Il cammino a ritroso di tesi inumane
di Carlo Cardia
La tesi recentemente sostenuta sul Journal of Medical Ethics, per la quale il neonato può essere soppresso come è soppresso il feto mediante l’aborto, è stata fatta conoscere su Avvenire prima con l’analisi di Gian Luigi Gigli che ha indicato alcune radici teoriche del relativismo assoluto, di cui la legittimazione dell’infanticidio è figlia; poi con la raccolta di opinioni e reazioni di scienziati e filosofi che ne hanno denunciato la gravità, l’inumanità, la via di non ritorno che segnerebbe. Credo però si debba riflettere ancora sul terreno di coltura che ha favorito l’affermazione di tesi che prima neanche affioravano nel pensiero umano (se non in segmenti di estremismo votati all’irrilevanza), e sulle loro conseguenze. Il terreno di coltura è quello proprio del nichilismo, nel quale l’uomo si trova per caso a vivere e vive seguendo il caso, perdendo coscienza della propria umanità. In questo deserto non esiste verità alcuna, che ci parli e ci interroghi, da ricercarsi con fatica e gioia, diventi criterio di comportamento che avvicina gli uomini, li rende solidali, li fa crescere insieme. Esistono solo opinioni, tante quante sono le persone, tutte burocraticamente eguali, e ogni gerarchia di valore e giudizio è azzerata. L’uomo è abbandonato a se stesso, la sua possibilità di dominio è dilatata fino a comprendervi ogni cosa, a cancellare il concetto di bene e di male, scendendo nel declivio che porta al male assoluto, da consumarsi anche nel privato. Il male è spogliato della sua tragicità, esposto come merce da prendere o lasciare, teoria da accettare o rifiutare, nel silenzio della coscienza.
Come nell’antico adagio, e corollario, del diritto di proprietà: ius utendi et abutendi. Con la specifica che oggetto d’uso e d’abuso è oggi una persona.
Guardiamo bene ciò che si colpisce a morte. Quell’amore che si presta al bambino appena nato, che è alla base dell’etica naturale e cristiana, della poesia e dell’arte più elevate cresciute nei secoli, si trasforma nel suo contrario: nell’atto terribile di genitori e adulti che possono rifiutarlo e spazzarlo via dal novero dei viventi. Queste parole hanno un suono sinistro, ma sono state pronunciate, senza provocare grandissimo scandalo, o vera ribellione come contro un’offesa all’umanità. Il velo teorico che appanna questi concetti fa crescere la vertigine in chi li legge nella loro realtà corporea, e fa riflettere. Si pensa alle parole di Fëdor Dostoevskij sul male che si reca ai più piccoli, come alla colpa più grave che esista al mondo, all’arte che canta la natività in ogni forma e sfumatura, o ricorda le stragi di innocenti come infamie terminali di una società corrotta, alla gioia dei genitori di tutto il mondo quando nasce un figlio.
Si pensa al patrimonio di bellezza e amore accumulato nella cura dell’infanzia, e ci si accorge che può perdersi per ignominia o per ignavia. Inizia un cammino a ritroso nella storia, e si dà corpo a ipotesi che sembrano appartenere alla fantasia corrotta del marchese De Sade, o di suoi epigoni. Giovanni Paolo II ha denunciato per tempo la «guerra dei potenti contro i deboli» inaugurata dal relativismo proprio nell’epoca dei diritti umani, e ha parlato di una vera «congiura contro la vita» che si va perpetrando, nel silenzio di molti. Oggi ne conosciamo un altro tassello. Benedetto XVI richiama di continuo la necessità di tornare alla Legge di Dio che gli uomini conoscono nel proprio intimo ma che viene nascosta come fosse il prodotto opinabile di un pezzetto di storia, o del pensiero umano fluttuante. Di fronte al frutto così amaro dell’infanticidio che si prospetta (ma qualcosa già si è fatto in qualche Paese) ci si deve chiedere quale possa essere lo sbocco di una china fatale che stiamo scendendo gradino dopo gradino, per tornare ai giorni del primo apparire dell’umanità sulla terra.
Se l’uomo è padrone di sé e degli altri, fino a poter sopprimere il figlio già nato, è inutile che si interroghi sul senso della vita, sulle sue finalità ultime, perché ha già risposto, ha cancellato la propria specificità, la ricerca del bene, la solidarietà con i suoi simili, si è posto come arbitro assoluto della vita. È l’ennesima riprova del fatto che il relativismo crea un deserto attorno a noi, costringe l’umanità a ricominciare daccapo, perché non v’è più spazio per i diritti umani, per la cura dei più deboli, per ogni umanesimo che voglia portare l’uomo oltre la materialità. Si è come ricaduti in quel peccato originale che aveva reso l’uomo superbo fino a sostituirsi a chi l’aveva creato. Ricominciare dalla legge eterna iscritta nella coscienza vuol dire spingere di nuovo l’uomo in avanti, elevarlo come creatura chiamata al bene, rifiutare ogni dominio sugli altri.
Come nell’antico adagio, e corollario, del diritto di proprietà: ius utendi et abutendi. Con la specifica che oggetto d’uso e d’abuso è oggi una persona.
Guardiamo bene ciò che si colpisce a morte. Quell’amore che si presta al bambino appena nato, che è alla base dell’etica naturale e cristiana, della poesia e dell’arte più elevate cresciute nei secoli, si trasforma nel suo contrario: nell’atto terribile di genitori e adulti che possono rifiutarlo e spazzarlo via dal novero dei viventi. Queste parole hanno un suono sinistro, ma sono state pronunciate, senza provocare grandissimo scandalo, o vera ribellione come contro un’offesa all’umanità. Il velo teorico che appanna questi concetti fa crescere la vertigine in chi li legge nella loro realtà corporea, e fa riflettere. Si pensa alle parole di Fëdor Dostoevskij sul male che si reca ai più piccoli, come alla colpa più grave che esista al mondo, all’arte che canta la natività in ogni forma e sfumatura, o ricorda le stragi di innocenti come infamie terminali di una società corrotta, alla gioia dei genitori di tutto il mondo quando nasce un figlio.
Si pensa al patrimonio di bellezza e amore accumulato nella cura dell’infanzia, e ci si accorge che può perdersi per ignominia o per ignavia. Inizia un cammino a ritroso nella storia, e si dà corpo a ipotesi che sembrano appartenere alla fantasia corrotta del marchese De Sade, o di suoi epigoni. Giovanni Paolo II ha denunciato per tempo la «guerra dei potenti contro i deboli» inaugurata dal relativismo proprio nell’epoca dei diritti umani, e ha parlato di una vera «congiura contro la vita» che si va perpetrando, nel silenzio di molti. Oggi ne conosciamo un altro tassello. Benedetto XVI richiama di continuo la necessità di tornare alla Legge di Dio che gli uomini conoscono nel proprio intimo ma che viene nascosta come fosse il prodotto opinabile di un pezzetto di storia, o del pensiero umano fluttuante. Di fronte al frutto così amaro dell’infanticidio che si prospetta (ma qualcosa già si è fatto in qualche Paese) ci si deve chiedere quale possa essere lo sbocco di una china fatale che stiamo scendendo gradino dopo gradino, per tornare ai giorni del primo apparire dell’umanità sulla terra.
Se l’uomo è padrone di sé e degli altri, fino a poter sopprimere il figlio già nato, è inutile che si interroghi sul senso della vita, sulle sue finalità ultime, perché ha già risposto, ha cancellato la propria specificità, la ricerca del bene, la solidarietà con i suoi simili, si è posto come arbitro assoluto della vita. È l’ennesima riprova del fatto che il relativismo crea un deserto attorno a noi, costringe l’umanità a ricominciare daccapo, perché non v’è più spazio per i diritti umani, per la cura dei più deboli, per ogni umanesimo che voglia portare l’uomo oltre la materialità. Si è come ricaduti in quel peccato originale che aveva reso l’uomo superbo fino a sostituirsi a chi l’aveva creato. Ricominciare dalla legge eterna iscritta nella coscienza vuol dire spingere di nuovo l’uomo in avanti, elevarlo come creatura chiamata al bene, rifiutare ogni dominio sugli altri.
«Avvenire» del 6 marzo 2012
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