di Eugenio Giannetta
È ancora possibile la poesia? Con questa domanda Eugenio Montale, nel 1975, intitolava il suo discorso come Nobel per la letteratura, assegnato «per la sua poetica distinta che, con grande sensibilità artistica, ha interpretato i valori umani sotto il simbolo di una visione della vita priva di illusioni». Ciclicamente, nel tempo, molti poeti, critici e intellettuali, hanno continuato a farsi la stessa domanda, ma con più pessimismo: la poesia è morta? Fugando ogni dubbio, la risposta è no. È mutata, forse, perché «la poesia – scrive sempre Montale – non vive solo nei libri. […] L’arte è sempre per tutti e per nessuno. Ma quel che resta imprevedibile è il suo vero begetter, il suo destinatario». Un destinatario, l’uomo in senso lato, che ogni 21 marzo, primo giorno di primavera, celebra la Giornata Mondiale della Poesia, istituita dall’Unesco nel 1999 per la capacità che ha la poesia di andare oltre. Montale, nell’apertura degli Ossi di seppia, In limine, ha descritto così l’andare oltre, il quid definitivo al di là di confini, lingue, differenze di ogni genere, in cerca di un ideale di bellezza globale: «Cerca una maglia rotta nella rete / che ci stringe, tu balza fuori, fuggi! / Va, per te l’ho pregato – ora la sete / mi sarà lieve, meno acre la ruggine ...».
La poesia è necessaria, forse e più che mai in questo tempo che esige una precisa definizione delle cose. In rete si trova agevolmente lo spezzone di un video, andato in onda su Rai 3, in cui Alessandro Baricco, raccontando l’arte del tiro con l’arco, prova a fissare la portata della poesia: «Se scrivi per mestiere e lo fai per molti anni, nel tempo cambi molte volte idea su quale sia il gesto dello scrivere, sul perché lo fai. La poesia non è una cosa vaga, sentimentale, una cosa che non hai capito bene. No, è il contrario, quando hai capito perfettamente, quando conosci ogni singolo dettaglio.
Lì capisci che il cuore della faccenda non riesci a dirlo, allora: poesia». In controtendenza rispetto a questi tempi di consumo sempre più rapidi, che provano a imporre una minore attenzione alla precisione e al valore delle parole, talvolta anche in narrativa, è interessante vedere come il poeta Alberto Pellegatta abbia deciso di creare una nuova casa editrice, Taut, con la volontà di indagare le nuove voci inserendole in un contesto storicizzato: uscite di giovani autori, quindi, affiancate da volumi di maestri contemporanei o del passato, per sostenere un’idea di letteratura come cammino collettivo, con un preciso profilo internazionale che metta al centro il lettore. Un’operazione editoriale e culturale al tempo stesso, col primo libro, Planetaria (pagine 232, euro 13), che è un’antologia di 27 poeti nati dopo il 1985, tra cui alcuni nati del 1995 e il più giovane addirittura del 1998 (Riccardo Canaletti); un segnale importante di apertura verso le nuove generazioni di poeti, non solo italiani, ma da Spagna, Russia, Venezuela, Stati Uniti, Portogallo, finora inediti in Italia.
Quello di Taut non è un caso isolato, perché anche la poesia americana è viva, come dimostra Nuova Poesia Americana (192 pagine, 13 euro), una collana curata da John Freeman (selezione) e Damiano Abeni (traduzione), di cui sarà pubblicato un volume all’anno dai tipi di Black Coffe, con una selezione significativa delle opere di sei poeti americani contemporanei. I primi sei sono stati Robert L. Hass, Robin Coste Lewis, Terrance Hayes, la già Poet Laureate degli Stati Uniti Tracy K. Smith, e due poetesse native americane: Natalie Diaz (Mojave) e Layli Long Soldier, appartenente agli Oglala, una delle sette tribù dei Lakota delle Grandi Pianure. Il primo volume è uscito il 22 gennaio scorso, da un’idea dell’editore Sara Reggiani, ispiratasi a una collana che la Penguin pubblicava negli anni ‘60 e ‘70: “Penguin Modern Poets”, libelli preziosi in cui venivano raccolte alcune opere di tre poeti contemporanei scelti.
«Ogni nuovo volume di questa collana sarà una specie di piccolo evento», è scritto nell’introduzione al volume firmata da John Freeman e il pensiero va inevitabilmente alla parola evento: epifania ( Joyce)? Only begetter (Monta-le)? Per citare Tracy K. Smith, che apre il volume, «vogliamo così tanto. / Quando forse viviamo al meglio / negli interstizi tra amori». Non è tutto: le forme della poesia sono anche quelle di Ocean Vuong, che a 28 anni ha scritto la sua prima raccolta: Cielo notturno con fori d’uscita (La nave di Teseo, 188 pagine, 17 euro), in cui come spiega bene nella prefazione Michael Cunningham, c’è alto e basso insieme, per poesie «al contempo liriche e colloquiali», in cui combina il personale col politico, e racconta il Vietnam dilaniato da guerra e comunismo, così come New York, simbolo di un’America ferita dall’intolleranza.
In Vuong, un po’ come in Viet Thanh Nguyen, vivono due anime: Vuong è arrivato negli Stati Uniti dal Vietnam a soli due anni, imparando l’inglese da solo e cominciando a leggere a undici anni. Attualmente è in libreria col suo primo romanzo, Brevemente risplendiamo sulla terra (La nave di Teseo, pagine 292, euro 18), nella traduzione di Claudia Durastanti. C’è poi Ben Lerner, appena uscito col romanzo, Topeka school (Sellerio, pagine 382, euro 16), che ha dedicato parte della sua produzione e dell’attività accademica alla poesia, tanto da scrivere un breve saggio: Odiare la poesia (Sellerio), dove ripercorre per sommi capi il percorso della lirica, partendo da lontano, anche da coloro che, ad esempio, hanno disapprovato la poesia (Platone) fino ad alcune contraddizioni: il «siamo tutti poeti» e le aspettative quasi salvifiche che maturiamo nei confronti delle parole, le richieste impossibili di esprimere l’indicibile sentimento umano, parlando per sé come se si parlasse per la moltitudine.
Nel suo percorso Lerner cita, tra gli altri, Claudia Rankine, in Italia conosciuta per Citizen. Una lirica americana (66th and 2nd, pagine 170, euro 16), che attraverso il «gioco dei pronomi» e «l’errore di identificazione » racconta il razzismo sociale in una forma che è insieme arte, poesia, prosa, immagini e visioni, a dimostrazione che l’asticella dei confini possibili è spostata sempre un po’ più in là, come ribadisce ulteriormente il lavoro della poetessa, performer, rapper e spoken– word artist classe ‘85 Kate Tempest nei suoi lavori: Resta te stessa , ma anche Che mangino caos (Edizioni e/o, pagine 144, euro 14, traduzione di Riccardo Duranti), un poema «scritto per essere letto ad alta voce», per una poesia che è insieme città, uomini, politica, tutto e niente, perché diceva Benigni in La tigre e la neve: «Per fare poesia una sola cosa è necessaria: tutto».
La poesia è necessaria, forse e più che mai in questo tempo che esige una precisa definizione delle cose. In rete si trova agevolmente lo spezzone di un video, andato in onda su Rai 3, in cui Alessandro Baricco, raccontando l’arte del tiro con l’arco, prova a fissare la portata della poesia: «Se scrivi per mestiere e lo fai per molti anni, nel tempo cambi molte volte idea su quale sia il gesto dello scrivere, sul perché lo fai. La poesia non è una cosa vaga, sentimentale, una cosa che non hai capito bene. No, è il contrario, quando hai capito perfettamente, quando conosci ogni singolo dettaglio.
Lì capisci che il cuore della faccenda non riesci a dirlo, allora: poesia». In controtendenza rispetto a questi tempi di consumo sempre più rapidi, che provano a imporre una minore attenzione alla precisione e al valore delle parole, talvolta anche in narrativa, è interessante vedere come il poeta Alberto Pellegatta abbia deciso di creare una nuova casa editrice, Taut, con la volontà di indagare le nuove voci inserendole in un contesto storicizzato: uscite di giovani autori, quindi, affiancate da volumi di maestri contemporanei o del passato, per sostenere un’idea di letteratura come cammino collettivo, con un preciso profilo internazionale che metta al centro il lettore. Un’operazione editoriale e culturale al tempo stesso, col primo libro, Planetaria (pagine 232, euro 13), che è un’antologia di 27 poeti nati dopo il 1985, tra cui alcuni nati del 1995 e il più giovane addirittura del 1998 (Riccardo Canaletti); un segnale importante di apertura verso le nuove generazioni di poeti, non solo italiani, ma da Spagna, Russia, Venezuela, Stati Uniti, Portogallo, finora inediti in Italia.
Quello di Taut non è un caso isolato, perché anche la poesia americana è viva, come dimostra Nuova Poesia Americana (192 pagine, 13 euro), una collana curata da John Freeman (selezione) e Damiano Abeni (traduzione), di cui sarà pubblicato un volume all’anno dai tipi di Black Coffe, con una selezione significativa delle opere di sei poeti americani contemporanei. I primi sei sono stati Robert L. Hass, Robin Coste Lewis, Terrance Hayes, la già Poet Laureate degli Stati Uniti Tracy K. Smith, e due poetesse native americane: Natalie Diaz (Mojave) e Layli Long Soldier, appartenente agli Oglala, una delle sette tribù dei Lakota delle Grandi Pianure. Il primo volume è uscito il 22 gennaio scorso, da un’idea dell’editore Sara Reggiani, ispiratasi a una collana che la Penguin pubblicava negli anni ‘60 e ‘70: “Penguin Modern Poets”, libelli preziosi in cui venivano raccolte alcune opere di tre poeti contemporanei scelti.
«Ogni nuovo volume di questa collana sarà una specie di piccolo evento», è scritto nell’introduzione al volume firmata da John Freeman e il pensiero va inevitabilmente alla parola evento: epifania ( Joyce)? Only begetter (Monta-le)? Per citare Tracy K. Smith, che apre il volume, «vogliamo così tanto. / Quando forse viviamo al meglio / negli interstizi tra amori». Non è tutto: le forme della poesia sono anche quelle di Ocean Vuong, che a 28 anni ha scritto la sua prima raccolta: Cielo notturno con fori d’uscita (La nave di Teseo, 188 pagine, 17 euro), in cui come spiega bene nella prefazione Michael Cunningham, c’è alto e basso insieme, per poesie «al contempo liriche e colloquiali», in cui combina il personale col politico, e racconta il Vietnam dilaniato da guerra e comunismo, così come New York, simbolo di un’America ferita dall’intolleranza.
In Vuong, un po’ come in Viet Thanh Nguyen, vivono due anime: Vuong è arrivato negli Stati Uniti dal Vietnam a soli due anni, imparando l’inglese da solo e cominciando a leggere a undici anni. Attualmente è in libreria col suo primo romanzo, Brevemente risplendiamo sulla terra (La nave di Teseo, pagine 292, euro 18), nella traduzione di Claudia Durastanti. C’è poi Ben Lerner, appena uscito col romanzo, Topeka school (Sellerio, pagine 382, euro 16), che ha dedicato parte della sua produzione e dell’attività accademica alla poesia, tanto da scrivere un breve saggio: Odiare la poesia (Sellerio), dove ripercorre per sommi capi il percorso della lirica, partendo da lontano, anche da coloro che, ad esempio, hanno disapprovato la poesia (Platone) fino ad alcune contraddizioni: il «siamo tutti poeti» e le aspettative quasi salvifiche che maturiamo nei confronti delle parole, le richieste impossibili di esprimere l’indicibile sentimento umano, parlando per sé come se si parlasse per la moltitudine.
Nel suo percorso Lerner cita, tra gli altri, Claudia Rankine, in Italia conosciuta per Citizen. Una lirica americana (66th and 2nd, pagine 170, euro 16), che attraverso il «gioco dei pronomi» e «l’errore di identificazione » racconta il razzismo sociale in una forma che è insieme arte, poesia, prosa, immagini e visioni, a dimostrazione che l’asticella dei confini possibili è spostata sempre un po’ più in là, come ribadisce ulteriormente il lavoro della poetessa, performer, rapper e spoken– word artist classe ‘85 Kate Tempest nei suoi lavori: Resta te stessa , ma anche Che mangino caos (Edizioni e/o, pagine 144, euro 14, traduzione di Riccardo Duranti), un poema «scritto per essere letto ad alta voce», per una poesia che è insieme città, uomini, politica, tutto e niente, perché diceva Benigni in La tigre e la neve: «Per fare poesia una sola cosa è necessaria: tutto».
«Avvenire» del 21 marzo 2020
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