simbolismo: quando l’Europa si mise a sognare

Allegorie, visioni, memorie di un mitico passato. A Ferrara le opere degli artisti che precorrono le avanguardie
di Maurizia Tazartes
Cleopatre, chimere, principesse. È il Simbolismo, movimento europeo fra il tardo Ottocento e il primo Novecento. Il regno del sogno, della fantasia, del mistero, cui molti artisti di metà XIX secolo decisero di aderire in alternativa alle accademie, e al di fuori di realismo e impressionismo. Da Gustave Moreau alle preziosità auree di Gustav Klimt, un filo simbolista percorre l’Europa, preparando la strada alle avanguardie del XX secolo. Lo racconta una grande mostra a Palazzo dei Diamanti di Ferrara, con centoundici opere tra dipinti, disegni, incisioni, litografie ed un bel catalogo (Ferrara Arte). Il percorso cronologico si svolge lungo dodici sale, sottolineando i temi più frequenti, come vita e morte, sogno e riflessione, mistero, mito, lo scorrere del tempo.
Perché Simbolismo? Perché le opere di questi artisti, dalla sensibilità inquieta, che rifiutano modelli reali per inoltrarsi in visioni fantastiche o ideali, suggerite dalle proprie emozioni, sono ricche di simboli e allegorie, di reminiscenze letterarie ed erudite. Gustave Moreau, ad esempio nell’Apparizione, un acquerello su carta del 1876 circa, rappresenta la vicenda biblica della Salomé e del Battista come monito alla tragica influenza della donna fatale. Certo, qualche volta, il peso dei significati reconditi, aggiunto a un’esuberanza di colori e preziosismi, appesantisce i dipinti. Ma non mancano, nelle tre grandi sezioni della mostra, i capolavori.
Tra i primi, negli anni Sessanta dell’Ottocento, a voler abbandonare una visione naturalistica, per rivalutare miti fantastici e soggetti allegorici, ci fu proprio il parigino Gustave Moreau, apprezzato da Proust e Huysmans, che ne decretarono il successo. Con lui tornano alla ribalta personaggi come Fetonte, Edipo, la Sfinge, Elena di Troia, Giove, trattati con una pittura preziosa e sofisticata. Più idilliaco, Puvis de Chavannes realizza dipinti armonici, dai colori tenui, come La Morte e le fanciulle, un’allegoria dello scorrere del tempo, simile alle danze macabre del medioevo. Altro visionario fu Arnold Böcklin, autore di una sensuale e drammatica Cleopatra, criticata dai contemporanei, per il taglio spregiudicato quasi fuori della cornice e la testa in gran parte in ombra.
L’affermazione vera e propria del Simbolismo avviene negli anni Ottanta-Novanta, con Odilon Redon, di cui sono esposti dipinti, disegni, incisioni, litografie. E poi con Edvard Munch, Paul Gauguin, per citare i più noti. Gauguin, dopo aver fatto esperienze impressioniste, aderisce alle nuove tendenze simboliste, suggestionato dalla poesia di Mallarmé. Con un linguaggio colto e raffinato, realizza opere originali, intrecciando tradizioni occidentali e orientali. L’estroso bassorilievo policromo, Siate misteriose, esposto a Bruxelles nei primi anni Novanta, ebbe però scarso successo perché considerato troppo vicino all’arte popolare negra. A difenderlo ci fu il critico Albert Aurier nel suo articolo «Le Symbolisme en peinture» pubblicato sul Mercure de France nel marzo 1891: «Come descrivere il legno scolpito, Siate misteriose, che canta le pure gioie dell’esoterismo, le conturbanti carezze dell’enigma, le fantastiche fronde ombrose delle foreste...?». I simboli della vita e della morte sono nei due volti che accompagnano il nudo di schiena, identificati dai colori blu (morte), rosso (vita). Ancora più suggestivo il dipinto Parole del diavolo del 1892, che raffigura una giovane donna tahitiana mentre si copre il pube con un panno bianco e guarda con la coda dell’occhio il Maligno alle spalle.
Anche Munch, dopo un primo periodo naturalista, decise di esprimere in pittura le proprie sensazioni ed emozioni, attraverso colori esasperati e linee forti. La Malinconia (Sera) del 1892 è fatta di grandi macchie di colore: sono le rocce di un desolato e fantastico paesaggio marino, in cui un uomo, di spalle, all’angolo destro della tela, mugugna, forse ingelosito dalle due figure lontane. Una delusione sentimentale? Dell’artista stesso?

LA MOSTRA: «Il Simbolismo. Da Moreau a Gauguin a Klimt», Ferrara, Palazzo dei Diamanti, sino al 20 maggio 2007. Informazioni e prenotazioni: 0532.244949
«Il Giornale» del 23 aprile 2007

Per noi donne immigrate una conquista a lungo attesa

La Carta dei valori dell'integrazione
di Souad Sbai
È stata presentata ieri dal ministro degli Interni Giuliano Amato la Carta dei valori, importante banco di prova per i rappresentanti musulmani facenti parte della Consulta islamica. Tantissimi e di estrema importanza i temi in questione, ma alcuni in particolare hanno suscitato la piena adesione della maggioranza della Consulta e della Comunità delle donne marocchine.
Il documento ha chiarito alcuni punti che a noi, donne del Marocco, stavano particolarmente a cuore come quello inerente il riconoscimento dell'uguaglianza tra l'uomo e la donna, e dunque il godimento di pari diritti tra coniugi, il "no" alla poligamia, la necessità della conoscenza della lingua italiana per l'ottenimento della cittadinanza italiana. E ancora, la condanna di ogni discriminazione razziale, sessuale e religiosa, il riconoscimento all'interno della coppia di pari potestà educativa, ferma restando la libertà di pensiero dei figli e la libera scelta religiosa per qualsiasi individuo.
Vogliamo tuttavia considerare il raggiungimento di questo risultato non come un punto di arrivo, ma come la partenza per l'ottenimento di ulteriori traguardi. Se il ribadire concetti come l'uguaglianza tra uomo e donna e il "no" ai matrimoni poligamici può apparire come un atto scontato, chi ha partecipato alle riunioni della Consulta può ben capire come niente di tutto questo sia, in realtà, mai stato considerato ovvio. Le opposizioni in merito all'approvazione del testo ci sono e continueranno ad esserci ma il fatto che, una volta per tutte, questi ed altri temi fondamentali siano stati messi nero su bianco e precisati in un testo ufficiale, in maniera tale da evitare qualsiasi fraintendimento o arbitraria interpretazione, è di estrema importanza, soprattutto per quelle donne, marocchine e no, che quotidianamente vivono l'inferno dei matrimoni poligamici imposti e della totale assenza di diritti. La Carta dei valori dà nuovamente coraggio alle donne che lo avevano perso, a tutte coloro che si ritrovano in balia di un illegale potere patriarcale e che avevano bisogno di una decisa presa di posizione da parte delle Istituzioni italiane. È pensando a tutte loro che possiamo affermare: oggi una battaglia è stata vinta. Ma, ribadiamo, questo è solo l'inizio, ci sono altri obiettivi sui quali lavorare ancora.
La nostra battaglia continuerà anche a prescindere dalla Consulta, e si concentrerà su altre questioni di estrema rilevanza come quella riguardante il controllo sulle scuole islamiche, nelle quali deve prevalere l'insegnamento della lingua italiana come punto fondamentale per formare cittadini e uomini consapevoli; e ancora sul controllo delle moschee e dei loro finanziamenti e sull'adeguata preparazione di figure importanti come gli imam. Ci auguriamo in ogni caso che da oggi sia più chiaro per tutti (anche se si parla di concetti già ben specificati dalla Costituzione italiana) che le donne immigrate devono avere gli stessi doveri e godere degli stessi diritti delle donne italiane; da oggi potranno sentirsi più protette anche a livello legale, poiché le istituzioni giuridiche avranno un testo di riferimento in più quando si troveranno ad affrontare materie controverse come quella dei matrimoni poligamici in Italia.
«Avvenire» del 24 aprile 2007

Una strana alleanza durata un Ventennio

Fu quello fascista un vero totalitarismo? Secondo Croce e Volpe fu piuttosto una diarchia autoritaria, un compromesso storico tra Mussolini e la monarchia
di Eugenio Di Rienzo
Con il termine di Stato totalitario si indica un sistema politico che, in assenza di forze contrastanti o concorrenti con la sua azione, è in grado di dominare in modo incondizionato e terroristico sugli individui e sulla società. In Italia, questa definizione venne applicata, per la prima volta, alla rivoluzione fascista da Giovanni Amendola, che nel 1923 parlò dello «spirito totalitario» che aveva contraddistinto la sua ascesa al potere. Con il discorso di Mussolini del giugno 1925, in cui il fascismo veniva esaltato per la «sua feroce volontà totalitaria», la dittatura strappava il monopolio di questo termine all’opposizione, offrendo un forte pretesto alla storiografia del secondo dopoguerra per definire lo Stato fascista come uno Stato totalitario, in buona parte analogo al regime sovietico e a quello nazionalsocialista.
Croce invece rifiutava la qualifica di totalitarismo al governo personale di Mussolini, riservandola al solo sistema politico dell’Urss. Dello stesso avviso era anche Gioacchino Volpe che, nella sua Storia del movimento fascista del 1939, preferiva parlare di «Stato forte», contraddistinto dalla «diarchia» tra le prerogative politiche di Vittorio Emanuele III e quelle di Mussolini, nonostante l’istituzione, nel dicembre 1928, del Gran Consiglio del fascismo, a cui furono attribuite molte fondamentali competenze di politica estera e internazionale, fino a quel momento riservate alla corona. Ancora alla fine degli anni Trenta, Volpe sosteneva che l’Italia era retta da un «governo a doppio comando», da una sorta di «matrimonio d’interesse», con «letti rigorosamente separati», tra Duce e Re.
Per tutto il ventennio, il problema della diarchia non ricevette mai una precisa definizione giuridica pienamente favorevole al fascismo, neanche in quegli intellettuali che più si sforzavano di equiparare il cesarismo autoritario di Mussolini al totalitarismo hitleriano. Invano, Ugo Spirito proponeva, nel 1941, l’ipotesi di un «ducismo integrale», nella convinzione che non si potesse concepire un «regime totalitario che ne prescinda». Né aveva trovato accoglienza migliore la proposta di Bottai, nel 1938, che significativamente aveva pensato di tagliare il nodo gordiano dei due poteri concorrenti, concentrando l’assoluta sovranità nella figura del monarca, non più «legato alla lettera di leggi e costituzioni».
Avrebbe tracciato il bilancio di questo fallimento della via italiana al totalitarismo proprio Mussolini, che, al tempo si Salò, definì la Marcia su Roma come un’occasione mancata. Essa non fu sicuramente una «semplice crisi di Governo, un normale cambiamento istituzionale». u sicuramente un’insurrezione «che però non sboccò in una vera e propria rivoluzione, che si ha solo «quando si cambia con la forza non il solo sistema di governo, ma la forma istituzionale dello Stato». Quando, il 31 ottobre del 1922, «le camicie nere marciarono per le vie di Roma, fra il giubilo acclamante del popolo, vi fu un piccolo errore nel determinare l’itinerario: invece di passare davanti al Palazzo del Quirinale, sarebbe stato meglio penetrarvi dentro».
La «svista» di allora, continuava Mussolini, avrebbe determinato la controrivoluzione del 25 luglio 1943. Per tutta la sua durata, infatti, «il fascismo, generoso e romantico come fu nell’ottobre del 1922, ha scontato l’errore di non essere stato totalitario sino alla vetta della piramide e di aver creduto di risolvere il problema con un sistema che, nelle sue applicazioni storiche remote e vicine, ha palesato la sua natura di difficile e temporaneo compromesso». In questo modo, «la Rivoluzione fascista si fermò davanti ad un trono». Quella scelta sbagliata, che parve allora «inevitabile», determinò alla lunga la fine del regime, e permise a Vittorio Emanuele di compiere la sua «vendetta», quando il «complesso fascista» collassò, con il «corso sfortunato delle operazioni militari», che determinò la sconfitta italiana nel secondo conflitto mondiale.
«Il Giornale» del 18 aprile 2007

La storia imbavagliata

Dal negazionismo sulla Shoah al recente caso Toaff, quale libertà d'espressione per gli storici? Se ne parla a Teramo
di Antonio Giuliano
Angelo D’Orsi: «Nel caso di Ahmadinejad l’estremismo arriva all’invenzione. Ma politica e mass media monopolizzano il dibattito, emarginando gli studiosi». Domenico Losurdo: «Non è il tribunale il luogo in cui accertare la verità storica». Alessandro Barbero: «Su "Pasque di sangue" troppa timidezza degli storici. È un bene invece che si parli di più delle foibe»
Poche storie. Tra crimini negati, genocidi taciuti, libri messi al bando, oggi gli storici hanno il loro bel da fare. Perché «historia testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae est» (La storia è testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra di vita) diceva Cicerone nel suo De oratore. Ma forse il filosofo latino si illudeva. Di quale storia parlava? Di certo non quella divulgata da qualche manuale scolastico piegato a fini ideologici e tanto meno a quella raccontata dal presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad… Cicerone pensava probabilmente a un ramo nobile del sapere, affidato a studiosi competenti e scrupolosi. Oggi, però, è ancora ascoltata la voce degli storici di professione? Che cosa pensano costoro delle recenti tesi negazioniste sulla Shoah o del caso Toaff? Come li spiegano in relazione al diritto della libertà di ricerca e di opinione? Se ne discute oggi a Teramo nel convegno organizzato dall'ateneo abruzzese su "La storia imbavagliata", cui intervengono fra gli altri Adolfo Pepe, Angelo D'Orsi, Alessandro Barbero, Enrico Fasana, Domenico Losurdo, Claudio Moffa, Emanuela Irace. L'evento, che si conclude domani, ha per oggetto di studio particolare il Medio Oriente e l'Olocausto.
«Bisogna distinguere innanzitutto tra un uso pubblico e un abuso politico della storia - afferma Angelo D'Orsi, docente di Storia delle dottrine politiche all'Università di Torino - Anche se c'è il rischio di banalizzazioni, la storia esca dai luoghi deputati, l'università o i centri di ricerca: è un diritto di tutti conoscerla. Negli ultimi anni però gli storici sono stati espulsi dal dibattito pubblico e rimpiazzati da politici o giornalisti. La storia viene sempre più usata come un grande supermercato in cui prendere solo ciò che fa comodo. Nel caso di Ahmadinejad l'estremismo e l'abuso politico arrivano all'invenzione...». Sulle contromisure D'Orsi è netto: «Non credo che la risposta ai negazionisti sia la via giudiziaria. Sebbene vi sia questa tendenza in Europa, ritengo che vadano affrontati in ambito scientifico». Concorda Domenico Losurdo, docente di Storia della filosofia ad Urbino: «Pur criticando nettamente le posizioni di uno storico negazionista della Shoah come David Irving, condanno la prigione che gli è stata imposta. Non è il tribunale il luogo in cui si accerta la verità storica». Secondo Losurdo la prospettiva è più ampia: «Io parlerei di negazionismi. Accanto all'infamia dei tentativi di negare l'orrore della soluzione finale, non dimentichiamo quelli negli Stati Uniti sulla decimazione dei pellerossa o sulla schiavitù dei neri. Oppure in Europa la tragica vicenda degli Armeni, agli inizi del Novecento, forse il primo esempio di genocidio». Quanto al negazionismo di Amhadinejhad: «Il suo e quello di altri personaggi del mondo arabo è un tentativo infelice e maldestro di richiamare l'attenzione sulla situazione palestinese. Stiamo però attenti - aggiunge Losurdo - a non passare dal giusto risarcimento morale che chiedono le vittime, gli ebrei o gli armeni, ad una politica della colpa. Penso in passato all'Unione Sovietica che aveva subito i crimini del nazismo, ma accusava di anti-sovietismo quelli che criticavano l'invasione cecoslovacca. Il credito che aveva acquisito come vittima cercava di usarlo per giustificare politiche da condannare: vale oggi per tutti i paesi del mondo, compreso Israele».
Ha fatto molto discutere in questi mesi Pasque di sangue, il libro dello storico Ariel Toaff, poi ritirato dal mercato per le accese reazioni. Alessandro Barbero, docente di Storia medievale presso l'Università del Piemonte Orientale a Vercelli, taglia corto: «Il libro di Toaff, giudicato con criteri scientifici, è sbagliato perché non riesce a dimostrare la sua tesi. Mi spaventano però quanti hanno detto che Toaff è un furfante e su quest'argomento non bisognava discutere. Ma gli storici professionisti, anche criticandolo, non si sono espressi così». Rimane un libro ritirato dal co mmercio in un paese libero... «È davvero un brutto episodio anche se è stato Toaff a deciderlo. Credo possa essere un caso di "storia imbavagliata" se pur molto diverso rispetto alle condanne per i negazionisti. Intravedo un rischio: che presto sia il legislatore a decidere se un libro di storia debba essere pubblicato». Barbero però ammette: «Penso ci sia stata troppa timidezza di noi storici su Toaff, anche per la difficoltà di difendere un libro che non funziona per il metodo non per il tema. E poi perché sul mondo ebraico siamo giustamente molto sensibili». E sul futuro: «I mass media non amplifichino posizioni provocatorie e palesemente assurde come sull'Olocausto. Poi non so, oggi, quanta attenzione ci sia alla storia nelle scuole: permane una dipendenza dalla politica. Anche se è un bene che si parli di più delle foibe ad esempio».
D'Orsi è più autocritico: «Come diceva Marc Bloch, la storia va difesa dai nemici esterni, i mestieranti, ma anche da quelli interni, gli storici pressappochisti. Il dovere di uno storico è lavorare per la verità: anche se si trovano documenti che non collimano con le proprie idee. Oggi gli storici sono poco considerati, ma mi preoccupa di più che non si percepisca la storia come un elemento essenziale per cementare la comunità».
«Avvenire» del 18 aprile 2007

Gramsci doppia gabbia

Nuovi documenti svelano il ruolo ambiguo dell’amico Sraffa incaricato dal partito di visitarlo in carcere e di fargli digerire le decisioni più amare
di Mirella Serri

E’ un uomo che per la sua condizione di detenuto, non avendo nessun controllo sugli eventi ed essendo del tutto separato dalla sua famiglia, sta certamente vivendo una tragedia... Le angosce interiori causate dall'assenza di lettere da parte di Julija hanno ferito profondamente l'animo di questa persona». Parole dosate con il bilancino, queste contenute nella lettera fino a oggi inedita di Tania Schucht. Ma ben rivelano la sofferta condizione di carcerato del regime di Mussolini in cui si trovava il cognato, Antonio Gramsci, sottoposto nella sua corrispondenza a un doppio sguardo occhiuto: della censura in camicia nera e di quella con falce e martello.
Lo sguardo censorio e spione sul capo carismatico del Pcd'I si esercitò non solo attraverso mille pressioni sui famigliari come la moglie Giulia, che risiedeva in Unione Sovietica, ma anche tramite inaspettati mediatori: come l'economista Piero Sraffa, per decenni considerato il più «grande amico», l’affettuoso confidente nel periodo dell'atroce agonia vissuta dietro le sbarre. A offrirci queste rivelazioni sull'ambiguo ruolo dell’uomo delegato a tenere i contatti fra il prigioniero e Togliatti è la dettagliata ricostruzione di Angelo Antonio Rossi e Giuseppe Vacca in Gramsci tra Mussolini e Stalin (ed. Fazi). Attraverso una ricca messe di documenti mai pubblicati, i due studiosi rimettono a posto tanti tasselli nell'intreccio di delatori e inquietanti intermediari che si occuparono dell’autore dei Quaderni del carcere, di cui il 27 aprile ricorrono i 70 anni dalla morte.
Sraffa, il taciturno e riservato bibliotecario del King's College di Cambridge, lo studioso di Marx e di Keynes, è stato per molto tempo personalità assai misteriosa, inavvicinabile e parca di dichiarazioni. Nipote di Mariano D'Amelio, presidente della Corte di Cassazione, figlio di un pezzo grosso della massoneria e della Banca Commerciale, si era fatto benvolere dai bolscevichi italiani «offrendo», come ricorda Gramsci, «molto materiale su questioni riservate attinto al dossier di suo padre». Vacca stesso racconta di come, approdato a Mosca per studiare gli archivi del Comintern, abbia trovato completamente vuoto il faldone che avrebbe dovuto contenere l'incartamento dedicato all'economista. Qualcuno aveva voluto mantenere assolutamente celato il ruolo politico di Sraffa. Dalle lettere inedite di Tania appare oggi il suo vero gioco. Fu un militante occulto del Pcd’I. Ed ebbe un compito istituzionale: teneva i fili che collegavano Gramsci al partito e li manovrava accortamente facendogli «digerire» le decisioni più amare.
Dopo l'arresto avvenuto nel 1926, quando il quadro delle trame occulte si infittiva, il creatore dell’Ordine nuovo scelse perfino di parlare in codice, citando Dante e Croce, per andare oltre il controllo dei suoi aguzzini ma anche per attaccare Togliatti e Stalin. Sono gli anni in cui Mussolini e il successore di Lenin sanno di avere in Gramsci - finito nel novero degli antagonisti del dittatore sovietico per averlo criticato - una preziosa merce di scambio. Il duce era interessato a una trattativa per liberarsi di un prigioniero assai scomodo ma il Piccolo Padre sovietico se lo giocava come una pallina su un tavolo da ping-pong, cercando di rinviare un'eventuale scarcerazione.
Nel frattempo cresceva la «rete» - ma sarebbe meglio dire il muro - che separava Gramsci da ogni contatto con il mondo esterno. Giulia, la moglie, era stata arruolata nei ranghi dell’Nkvd e proprio in quanto facente parte del feroce apparato di polizia sovietico era sottoposta a vincoli severissimi. Tania, che aveva il permesso di visitare il detenuto, a volte si comportava in modo per Gramsci avventato e superficiale. Restava Sraffa, l'«amico», che aveva aperto un conto in libreria per Gramsci perché potesse avere tutti i volumi che desiderava. Toccava, però, proprio a lui l'amara incombenza di giustificare le lungaggini decisionali, le incertezze - difficile dire se intenzionali o meno - che il partito opponeva a ogni necessità di Gramsci e che condizionarono ferocemente la sorte del leader, persino quando si ritrovò gravemente ammalato. La richiesta del ricovero in una casa di cura, passata attraverso i filtri di Sraffa e di Togliatti, subirà tante lentezze da condurlo rapidamente alla morte.
Gramsci lucidamente aveva capito assai presto la sua condizione. Era finito rinchiuso in una doppia gabbia. «Io sono sottoposto a vari regimi carcerari» aveva scritto in una lettera a Tania. «C'è il regime carcerario costituito dalle quattro mura, dalla grata, dalla bocca di lupo \. Quello che da me non era stato preventivato era l'altro carcere \. Potevo preventivare i colpi degli avversari che combattevo ma non potevo preventivare che dei colpi sarebbero arrivati da altre parti».
A 70 ANNI DALLA MORTE
Antonio Gramsci nasce il 22 gennaio 1891 ad Ales, in Sardegna. A tre anni, per una caduta, inizia a soffrire di una malformazione alla schiena che non lo abbandonerà più.

27 ottobre 1911
Vince una borsa di studio al Collegio Carlo Alberto di Torino, dove studia Lettere e Filosofia, si iscrive al Partito Socialista e si dedica all’attività giornalistica.

1° maggio 1919
Esce il primo numero dell’Ordine nuovo: Gramsci è il segretario di redazione e l’animatore della rivista, schierata su posizioni operaiste e polemiche con il socialismo riformista.

21 gennaio 1921
Fondazione del Partito comunista. Gramsci fa parte del Comitato centrale. In missione a Mosca, conosce e sposa nel ‘23 Giulia Schucht, da cui avrà due figli: Delio e Giuliano.

12 maggio 1924
Eletto deputato, siede in Parlamento. Terrà il suo primo e unico discorso il 26 maggio 1925.

8 novembre 1926
Viene arrestato e, il 4 giugno ‘28, condannato a vent’anni di carcere.
«La Stampa» del 24 aprile 2007

Armeni, l’identità ritrovata

Ogni 24 aprile almeno un milione di Armeni da tutto il pianeta va a a deporre mazzi di fiori rossi sulla «collina delle rondini», sopra Erevan; è il giorno della memoria dello sterminio di altrettanti Armeni, all'inizio del secolo scorso. Anche se il loro piccolo popolo attende ancora giustizia dal mondo
di Antonia Arslan
Dopo decenni di censure e incomprensione, le vittime della prima strage del ’900 sono tornate ad esistere. Non sono più fantasmi per la coscienza internazionale, ne parla il film dei fratelli Taviani (appena uscito anche negli Usa) e giornali autorevoli insorgono quando l’Onu blocca per ragioni «politicamente corrette» una mostra che cita la loro tragedia
New York, aprile 2007, sede delle Nazioni Unite. È programmata una mostra sul genocidio del Ruanda, uno dei più terribili eventi genocidari del Ventesimo secolo, a cura di un’organizzazione che si occupa di questi temi. Tutto è pronto per l’inaugurazione formale, quando un diplomatico turco va a vedere i pannelli predisposti, e in uno di questi legge un breve accenno, solo una frase, alla tragedia degli armeni: «Dopo la prima guerra mondiale, durante la quale un milione di armeni furono uccisi in Turchia…». Basta questo per scatenare l’immediata furibonda reazione dell’Ambasciata di Turchia, in seguito alla quale Kiyotaka Akasaka, un funzionario dello staff del nuovo segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, si affretta a bloccare la mostra, la cui inaugurazione viene rimandata a data da destinarsi, evidentemente per dare il tempo agli organizzatori di eliminare la frase incriminata, cancellando una volta di più l’emergere, perfino come allusione in un pannello, della temibile «questione armena». La quale peraltro dalla stessa organizzazione dell’Onu è conosciuta benissimo, se non altro perché, per definire il crimine di genocidio, furono proprio le Nazioni Unite ad adottare nel 1948 questo termine, appena coniato dal giurista ebreo polacco Raphael Lemkin, proprio in relazione ai due grandi genocidi della prima metà del secolo scorso: quello del suo popolo, la Shoah, e quello degli armeni, come Lemkin stesso sostenne in diverse occasioni, fra cui in un’eccezionale intervista televisiva del 1949, recentemente riscoperta e ritrasmessa negli Stati Uniti. Purtroppo, a simili oltraggiose discriminazioni gli armeni sono abituati da sempre, da quando, dopo il Trattato di Losanna del 1923, all’immensa tragedia subita si aggiunse, per i superstiti, la beffa del silenzio, e un’indifferenza così totale da rendere le loro voci inascoltate, come quelle di inoffensivi, trasparenti fantasmi, se solo provavano a parlare. Così per decenni essi tacquero, e la loro identità di popol o rimase pubblicamente ignorata, più ancora che negata, soprattutto nei Paesi, come l’Italia, dove i flussi migratori erano stati esigui. Ma in tutto il mondo gli armeni erano tollerati solo se si assimilavano o mimetizzavano: persone umili e adattabili, che per farsi accettare cominciavano a dare nomi occidentali ai loro bambini, a frequentare le chiese di rito latino, crescendo i loro figli all’interno della cultura che li aveva accolti, e di conseguenza spesso perdendo perfino la lingua dei padri, che pure era una lingua con una storia straordinaria, un alfabeto originale, una tradizione scritta culturale e letteraria che risaliva al V secolo d.C. Cosa è cambiato oggigiorno? Come mai oggi i discendenti di quei poveri sopravvissuti portano con orgoglio la loro riscoperta armenità? Com’è che il 13 aprile, pochi giorni dopo l’episodio di censura all’Onu, il New York Times dedicava alla vicenda un editoriale durissimo, in cui stigmatizzava l’inesperienza del nuovo segretario generale e del suo team, quando proprio alle Nazioni Unite si suppone che dovrebbe essere affidata la realizzazione di una legge internazionale sui genocidi? E come mai in un’intervista rilasciata qualche giorno dopo al Corriere della Sera, a una precisa domanda della giornalista sul caso della mostra sospesa, Ban Ki-moon rispondeva con qualche impaccio che era stata «rimandata per problemi tecnici», ma che presto sarebbe stata annunciata la data di apertura, e che affrontare le questioni relative ai genocidi è una questione di principio per le Nazioni Unite? Il fatto è che gli armeni sono tornati ad esistere. La gente sa che ci sono, sa che hanno perso la loro patria antica, i loro campi, le loro case, le loro chiese, la loro cultura. Un popolo di fantasmi ha ritrovato la vita. Nel loro film appena uscito, La Masseria delle Allodole, i fratelli Taviani, sviluppando uno spunto appena accennato nel mio libro, ambientano la scena finale durante i processi di Costantinopoli che stabilirono le respo nsabilità del governo dei Giovani Turchi nell’eccidio della popolazione armena d’Anatolia. E la frase finale che compare sullo schermo è: «Il popolo armeno aspetta ancora giustizia». È una consapevolezza crescente, anche se ancora fragile, che il dolore di quella ferita negata, e ancora aperta, comincia ad essere condiviso. Sottili fili s’intrecciano intorno al mondo, e ogni 24 aprile la data della commemorazione vede insieme agli armeni schierarsi una presenza sempre crescente di persone convinte che credere nella sopravvivenza di questo piccolo popolo vuol dire combattere contro i pregiudizi razziali e religiosi che hanno avvelenato il Novecento: al monumento sulla «Collina delle Rondini» sopra Erevan in quel giorno almeno un milione di persone da tutto il mondo va a deporre mazzi di fiori rossi. Ma più forte di ogni gesto simbolico è per gli armeni sparsi per il vasto mondo la sensazione di non essere più soli, e dimenticati: la percezione del calore dell’umana comprensione li ha finalmente convinti a perdonarsi di essere sopravvissuti.

«Avvenire» del 22 aprile 2007

Voip: la voce senza più padrone

Si moltiplicano i siti Internet che permettono di telefonare attraverso il Web e di fare a meno delle compagnie telefoniche. Totalmente gratis le chiamate via Adsl verso altri utenti connessi, a costi fortemente ridotti quelle verso i cellulari. Una rivoluzione già in atto
di Piero Chinellato
La rivoluzione del Voip. Non essere più perseguitati all’ora di pranzo o di cena da chi vuole proporre l’ennesima-definitiva-straordinaria tariffa per risparmiare sul telefono: ci sono cose che non hanno prezzo, per tutto il resto d’ora in poi i grandi operatori di telefonia dovranno fare i conti col Voip. Confusi? Presto chiarito: Voip è l’acronimo dell’espressione inglese «Voice over Internet protocol» ed è il termine che definisce la tecnologia per trasmettere la voce via Internet e non più tramite la normale (finora) linea telefonica. Il vantaggio dal versante dell’utente è essenzialmente economico: Internet permette una drastica riduzione dei costi, azzerando il significato di espressioni come "chiamata interurbana" o "telefonata internazionale". Fino a poco tempo fa l’uso di questa tecnologia era appannaggio quasi esclusivo dei grandi operatori nazionali i quali l’hanno sfruttata per ridurre i propri costi. Adesso però questa possibilità sta raggiungendo le nostre case, rendendo accessibili nuovi servizi e, soprattutto, assicurando risparmi considerevoli.
Come fare. Condizione preliminare per potersi avventurare nel mondo del Voip è un collegamento ad Internet tramite Adsl, la cosiddetta "banda larga". Per iniziare poi basta scaricare un programma gratuito (www.skype.com, www.wengo.net, www.justvoip.com …): si parla col microfono di solito incorporato alla webcam e si ascolta attraverso le casse del computer. Se si conosce qualcun altro che usa il medesimo programma, basta recuperare il nome con cui è registrato (facendoselo comunicare dall’interessato o cercandolo in rete attraverso le funzioni messe a disposizione dai programmi). Si può quindi vedere quando è collegato, e mettersi in comunicazione con lui - gratis, ovviamente - con un semplice doppio click del mouse. Ma è possibile anche chiamare i telefoni normali, sia di linea fissa che cellulari, pagando per i primi niente (proprio così: 0 centesimi, senza neppure lo scatto alla risposta) o pochissimo, mentre i cellulari comportano costi più elevati e diversificati tra i vari operatori, per cui è sempre consigliato informarsi prima. Il credito si acquista online con la carta di credito; il taglio abituale delle ricariche è 10 euro.
Possibilità. Assaggiata la possibilità di parlare quanto ci pare, gratis o per pochi spiccioli, con la vecchia zia emigrata 50 anni fa a Buenos Aires, col figlio che sta studiando a Barcellona grazie all’Erasmus o con gli amici di ogni parte del mondo conosciuti alla Gmg (magari in videoconferenza), ecco nascere il desiderio di fare qualcosa di più. Converrà anzitutto acquistare un auricolare con microfono, che farà parlare più comodamente e senza rimbombi, o un telefono vero e proprio - spesa intorno ai 20 euro - da collegare a una porta Usb del computer (quelle di solito usate per stampanti, pennette…). Ma non è finita: oramai è possibile, anche per gente normale e non solo per i maghi dei pc, cancellare del tutto la telefonia normale - e quindi non pagare più alcun canone - migrando completamente in Voip e addirittura mantenendo il proprio numero attuale e usando i telefoni normali di casa, anche cordless, a computer spento. Il passaggio completo viene a costare una tantum tra i 200 e i 400 euro, a seconda dei prodotti e del modem scelto, un costo che si ripaga mediamente in meno di un anno se si somma il risparmio sul canone con la possibilità di usufruire di tariffe considerevolmente più convenienti.
Liberi. Cosa è necessario fare? Innanzi tutto è indispensabile informarsi. Lo si può fare sui siti dei fornitori (www.ngi.it; www.skypho.net; www.messagenet.it; HYPERLINK "http://www.vira.it/" www.vira.itHYPERLINK "http://www.ehiweb.it/" ...) e sul newsgroup it.tlc.telefonia.voip; ci si potrà così rendere conto della propria capacità di gestire il passaggio e cominciare a familiarizzarsi con la materia. Il passo successivo sarà chiedere l’installazione di una linea Adsl "solo dati", dando la preferenza a chi garantisce adeguata "b anda minima" (cioè che la qualità del collegamento sarà sempre accettabile). Quando la linea sarà attiva - tempo: da un paio di settimane a un paio di mesi - potremo collegare al router una scatoletta (in gergo "Ata") in cui inserire gli spinotti dei nostri telefoni normali (anche cordless). Questi per funzionare dovranno disporre di un numero Internet fornito dai siti sopra citati, sul quale, volendolo, sarà poi possibile attivare la "number portability", far cioè trasferire il nostro numero in elenco, eliminando ogni rapporto con l’operatore telefonico tradizionale. Ma non è finita qui. La versatilità del digitale consente ancora di più, ad esempio di effettuare più chiamate simultanee, di avere più numeri configurati sul medesimo apparato, con prefissi telefonici diversi, anche esteri. Un giovane che, ad esempio, lavora a Milano (o a Londra, Toronto...), può avere un numero con prefisso di Lecce e la madre anziana, non avvezza alla tecnologia, chiamarlo a questo numero pagando solo la telefonata urbana. Ciascun telefono poi può collegarsi a un centralino telefonico Internet (es.: www.pbxes.com) che consente - anche nella versione gratuita - di configurare reti di telefoni che rendono "interni", apparecchi di gente che vive ai quattro lati del mondo, con risponditori, suonerie, trasferimento di chiamata e tanto altro. E siamo solo all’inizio.
«Avvenire» del 22 aprile 2007

Il nuovo codice Gramsci: ecco i segreti del Pci

Angelo Rossi e Giuseppe Vacca rileggono in un saggio il dramma del leader prigioniero
di Antonio Carioti
Citava Dante per criticare Togliatti ed Erasmo contro Stalin
Che c’entrano Silvio Spaventa, Erasmo da Rotterdam e il canto X dell’Inferno di Dante con le traversie del Partito comunista durante il fascismo? Apparentemente nulla. Ma pare che Antonio Gramsci, dal carcere di Turi, utilizzasse simili allusioni in codice, nelle lettere inviate alla cognata russa Tania Schucht, per comunicare con i compagni, in particolare con Palmiro Togliatti. Lo sostengono Angelo Rossi e Giuseppe Vacca in un libro edito da Fazi, Gramsci tra Mussolini e Stalin (pp. 246, 18), che getta nuova luce sulla prigionia del pensatore sardo e uscirà il 27 aprile, nel settantesimo anniversario della sua morte. L’autore dei Quaderni del carcere resta un riferimento importante non solo per i Ds, che gli renderanno omaggio in apertura del prossimo congresso, ma per larga parte della sinistra internazionale, come dimostrano le iniziative previste in tutto il mondo, da Pechino a Buenos Aires passando per Berkeley, in occasione di questo anniversario, che coincide con l’uscita del primo volume dell’edizione nazionale delle opere gramsciane. Il saggio di Rossi e Vacca parte da una vicenda cruciale nella storia del Pci: il dissidio esploso tra i due massimi dirigenti nell’ottobre 1926, quando Gramsci rivolse pesanti critiche a Stalin e Togliatti, allineato con Mosca, si dissociò nettamente da lui. In seguito i due leader comunisti non ebbero più contatti diretti, anche perché Gramsci fu arrestato subito dopo. Ma Rossi e Vacca ritengono che nelle sue lettere dalla prigione vi siano «riferimenti letterari» densi di significato politico, anche se «percepibili soltanto da intelletti allenati a cogliere le sottili sfumature del suo linguaggio». Una sorta di «codice Gramsci», non impossibile da decifrare. Ecco qualche esempio. Nel gennaio del 1930 il detenuto di Turi ricorda in una lettera il caso di Silvio Spaventa, patriota rilasciato nel 1859 dalle carceri borboniche grazie alle insistenze francesi e britanniche: suona come «un suggerimento al partito perché prema sul governo sovietico al fine di ottenere la sua liberazione». Sempre nel 1930, in dicembre, Gramsci parla della critica di Benedetto Croce al marxismo dogmatico e la paragona al modo in cui Erasmo deplorava le asprezze di Lutero: qui Rossi e Vacca leggono un invito a Togliatti perché dia all’azione del partito un respiro culturale alto, al di sopra delle pur inevitabili semplificazioni del Comintern staliniano, in modo da propiziare, come seppe fare la Riforma protestante, la nascita di una civiltà socialista nel solco della più raffinata tradizione europea. Poi ci sono le riflessioni sul canto X dell’Inferno, datate settembre 1931, con il richiamo ai due protagonisti Farinata degli Uberti, che fiero «s’ergea col petto e con la fronte», e Cavalcante dei Cavalcanti, molto più umanamente in assillo per la sorte del figlio Guido. Vacca e Rossi ritengono fosse una metafora usata da Gramsci per deplorare l’andamento del IV Congresso del Pci, tenuto mesi prima a Colonia, in cui lui stesso era stato celebrato come un’icona eroica, una specie di Farinata comunista. Invece il suo stato d’animo si avvicinava piuttosto a quello di Cavalcante, in apprensione per il partito, «la sua creatura presa nella morsa della repressione fascista e dell’avventurismo del Comintern», così come il personaggio dantesco era preoccupato per il figlio. Altri riferimenti riguardano sette lettere gramsciane del 1932 sul pensiero di Croce, in cui si possono cogliere indicazioni sul problema dell’egemonia che pare abbiano destato in Togliatti un notevole interesse. Ma il fatto che tra i due leader comunisti proseguisse un confronto a distanza risulta confermato anche da un importante inedito pubblicato in appendice al libro: il rapporto scritto per il partito dal fratello di Gramsci, Gennaro, dopo i colloqui avuti con il prigioniero a Turi, nel giugno 1930. Il testo, ritrovato da Silvio Pons negli archivi di Mosca, dimostra come il pensatore sardo, malgrado la lunga reclusione, «seguisse da vicino le vicende politiche italiane e mondiali». Infatti Antonio, parlando con Gennaro, esprime chiaramente il suo dissenso rispetto alla «svolta» decisa dal Comintern nel 1929, cui il Pci si era con riluttanza accodato. Quella nuova linea prevedeva un forte inasprimento dello scontro di classe in vista di uno sbocco rivoluzionario a breve termine. Invece Gramsci dichiara al fratello di non credere «che la fine sia così vicina». E aggiunge: «Anzi, ti dirò, noi non abbiamo ancora visto niente, il peggio ha da venire». Al rapporto si aggiunge una memoria riservata dello stesso Gennaro, in cui si affronta un tema delicatissimo, la lettera spedita nel 1928 a Gramsci, già detenuto, da un alto dirigente del partito, Ruggero Grieco, e intercettata dalla polizia fascista. Il leader sardo riteneva che quel documento, mostratogli con atteggiamento malizioso dal giudice istruttore Enrico Macis, lo avesse gravemente danneggiato. E lo dichiara al fratello: «Sono convinto che tale lettera è stata per me il più grave capo d’accusa». Si è detto che Gramsci deprecò la missiva di Grieco perché da essa traspariva il suo ruolo di leader del partito e quindi ne sarebbe risultata aggravata la sua posizione processuale. Ma Rossi e Vacca smentiscono tale interpretazione sulla base di un altro inedito, una lettera di Tania Schucht alla sorella Giulia, moglie di Antonio, del 9 febbraio 1933. Ne risulta che Gramsci era persuaso che la mossa di Grieco avesse fatto saltare una trattativa per la sua liberazione tra il governo fascista e quello sovietico. Egli pensava di poter uscire dal carcere solo in base a un negoziato «fra Stato e Stato», cioè tra Italia e Urss, senza alcuna partecipazione del Pci, che certo Mussolini non intendeva legittimare. Invece la lettera pareva sottintendere un contributo attivo del partito: «Tutto quello che ci è stato chiesto, per te, noi lo abbiamo fatto, sempre», scriveva Grieco. Gramsci giudicava quelle parole «un atto scellerato» o «una leggerezza irresponsabile». Ed era convinto di averne pagato le spese.
«Corriere della sera» del 15 aprile 2007

Tasso, Ariosto e i rifacimenti

Il problema delle edizioni critiche
di Cesare Segre
Quando si possiedono più redazioni d’autore di un’opera, si tende a preferire l’ultima, dato che essa rappresenta il culmine dell’elaborazione. Ma in un caso almeno si è fatta la scelta opposta: si legge la Gerusalemme liberata del Tasso, e pochi si dedicano alla Gerusalemme conquistata, che ne è l’ultimo rifacimento. Non illustreremo i motivi di questa preferenza, generalizzata; possiamo però rifletterci sopra. L’opera, quando esce dalle mani dell’autore, è ancora colma del suo entusiasmo, illuminata dalla sua ispirazione. L’autore può poi lavorarci sopra, perfezionarla, arricchirla; ma fa, in genere, un lavoro di letterato. In una polemica ormai lontana, s’erano voluti distinguere i critici gerontofili, portati a preferire i lavori ultimi degli scrittori, più rifiniti e armoniosi, e quelli gerontofobi, che preferirebbero le prime prove, più fresche e baldanzose. Senza sviluppare questa classificazione, diremo solo che il critico, in generale, deve calcolare sagacemente guadagni e perdite; e talora gli può accadere di immettere nell’ammirazione complessiva per l’ultima redazione un po’di rammarico per qualche sfumatura diventata più opaca, per qualche rimaneggiamento inopportuno. È il caso dell’Orlando furioso, stampato dall’Ariosto nel 1516, e poi rielaborato e riedito nel 1521 e nel 1532. Il poema del 1532 è molto arricchito, tanto da passare da quaranta a quarantasei canti. E ormai, quando parliamo di Furioso, è a questa redazione che alludiamo. Eppure nel secondo Novecento alcuni critici hanno già avvertito che nell’edizione definitiva le aggiunte di carattere encomiastico e gli sviluppi narrativi sono in complesso più raffinati che ispirati. E perciò si desiderava una riproduzione leggibile della prima edizione, sinora ristampata solo in un volume celebrativo quasi introvabile (Ferrara 1875) o in forma diplomatica, e perciò di ardua lettura, da parte di Filippo Ermini (1909-1911). Certo, tutte le varianti rispetto al 1532 sono registrate nell’edizione critica Debenedetti-Segre (1960); ma leggere distesamente l’opera è un’altra cosa. Ringraziamo dunque Marco Dorigatti, che ha fornito un testo leggibilissimo dell’edizione del 1516, pur con qualche arcaismo grafico che risponde al più aggiornato gusto filologico (L. Ariosto, Orlando furioso secondo la princeps del 1516, a cura di M. Dorigatti, con la collaborazione di G. Stimato, Olschki, pp. CLXXX-1074, 88). Lavoro non facile. L’Ariosto, come poi altri scrittori, sino al Manzoni, si fece editore del suo stesso capolavoro, affidandone la stampa a un onesto ma oscuro tipografo ferrarese, il Mazzocco; e continuò a correggere il testo nel corso della stampa. Dorigatti ha dunque collazionato tutti gli esemplari superstiti (dodici), e ricostruito verso per verso il testo secondo la volontà del poeta; fornendoci quello che Conor Fahy chiama «esemplare ideale». Il volume è tipograficamente stupendo. Quando uscì questo libro, il primo da lui pubblicato, il poeta aveva quarantadue anni. Era nel pieno della sua attività diplomatica (al servizio del cardinale Ippolito d’Este), che lo portò spesso a trattare, e persino a discutere, con i papi Giulio II e Leone X. Da poco era entrata nella sua vita Alessandra Benucci, sua compagna per gli anni a venire. Ammirato come autore e regista di due commedie (altre ne seguirono), l’Ariosto aveva già dato lettura a Isabella d’Este di brani del poema, per il quale c’era una grande attesa. Quando nel ‘32 apparve la redazione definitiva, l’Ariosto, cinquattottenne, era ormai un «pensionato», pur circonfuso di gloria, e vedeva le ambizioni e l’attività della sua Ferrara, e anche di tutto il mondo che aveva celebrato, in pieno declino, sotto il dominio di Carlo V. Ammalato, sarebbe morto un anno dopo. Si capisce che il poeta fosse ormai preda della depressione, come appare da alcune prove di ampliamento del poema, ad esempio i Cinque canti, escluse alla fine perché avvertite come una stonatura rispetto al resto del poema. Ma quello che caratterizza il Furioso del ‘32 è il senso di un trionfo alle luci del tramonto: quando il poema ripercorre la storia d’Italia, giustificando la politica filofrancese e antipapale degli Estensi, ormai esaurita, o quando celebra i grandi pittori e scrittori del secolo, o loda i signori più brillanti, dà l’impressione di un elogio funebre. Pochi anni prima c’era stato il Sacco di Roma, dodici anni dopo sarebbe incominciato il Concilio di Trento. L’edizione del ‘16 evoca un clima ben più festoso. Una sola delle aggiunte del ‘32 è straordinaria: la storia di Olimpia. Quest’avventura restituisce tutta la sua grandezza a Orlando prima impazzito, facendogli liberare con una lotta eroica la bellissima dallo scoglio su cui i persecutori l’hanno incatenata come offerta a un mostro marino. Ma il risultato decisivo del rifacimento sta nella revisione linguistica, che porta il testo del ‘16, con il suo popolaresco linguaggio padano, modellato sull’Orlando innamorato, a un toscano che, con la sua armonia rinascimentale, segna l’accettazione della lingua del Petrarca come lingua letteraria italiana. Qui il minutissimo lavoro di revisione mostra la maestria dell’ultimo Ariosto, e ci lascia un capolavoro assoluto.
«Corriere della sera» dell’11 aprile 2007

L'eccidio dimenticato che pesa sulla Turchia

di Nino Gorio
Lo chiamano Medz Yeghern, che vuol dire "il Grande Male". È il genocidio che meno di un secolo fa, nel 1915-16, colpì il popolo armeno: forse un milione e mezzo di morti, un numero imprecisato di deportati e profughi, un'intera minoranza etnico-religiosa annientata nella Turchia centro-orientale. Fu il primo sterminio di massa di popolazioni civili del ‘900, inferiore per numero di vittime solo alla Shoah ebraica nella Germania nazista. Ogni anno gli armeni di tutto il mondo ricordano quei fatti il 24 aprile, anniversario dell'inizio delle deportazioni; ma di solito la ricorrenza passa in sordina. Quest'anno avrà più visibilità, per due motivi: la recente uscita del film "La masseria delle allodole" dei fratelli Taviani, che ha fatto riparlare del massacro, e l'omicidio di Hrant Dink, il giornalista turco-armeno ucciso a gennaio a Istanbul in un attentato di ultra-nazionalisti, che ha dimostrato come in Turchia il problema delle minoranze sia tutt'altro che acqua passata.
Il Medz Yeghern maturò mentre infuriava la prima guerra mondiale e l'Europa guardava altrove. L'impero Ottomano, prossimo al tramonto, era impegnato contro la Russia e la guerra andava male. A Istanbul regnava il sultano Mehmet V, ma il governo era in mano ai Giovani Turchi, un movimento nazionalista che propugnava la laicizzazione dello Stato e la "pulizia etnica" dell'Anatolia. Gli armeni, minoranza che parlava una lingua a sé e praticava una religione "sospetta" (un Cristianesimo organizzato su basi autonome, ma affine a quello della Chiesa ortodossa di Mosca) diventarono così il capro espiatorio per le cattive notizie che giungevano dal fronte: accusati di simpatie filo-russe, furono arrestati in massa e massacrati senza alcun processo, solo sulla base della loro appartenenza etnica. I più fortunati furono deportati nella zona di Aleppo (oggi in Siria), dove spesso la loro fine fu solo ritardata di qualche mese.
Non era la prima volta che le minoranze della Turchia finivano nel mirino: già a fine ‘800 gli armeni erano stati oggetto di persecuzioni, ma di portata inferiore. Invece lo sterminio del 1915-16, accompagnato da stupri, saccheggi e atrocità raccapriccianti, fu totale e non risparmiò neppure i bambini. Il milione e mezzo di vittime della stima corrente è frutto di un calcolo prudenziale: fonti armene arrivano a parlare di due milioni e mezzo di morti. Fonti turche, invece, si limitano a 200mila, cifra inverosimile se si considera che prima della guerra in Anatolia vivevano 3 milioni di armeni e che nel 1917 intere regioni (come quelle intorno al Monte Ararat e al Lago di Van, cuore dell'Armenia storica) erano completamente "ripulite". Dall'eccidio si salvò solo chi riuscì a fuggire in Europa (soprattutto in Francia) e chi abitava nell'Armenia orientale, che finì nell'orbita russa e nel 1918 diventò uno Stato a sé, poi inglobato nell'Urss nel 1920 e tornato indipendente nel 1991.
Lo sterminio degli armeni non è solo un problema storico: oggi acquista anche una valenza di bruciante attualità politica, perché dopo quasi un secolo pesa sulle trattative per l'ingresso della Turchia nell'Unione Europea, su importanti progetti economici e, ultimamente, anche sui rapporti turco-americani. Tutto nasce dal fatto che Ankara si è sempre rifiutata di riconoscere l'esistenza del genocidio, riconducendo le vittime a un semplice "conflitto inter-etnico". Anzi, per la legge turca parlare di "genocidio armeno" è considerato un vilipendio anti-nazionale, punibile come reato. Vittima di queste norme fu lo storico Taner Agçam, arrestato nel 1976 e condannato a dieci anni di carcere per aver risollevato il problema. Più recentemente, nel 2005, un processo simile è stato istruito contro lo scrittore Orhan Pamuk, Premio Nobel per la letteratura nel 2006; ma un anno fa, dopo l'importante riconoscimento, l'azione giudiziaria è stata sospesa e quindi annullata.
L'archiviazione del "caso Pamuk" riflette un ammorbidimento dell'attuale governo turco rispetto a tutti i precedenti: il premier in carica, Tayyip Erdogan, almeno a parole, si è detto disposto a creare una commissione mista per riesaminare tutta la materia. E un'antica chiesa armena carica di significati simbolici (S.Croce ad Akthamar, un'isola del Lago di Van), finita in disarmo dopo il genocidio, è stata riaperta nel marzo scorso, sia pure solo come museo, grazie a un costoso restauro biennale (1,5 milioni di euro) a spese di Ankara. Ma nei fatti la timida apertura ufficiale deve fare i conti con i settori ultra-nazionalisti del Paese, contrari a ogni revisionisimo e responsabili di intimidazioni verso i pochi armeni rimasti in Turchia. L'uccisione di Hrant Dink era stata preceduta da infinite minacce. E dopo aver subito un trattamento analogo gli stessi Agçam e Pamuk, che pure armeni non sono, hanno lasciato la Turchia per stabilirsi negli Stati Uniti.
Questa situazione ha già avuto riflessi internazionali. Nel 2006 la Francia ha approvato una legge che punisce la negazione del genocidio armeno. E Ankara, per ritorsione, un mese fa ha sospeso le trattative con la società Gaz de France per il Nabucco, un gasdotto che dovrebbe collegare la Turchia all'Europa Centrale con un investimento di 4,6 miliardi di euro. Intanto da marzo la tensione si è allargata agli Usa, dove il Congresso ha in calendario una mozione che qualifica "genocidio" il massacro del 1915. L'iniziativa, che ha già 15 precedenti (Italia compresa) ha provocato un altolà dell'amministrazione Bush, che teme di compromettere le relazioni con Ankara, partner commerciale importante e alleata indispensabile: l'industria americana ha in portafoglio maxi-contratti per la fornitura alla Turchia di materiale strategico, fra cui 106 aerei da guerra; e nella base anatolica di Incirlik fanno scalo gli aerei che riforniscono le truppe Usa in Iraq.

Da Aznavour ai Re Magi: l'Armenia in pillole
di Nino Gorio
L'armeno della diaspora più noto in Europa è Charles Aznavour, cantante e attore nato a Parigi nel 1924 da due esuli scampati al genocidio. Protagonista di 60 film e autore di un migliaio di canzoni, "Aznavoice" è stato insignito della Legion d'onore, massima onorificenza francese. Curiosamente, benché abbia cantato in sei lingue (francese, inglese, italiano, spagnolo, tedesco e russo), non ha mai scritto testi musicali in armeno.
Il primo Paese che adottò il Cristianesimo come religione ufficiale di Stato fu proprio l'Armenia: accadde sotto il regno di Tiridate III nel 301, cioè 12 anni prima che Costantino legalizzasse il nuovo culto nell'Impero romano. Armena è anche la chiesa più antica del mondo fra quelle tuttora in funzione: si chiama Qara Kelisa, risale al primo secolo e si trova fuori dall'attuale Armenia, isolata sui monti a nord di Tabriz (Iran).
La biblioteca di libri antichi più ricca del mondo è a Yerevan: si chiama Matenadaran (ma in Occidente è nota come "Museo del libro") e comprende 14mila volumi datati dall''887 al 1434. Della raccolta fanno parte due pezzi da record: un libro pesante 27 chili e un altro di soli 19 grammi. Un tempo due monasteri armeni (Goshavank e Sanahin) avevano biblioteche ancor più ricche (15mila e 24mila libri), che poi furono disperse.
Il monte-simbolo degli armeni è l'Ararat, un vulcano spento su cui leggenda vuole che si sia fermata l'Arca di Noè dopo il diluvio. Oggi l'Ararat è in Turchia, ma l'Armenia da sempre ne usa l'immagine su timbri ufficiali e francobolli. Negli Anni '20 Kemal Ataturk, presidente turco, protestò: "Non potete prendere a simbolo una cosa che non è vostra". Gli armeni risposero: "Voi usate come simbolo la mezzaluna. È forse vostra la luna?"
I tre Re Magi dell'Epifania sono la più popolare "invenzione" che la cultura armena ha trasmesso al resto del mondo. Infatti Matteo, l'unico fra i quattro evangelisti canonici che parla dei Magi, non ha mai scritto che fossero né tre, né re. Tanto meno ne fa i nomi. Il testo più antico che attribuì loro titoli regali e che li chiamò Melchiorre, Baldassarre e Gaspare fu il Vangelo armeno, testo del III secolo, ritenuto apocrifo dalla Chiesa.

L'Armenia oggi: una costola dell'Urss "soffocata" dai vicini
di Nino Gorio
L'attuale Armenia, repubblica indipendente nata nel 1991 dalla disgregazione dell'Urss, occupa solo il settore orientale del territorio storicamente armeno: circa 30mila chilometri quadrati (poco più del Piemonte-Val d'Aosta), per l'85% montagnosi, dove vivono 3 milioni di persone, un terzo delle quali abita nella capitale Yerevan. Afflitto da una disoccupazione cronica (7%) e da un'inarrestabile emigrazione (5 per mille l'anno), lo Stato armeno è fortemente dipendente dall'estero per tecnologia, gas e prodotti alimentari. I suoi primi fornitori sono gli altri Stati ex-sovietici (29,4%), Belgio (8%) e Germania (7,9%)3%). Le esportazioni, essenzialmente di minerali (rame, molibdeno, piccole quantità di oro), sono dirette soprattutto in Germania (15,6%) e Olanda (13,7%). Scarsi gli scambi con l'Italia, che a Yerevan fino al 2000 non aveva neppure un'ambasciata. In crescita invece i rapporti con l'Iran, dove l'Armenia esporta elettricità in cambio di gas, fornito da un gasdotto appena inaugurato.
Per vivacizzare l'economia, nell'ultimo decennio il governo armeno ha attuato una politica di marcata liberalizzazione. Ma sui conti pesano le pessime relazioni con due Paesi confinanti, Turchia e Azerbadjan. Dopo la fine dell'Urss, infatti, armeni e azeri si affrontarono in una lunga guerra (1991-94) per il controllo del Nagorno-Karabak, una regione dell'Azerbaidjan a maggioranza armena. Il conflitto si concluse con la vittoria di Yerevan (che ha di fatto annesso la zona contesa), ma a caro prezzo: da allora la Turchia, che sosteneva gli azeri, ha chiuso le frontiere, bloccando importanti vie di comunicazione; intanto 200mila armeni che vivevano oltrefrontiera si sono rifugiati nella madrepatria, aggravando i problemi occupazionali, mentre la difesa del Nagorno-Karabak impone tuttora ingenti spese militari, che assorbono il 3,5% del PIL.


Libri e film per saperne di più
di Nino Gorio
Da leggere – "I 40 giorni di Mossadagh" di Franz Werfel (ed. Corbaccio) è un racconto di guerra, ispirato a una storia vera e ambientato negli anni del genocidio. "Le terre di Nairì" di Pietro Kuciukian (ed. Guerini), è un diario di viaggio nella patria degli antenati, scritto da un medico milanese di origine armena. Il best-seller del momento è però "La masseria delle allodole" di Antonia Arslan (ed. Rizzoli), Premio Campiello 2004, da cui è stato tratto l'omonimo film (vedi sotto).

Da vedere – L'ultimo film dei fratelli Taviani, "La masseria delle allodole", appena uscito nei cinema, rievoca il genocidio armeno attraverso la storia di una famiglia, tratta dall'omonimo libro di Antonia Arslan. Girato interamente in un monastero armeno è "Il colore dl melograno", opera ormai d'epoca (1968) del regista georgiano Sergej Paradzanov: narra la vita di un trovatore del ‘600, ritiratosi in un monastero per copiare libri antichi. Importante per capire la psicologia degli armeni della diaspora, infine, è "Ararat" dell'armeno-canadese Atom Egoyan, presentato a Cannes nel 2002. Per un ritorno alla ricerca delle origini, Le Voyage en Arménie di Robert Guédiguian, Francia 2005, con l'attrice Ariane Ascaride vincitrice del premio per la miglior interpretazione femminile alla Festa del Cinema di Roma nel 2006.

In internet – Il governo armeno ha un sito ufficiale in inglese (www.gov.am/enversion), ma più interessanti per l'attualità sono quelli della comunità armena di Roma (www.comunitaarmena.it), della sua equivalente svizzera (www.armenian.ch) e dell'Associazione di amicizia italo-armena (www.zatik.com). Esiste anche uno scarno sito dell'Ambasciata italiana in Armenia (www.ambjerevan.esteri.it).

«Il Sole – 24 Ore» del 20 aprile 2007

«Nel ‘77 i futuri leader ds sapevano ma non fecero nulla»

di Dario Fertilio

Piero Fassino, certo, andrà in Russia. Ma il coraggio di denunciare la Grande Menzogna, dice Carlo Ripa di Meana, ci sarebbe voluto allora. Cioè trent’anni fa, nel 1977, durante quel fatidico novembre veneziano che sarebbe passato alla storia come Biennale del dissenso. Lui era, certo, il presidente, però il vero regista - ricorda - si chiamava Bettino Craxi. Che accerchiato dal grande fratello chiamato Pci, snobbato da tutti gli accomodanti sostenitori del compromesso e della consociazione all’italiana, osò l’inosabile: sfidare Mosca. Appoggiare lo svolgimento della Biennale, anche a costo di una crisi con l’Urss e i suoi fiancheggiatori. «E ce n’erano tanti, cominciando dai tre direttori della Biennale che si dimisero: Luca Ronconi, Vittorio Gregotti e Giacomo Gambetti. Ma se ripenso oggi a quella stagione, concludo che ha dato fierezza e combattività al dissenso, logorando e infine portando al crollo l’impero di Mosca. Da allora in poi, non è stato più possibile abbeverarsi al mito sovietico». Era quella la Grande Menzogna, e la Biennale la portò allo scoperto: «Tutto risultò documentato, e una bella scossa ci fu». Anche se le radici del problema - ricorda Ripa di Meana - erano antiche. Affondavano in terra sovietica, «là dove tanti comunisti italiani morirono su denuncia al Kgb di altri comunisti. Dunque, il viaggio di Fassino a San Pietroburgo non potrà essere soltanto un omaggio alla memoria, dovrà riconoscere quella tragedia». E anche, con il senno di poi, rendere l’onore delle armi a Bettino Craxi. «Su un lungo arco storico, dobbiamo concludere che aveva ragione lui, mentre Togliatti e Berlinguer erano nel torto. Non è sufficiente rivalutare Craxi per l’episodio di Sigonella: occorre riconoscere che sul più grande quesito della fine del secolo scorso, l’oppressione totalitaria comunista e il probabile crollo dell’impero sovietico, l’unico statista che ebbe la forza di investire le sue energie e fortune, non alla fine ma già negli anni Settanta e Ottanta, fu appunto Craxi». Erano tempi duri, ricorda Ripa di Meana. E cita Roberto Calasso, che sul «Corriere» ha definito la cultura italiana dominante di allora «una forma di alto sovietismo». Ancora nel ‘74 «l’Unità» pubblicava un articolo di Giorgio Napolitano «in cui si giustificava l’esilio imposto da Mosca a Solgenitsin per la pubblicazione all’estero di Arcipelago Gulag. Craxi fece ciò che né il tedesco Schmidt, né Mitterrand in Francia o Michael Foot o Tony Benn in Inghilterra osarono mai». E così quella Biennale del ‘77 cambiò la storia, «anche se oggi nei libri dedicati a quel periodo ci si ricorda di Lama, Bifo, Guattari, mentre non si descrivono neppure in una nota e pie’di pagina i trenta giorni veneziani di fuoco, tra novembre e dicembre, quando duecentomila persone visitarono la mostra sui samizdat, e il fiore dell’intellighenzia mondiale, da Brodskij alla Sontag, da Settembrini ai giovani Galli della Loggia e Flores d’Arcais, si schierarono al nostro fianco». Mancavano, però, i comunisti. «Non vennero, eccetto Boffa, che tuonò contro l’iniziativa e ripartì subito. Soltanto nel ‘94 si seppe perché: a Mosca si era svolta una riunione segreta del comitato centrale sovietico dedicato al boicottaggio della Biennale». Non c’era, dunque, «la generazione di sinistra che oggi è al potere. Anche se i coetanei di Massimo D’Alema avrebbero già dovuto essere in grado di cogliere la portata di un evento simile». «I leader di oggi sono pronti - continua - a considerare indifendibile quel periodo di ortodossia filosovietica. Ma poi si affrettano a scontornare con una forbicetta le icone di Togliatti e Berlinguer, come se fossero cammei, separabili dallo sfondo. Ora, io non dico di sbianchettarli, ma almeno, quando si parla di riconoscimenti a Craxi, propongo di non centellinare il rosolio e poi farci bere di nuovo l’amarone». Anche perché, conclude, la storia ha chiarito i paralleli e le affinità tra comunismo sovietico e totalitarismo nazista: «Io, oggi, quei morti non esito a chiamarli vittime di un Olocausto».
«Corriere della sera» dell’11 aprile 2007

La sinistra è nuova se abbatte il mito del progresso

Bruno Arpaia risponde alle obiezioni e illustra la sua tesi «reazionaria»
di Bruno Arpaia
Riabilitare comunità e tradizione per non arrendersi al mercato

A pochi giorni dalla pubblicazione del mio Per una sinistra reazionaria (Guanda), sono stato chiamato in causa più volte, da queste colonne e da quelle di altri giornali. Eccezion fatta per il glaciale silenzio della stampa istituzionalmente di sinistra, ne sono molto contento. E tuttavia a volte ho l’impressione che, malgrado il gran numero di articoli e recensioni, non sempre il lettore di quotidiani abbia gli elementi per sapere bene di che cosa si sta parlando. Mi rendo conto che il titolo del libro non aiuta: a prima vista, «sinistra reazionaria» appare solo un ossimoro, per giunta un po’provocatorio. In realtà, per me non è tanto paradossale, e per diverse ragioni. Anch’io, come Roberto Calasso, nel ripensare a questi ultimi tredici anni ho avvertito fortissima la sensazione che «al moto turbinoso del mondo avesse corrisposto un surplace» della politica e della cultura. Mi è sembrato, però, che soprattutto la cultura della sinistra (quella che più mi concerne e mi interessa) si fosse adagiata su parole e concetti ormai logori, al punto che il suo problema vero non consistesse, come per anni ha ripetuto certa destra, nell’essere erede del comunismo, bensì nel ritrovarsi convinta interprete del «luogocomunismo», prigioniera di nozioni trite e ritrite, di quel vuoto di progettualità che le ha fatto sposare via via le tesi più abusate e contraddittorie, presentandole però come innovative. Per questo, e per chiarire le idee anche a me stesso, ho cercato di risalire «genealogicamente» all’origine di concetti quali Progresso, Individuo, Mercato, Modernità, Sviluppo: concetti storicamente e culturalmente determinati, nati all’incirca con l’Illuminismo, ma che invece certa destra e certa sinistra, tenendosi irrimediabilmente per mano, ci presentano quasi come «naturali». Si trattava, insomma, come ha scritto qualcuno, di tirar via un bel po’di polvere da sotto il tappeto, di sparigliare le carte, come, nello scopone scientifico, tocca fare a chi non è «mazziere», a chi non ha in mano le redini del gioco. E siccome di sinistra conservatrice ne abbiamo già a volontà (da quella liberale che crede di essere moderna e riformatrice ed è invece vecchia almeno quanto Adam Smith, a quella che il mio amico Paco Taibo II chiama «sinistra neanderthal», infine a quella che si crede antagonista e invece spinge solo all’estremo un individualismo radicale funzionale al mercato e al consumo), bisognava provare a metterne in campo una reazionaria, che «reagisse» cioè alla pigrizia con cui ci si accontenta di ogni banalità diventata senso comune, «alla sacralità indiscutibile del Nuovo», a una deriva individualistica che ha dimenticato qualunque senso del Noi e del bene comune, alla rimozione di qualunque idea di limite in nome di una pura grammatica dei diritti che non contempla anche i doveri dell’uomo. Territori finora battuti e frequentati soprattutto da quella che Pasolini chiamava la «destra sublime», a cui la sinistra ha anche regalato l’«esclusiva» su concetti come Comunità e Tradizione: concetti da maneggiare con cura, certo, ma a mio parere ineludibili, da assumere e declinare secondo i principi di eguaglianza e di inclusione (che dovrebbero anche oggi essere propri della sinistra), per evitare che precipitino nell’etnicismo razzista o nel passatismo che rimpiange mitiche e inesistenti età dell’oro. Per questo ho scelto come interlocutori anche pensatori di destra come Veneziani, o di indefinibile collocazione come de Benoist. Del resto, dopo gli anni Settanta, dovunque mi è parso di scorgere intelligenza o capacità di affrontare da prospettive inusuali problemi reali, mi è sempre sembrato doveroso discutere seriamente idee anche lontanissime dalle mie, senza paraocchi di alcun tipo. È un peccato, questo? Non credo, soprattutto se serve ad avvicinarci almeno un poco a una sinistra antiliberale ma sostenitrice di un’idea alta di democrazia, per nulla schiava dell’anticapitalismo romantico o consumatrice abituale di «pillole nicciane», rispettosa dei diritti ma stufa del politically correct, realista e immaginativa, radicale nel senso di saper affrontare i problemi «alla radice», senza estremismo ma con più responsabilità e meno improvvisazione, con più passione e meno grigiore. Riuscirci, non so se ci sono riuscito. Mentre scrivevo il libro, mi assaliva spesso il ricordo della vignetta di Altan richiamata anche da Luca Ricolfi su La Stampa: «A volte mi vengono in mente idee che non condivido». E tuttavia ho pensato che valesse comunque la pena rischiare. Un pensiero che non rischi, che pensiero è? Il risultato è un abbozzo di idee piene di se e di ma. Pronto a discuterne, e perfino a ritrattare. Se qualcuno avrà voglia di prendere in seria considerazione non tanto le mie proposte, quanto i problemi a cui cercano di trovare una soluzione.
«Corriere della sera» dell’11 aprile 2007

L’inviato nostalgico nell’ex dittatura

di Dario Fertilio
Laggiù nel Far East della Romania, «dove i selvaggi lavorano in fabbrica», è arrivato l’inviato speciale dell’«Unità». Incaricato di raccontare ai suoi lettori come vanno le cose da quelle parti dopo la caduta del regime di Ceausescu e l’ingresso del Paese nell’Unione Europea, l’inviato Andrea Bajani fa una scoperta sconcertante: la popolazione, ma in particolare i giovani e le ragazze, adorano le scarpe Nike e i centri commerciali all’americana. Li amano a tal punto da mettersi a risparmiare, pur di averli, l’equivalente di un loro stipendio. E gli imprenditori italiani che offrono loro posti di lavoro somigliano ai famigerati piantatori schiavisti d’un tempo. Poveri selvaggi romeni, scuote la testa il messaggero del pensiero progressista occidentale, sono passati dalla padella alla brage! Proprio come gli indiani, che si lasciavano corrompere con specchietti e perline, i romeni di oggi sono schiavi degli imprenditori italiani che impiantano da quelle parti la fabbrichetta. Che triste spettacolo, nota l’inviato dell’«Unità», «quelle infilate di capannoni messi uno accanto all’altro, come Lego di colori diversi!». E i centri commerciali tanto agognati dai romeni di oggi gli ricordano «la megalomania del palazzo eretto da Ceausescu nel centro di Bucarest». Conclusione filosofica: stavano meglio quando stavano peggio, dal momento che «quando c’era Ceausescu si pativa di gran lunga di meno la fame». Cioè, bisognerebbe aggiungere, la pativano di meno gli amici e i reggiborsa del partito di Ceausescu. Il quale, certo, «non omologava i conquistati ai propri consumi». Però faceva sparire i dissidenti. E, per non lasciare spazio al consumismo, semplicemente aboliva i consumi e tagliava la luce elettrica nella case.
«Corriere della sera» del 14 aprile 2007

Polonia, purghe anticomuniste «Chi ha fatto la spia, confessi»

Politica e storia: il caso Polonia
di Sandro Scabello
La nuova legge obbliga i «collaboratori» ad autodenunciarsi entro maggio Licenziati quelli che mentono. L’Unione europea: «Forte rincrescimento»Il pugno duro del regime Legge marziale in Polonia

La resistenza più accanita è arrivata dall’università di Varsavia, la più grande della Polonia, culla del ‘68 polacco e bastione dell’opposizione anticomunista durante l’epopea di Solidarnosc e lo stato di guerra proclamato dal generale Jaruzelski. Il rettore, d’accordo col corpo accademico, ha chiesto alla Corte Costituzionale di pronunciarsi sulla legittimità della nuova legge sul passato comunista che obbliga i docenti a dichiarare se hanno collaborato o meno con la polizia politica del vecchio regime. L’opera di decomunistizzazione intrapresa dai gemelli Kaczynski (Lech presidente e Jaroslaw primo ministro) entra nella fase più acuta e turbolenta. E anche se la cosa non sembra appassionare più di tanto l’opinione pubblica (la maggior parte dei polacchi, registrano i sondaggi, non considera un peccato grave aver fatto la spia), le nuove misure della lustracja (verifica del passato comunista) rischiano di aprire solchi profondi in seno all’intellighenzia e di alimentare a dismisura il clima di sospetto che corrode le istituzioni. Entro la metà di maggio insegnanti, avvocati, presidi, magistrati, funzionari pubblici, giornalisti, dirigenti delle case editrici e proprietari di tv e giornali, nati prima dell’agosto 1972, dovranno dichiarare ufficialmente se in passato sono stati reclutati dai servizi segreti comunisti. Una confessione di massa in cui sono coinvolti settecentomila intellettuali. È il bagno purificatore voluto dai conservatori al governo, convinti della necessità che la Polonia debba liberarsi al più presto delle ultime incrostazioni comuniste attraverso la riscoperta di «nuovi valori» e una profonda «rivoluzione morale», ovvero una metodica, inflessibile resa dei conti. Poco importa che le nuove purghe stravolgano lo spirito e le decisioni della «tavola rotonda» fra potere comunista ed opposizione che consentì la nascita in Polonia del primo governo democratico di Tadeusz Mazowiecki, con l’impegno ad archiviare il passato e andare avanti. I gemelli Kaczynski che all’epoca militavano nei ranghi di Solidarnosc, al fianco di Lech Walesa, hanno sempre considerato la tavola rotonda un tradimento e una resa vergognosa. Ed ora si regolano di conseguenza, ripudiando il processo di riconciliazione nazionale e accelerando la resa dei conti, specie nei confronti degli autori dello stato di guerra, con in testa il generale Jaruzelski che rischia di essere degradato, e gli ex agenti della polizia segreta che saranno privati della pensione. C’è chi si è adeguato alle nuove disposizioni, chi ha deciso di boicottarle ritenendole umilianti, chi aspetta il verdetto della Corte Costituzionale. Una volta sottoscritte, le dichiarazioni passeranno al vaglio dell’Istituto della memoria nazionale, in cui sono custoditi i dossier dell’ex polizia politica, che ne verificherà la veridicità. Verrà creato un nuovo dipartimento che vedrà all’opera un centinaio di inquisitori. Ricerche e controlli sono destinati a protrarsi per anni, fra ricorsi e controricorsi in tribunale e in un mare di polemiche, tenuto conto delle riserve e delle critiche che sono state avanzate in più di un’occasione sull’attendibilità di certi documenti - anche da parte della Chiesa - manipolati dagli ufficiali dei servizi che non esitavano ad arruolare collaboratori fittizi per compiacere i superiori. Chi mentirà e verrà contraddetto dai ricercatori dell’Istituto e chi si rifiuterà di obbedire alla richiesta del governo verrà licenziato in tronco e non potrà esercitare la professione per dieci anni. Il presidente della radiotelevisione Krzysztof Czabanski ha fatto sapere che caccerà sia i giornalisti che ammetteranno di aver collaborato con i servizi segreti sia quelli che non obbediranno alla direttiva del governo. Impotente a intervenire su casi di discriminazione che riguardano le idee politiche, Bruxelles per ora non ha potuto far altro che esternare il suo «forte rincrescimento» per una legge che, stigmatizza Andrzej Krawczyk, ex consigliere per gli affari internazionali del presidente Lech Kaczynski, anch’egli accusato di essere stato sul libro paga dei servizi ed assolto in tribunale, «provocherà centinaia di drammi umani».

REPUBBLICA CECA Nel 1992, viene varata una «legge di verifica» che autorizza a mettere sotto inchiesta tutti gli esponenti del precedente regime comunista: funzionari, agenti dei servizi, impiegati statali. Oltre 420 mila persone vengono passate al setaccio da una commissione di «decomunistizzazione» che solleva molte perplessità, anche a livello del Consiglio d’Europa

ROMANIA Il Parlamento romeno ha votato mozioni contro quanti erano compromessi con il regime comunista sin dal 1992. La legge consente l’accesso ai fascicoli personali di chiunque desideri un posto pubblico, da funzionario a quadro ecclesiastico. Un passato di «informatore» della Securitate, la polizia politica di Ceausescu è sufficiente a stroncare una carriera.

LITUANIA I Paesi baltici sono stati i primi a varare leggi anti-comunisti. Il Parlamento di Vilnius, nel 1999, ha addirittura passato un provvedimento che autorizza «epurazioni» non solo nel settore pubblico ma anche in quello privato. Ufficialmente, la legge ha lo scopo di «eradicare» i contatti tra imprenditori e «agenti dell’ex Unione Sovietica»

LEGGE Le nuove misure della «lustracja» (verifica) obbligano certe categorie di polacchi nati prima del ‘72 a dichiarare se hanno collaborato con la polizia politica del regime comunista caduto nell’89
CATEGORIE Insegnanti, avvocati, magistrati giornalisti, funzionari pubblici: coinvolti 700.000 intellettuali
PUNIZIONI Chi rifiuta o mente sarà licenziato e non potrà esercitare la professione per 10 anni INQUISIZIONE Le dichiarazioni passeranno al vaglio dell’Istituto della memoria nazionale, in cui sono custoditi i dossier della vecchia polizia politica. Verrà creato un nuovo dipartimento con un centinaio di inquisitori
«Corriere della sera» dell’11 aprile 2007