Cultura digitale
di Antonio Sgobba
I primi due millenni di storia dei social media nel volume di Tom Standage. A cominciare dai romani
«E la storia si ripete, la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa? No, questo sarebbe un processo troppo solenne, troppo ponderato. La storia si limita a ruttare, e noi risentiamo il sapore del sandwich alla cipolla cruda che avevamo inghiottito centinaia d’anni addietro». Viene in mente questa considerazione di Julian Barnes ne La storia del mondo in 10 capitoli e mezzo (recentemente ristampato nei tascabili Einaudi) leggendo Writing on the Wall: Social Media – The First 2.000 Years (Bloomsbury, pagine 288, $ 26) di Tom Standage, digital editor dell’«Economist». Siamo di fronte a un saggio sui «primi duemila anni» di storia dei social media. Com’è possibile, il web 2.0 non è un fenomeno dell’ultimo decennio?
No, secondo Standage, il sistema della comunicazione in cui ci muoviamo oggi è qualcosa di antico, risalente almeno al 51 avanti Cristo. In quell’anno Marco Tullio Cicerone era appena stato nominato proconsole in Cilicia. Nonostante la recente promozione temeva di rimanere tagliato fuori dalla politica romana. Per questo si teneva costantemente in contatto epistolare con i suoi familiares, da loro otteneva segnalazioni su argomenti di interesse reciproco, costanti aggiornamenti sulla situazione politica, commenti e opinioni. A volte le lettere erano indirizzate a più persone ed erano scritte per essere lette pubblicamente o «postate» in pubblico. A Standage sembra evidente: il politico e oratore romano era immerso nei social media. Cicerone sta alle sue lettere come noi stiamo ai nostri tweet. Il sapore del sandwich 2.0 che risentiamo oggi non sarebbe altro che la riproposizione della dieta mediatica dell’antichità classica. Da allora il social non fa altro che riproporsi, lo abbiamo incontrato nel corso degli ultimi venti secoli innumerevoli volte. Per esempio, Standage ci invita a ripensare al modo in cui San Paolo si guadagnava follower nelle comunità dei primi cristiani. Oppure a come Martin Lutero ha saputo fare marketing virale: le sue 95 tesi si diffondevano contro il volere dell’autorità così come hanno fatto i tweet delle primavere arabe. Alla corte dei Tudor era in voga una piattaforma molto simile all’odierno Tumblr, nobili e cortigiani comunicavano in maniera obliqua citando e ricopiando poesie di argomento leggero, così come oggi facciamo quando postiamo clip delle serie tv e dei film che amiamo. Le botteghe del caffè, i luoghi in cui sarebbe nato l’Illuminismo, nel Settecento erano accusate di far perdere tempo, come oggi Facebook e Twitter.
Alla base delle prime società scientifiche c’era la stessa idea che è stata l’embrione del world wide web: una fitta corrispondenza tra accademici che riportavano i risultati delle loro ultime ricerche. Insomma, finora siamo stati vittime di un’illusione prospettica: le nuove tecnologie non sono affatto un nuovo sistema di comunicazione. E i cosiddetti vecchi media non sono poi così vecchi. Anzi, se prendiamo in considerazione gli ultimi duemila anni sono piuttosto recenti. I mass media sarebbero solo una parentesi aperta nell’Ottocento con la rivoluzione industriale. «Un’anomalia storica», secondo Standage, nata nel 1833 con il lancio del «Sun» di New York. Il motto era: «Il Sun splende per tutti». Da allora ci siamo abituati a un sistema di distribuzione della comunicazione centralizzato e impersonale. Ora saremmo di fronte a un ritorno all’epoca preindustriale, le informazioni si trasmettono ancora una volta attraverso lo scambio tra pari. A questo punto sarebbe il caso di cambiar nome ai «new media»; forse dovremmo chiamarli «antichi media» o «media classici». Standage non è così ingenuo da negare che oggi ci troviamo di fronte anche a qualcosa di davvero nuovo. Per volume e frequenza delle informazioni scambiate il traffico del web non è paragonabile ai papiri latini e ai carteggi secenteschi. Ciò non toglie che i meccanismi, le reazioni e l’impatto sulla società non siano gli stessi degli antichi social media.
La nostra natura è sempre quella di animali sociali. Distratti, frivoli, pettegoli, ansiosi di essere aggiornati. Non è colpa di internet. È sempre stato così. «Quando scriviamo un tweet o aggiorniamo Facebook stiamo continuando una ricca e profonda tradizione di condivisione. I social media non sono solo collegamenti tra persone che conosciamo, sono anche un collegamento con il nostro passato», si legge in Writing on the wall. Alla fine, secondo Standage, la storia non si ripete — e nemmeno rutta — «la storia si ritwitta».
No, secondo Standage, il sistema della comunicazione in cui ci muoviamo oggi è qualcosa di antico, risalente almeno al 51 avanti Cristo. In quell’anno Marco Tullio Cicerone era appena stato nominato proconsole in Cilicia. Nonostante la recente promozione temeva di rimanere tagliato fuori dalla politica romana. Per questo si teneva costantemente in contatto epistolare con i suoi familiares, da loro otteneva segnalazioni su argomenti di interesse reciproco, costanti aggiornamenti sulla situazione politica, commenti e opinioni. A volte le lettere erano indirizzate a più persone ed erano scritte per essere lette pubblicamente o «postate» in pubblico. A Standage sembra evidente: il politico e oratore romano era immerso nei social media. Cicerone sta alle sue lettere come noi stiamo ai nostri tweet. Il sapore del sandwich 2.0 che risentiamo oggi non sarebbe altro che la riproposizione della dieta mediatica dell’antichità classica. Da allora il social non fa altro che riproporsi, lo abbiamo incontrato nel corso degli ultimi venti secoli innumerevoli volte. Per esempio, Standage ci invita a ripensare al modo in cui San Paolo si guadagnava follower nelle comunità dei primi cristiani. Oppure a come Martin Lutero ha saputo fare marketing virale: le sue 95 tesi si diffondevano contro il volere dell’autorità così come hanno fatto i tweet delle primavere arabe. Alla corte dei Tudor era in voga una piattaforma molto simile all’odierno Tumblr, nobili e cortigiani comunicavano in maniera obliqua citando e ricopiando poesie di argomento leggero, così come oggi facciamo quando postiamo clip delle serie tv e dei film che amiamo. Le botteghe del caffè, i luoghi in cui sarebbe nato l’Illuminismo, nel Settecento erano accusate di far perdere tempo, come oggi Facebook e Twitter.
Alla base delle prime società scientifiche c’era la stessa idea che è stata l’embrione del world wide web: una fitta corrispondenza tra accademici che riportavano i risultati delle loro ultime ricerche. Insomma, finora siamo stati vittime di un’illusione prospettica: le nuove tecnologie non sono affatto un nuovo sistema di comunicazione. E i cosiddetti vecchi media non sono poi così vecchi. Anzi, se prendiamo in considerazione gli ultimi duemila anni sono piuttosto recenti. I mass media sarebbero solo una parentesi aperta nell’Ottocento con la rivoluzione industriale. «Un’anomalia storica», secondo Standage, nata nel 1833 con il lancio del «Sun» di New York. Il motto era: «Il Sun splende per tutti». Da allora ci siamo abituati a un sistema di distribuzione della comunicazione centralizzato e impersonale. Ora saremmo di fronte a un ritorno all’epoca preindustriale, le informazioni si trasmettono ancora una volta attraverso lo scambio tra pari. A questo punto sarebbe il caso di cambiar nome ai «new media»; forse dovremmo chiamarli «antichi media» o «media classici». Standage non è così ingenuo da negare che oggi ci troviamo di fronte anche a qualcosa di davvero nuovo. Per volume e frequenza delle informazioni scambiate il traffico del web non è paragonabile ai papiri latini e ai carteggi secenteschi. Ciò non toglie che i meccanismi, le reazioni e l’impatto sulla società non siano gli stessi degli antichi social media.
La nostra natura è sempre quella di animali sociali. Distratti, frivoli, pettegoli, ansiosi di essere aggiornati. Non è colpa di internet. È sempre stato così. «Quando scriviamo un tweet o aggiorniamo Facebook stiamo continuando una ricca e profonda tradizione di condivisione. I social media non sono solo collegamenti tra persone che conosciamo, sono anche un collegamento con il nostro passato», si legge in Writing on the wall. Alla fine, secondo Standage, la storia non si ripete — e nemmeno rutta — «la storia si ritwitta».
«Corriere della Sera - supll. La lettura» del 22 dicembre 2013
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