Oggi (mercoledì 25 novembre) il pm Caiani del caso che vede imputati i vertici di Google per illecito trattamento dei dati e diffamazione nel caso di bullismo su YouTube contro un bambino Down farà la requisitoria finale davanti al giudice Maggi (quello del sequestro Abu Omar) di Milano
di Luciano Floridi *
Si può dire che la cultura è ciò che resta dopo che si è assimilato quello che si è appreso. La definizione, forse un po’ retorica, appare giustificata nel caso della così detta “cultura della rete”. Nella società dell’informazione, abbiamo ormai acquisito nuovi o rinnovati valori etici, regole morali, e principi di convivenza civile legati alla vita online, che consideriamo indisputabili e condivisi. La cultura della rete, che emerge da questo processo, ci insegna, per esempio, che la protezione della proprietà intellettuale è perfettamente compatibile con la libera circolazione delle informazioni, grazie al concetto di “safe harbor”, che protegge legalmente chi contravviene alle leggi sul copyright inavvertitamente e in buona fede.
Il processo a carico di Google, per il reato di concorso in diffamazione aggravata ai danni dell’associazione Vividown, va considerato alla luce di questa cultura della rete e della sua etica dell’informazione. Si tratta della triste vicenda del filmato, poi caricato su Google Video, in cui sono ripresi i maltrattamenti contro un ragazzo disabile. Nel video, uno dei ragazzi diffama l’associazione Vividown. Appena allertata, Google ha rimosso il video, collaborato attivamente con le forze dell’ordine, e offerto le proprie scuse pubblicamente. I bulli sono stati puniti.La famiglia del ragazzo ha scelto di non prendere parte al processo. Le domande etiche che sorgono sono: Google si è comportata bene? Qual è la sua responsabilità morale? Le risposte richiedono tre chiarimenti.
Primo, legalità e moralità non sono due facce della stessa medaglia. Un comportamento legale può essere immorale (lapidare un colpevole) e un comportamento morale può essere illegale (difendere il diritto di voto delle donne). Secondo, le applicazioni tecnologiche raramente sono neutre: esse tendono a essere moralmente buone (stufa elettrica) o cattive (sedia elettrica). Terzo, ci sono alcuni principi universali che aiutano a capire se un’azione è buona o cattiva: non fare agli altri ciò che non vorremmo fosse fatto a noi; agire come se tutti dovessero imitarci; scegliere l’azione che massimizza il benessere del maggior numero di persone coinvolte; rispettare e migliorare l’ambiente in cui si agisce.
Questi chiarimenti mostrano che Google si è comportata giustamente e in modo moralmente responsabile, in senso positivo, a favore del miglioramento dell’ambiente informazionale e per il genere di esistenza che vi si conduce al suo interno. Nello specifico: il comportamento di Google nel caso Vividown è lodabile moralmente e universalizzabile eticamente: tutti dovrebbero prendere esempio dalla sua condotta, che soddisfa principi etici basilari.
La lettrice attenta potrà forse ricordare due potenziali critiche circolate sulla stampa. La prima è che, nel caso dei mass media o di applicazioni tecnologiche come i blogs, chi offre certe informazioni ne è anche responsabile, almeno moralmente, e i video non sono un’eccezione. Questo è vero. La confusione subentra quando, per un’analogia errata, si compara Google Video a una testata giornalistica o televisiva. Google offre uno spazio digitale in cui gli utenti possono scambiarsi i propri files, impegnandosi a rispettare le regole dell’offerta (terms of service) e la legislazione vigente. Se queste regole o leggi sono violate, Google giustamente interviene, come ha fatto prontamente nel caso Vividown. Accusare Google di responsabilità morale è quindi come accusare un parcheggio perché dei ladri sono stati in grado di abbandonarvi momentaneamente una vettura rubata: si deve essere molto confusi.
La seconda obiezione è che, riprendendo l’esempio precedente, il parcheggio può non essere in grado di prevenire l’abbandono della macchina rubata nel suo spazio, ma nel mondo digitale ciò è tecnicamente fattibile. Quindi la responsabilità morale di Google sarebbe quella di non aver fatto abbastanza: avrebbe dovuto monitorare quale sorta di video veniva caricato e impedirne la diffusione a monte, senza aspettare di rimuoverlo a valle. L’errore, in questo caso, è duplice. Da una parte, si pecca di ingenuità. La mera possibilità tecnica non implica la responsabilità morale: anche il parcheggio potrebbe installare strumenti di prevenzione tecnologica, come videocamere collegate con le banche dati della polizia, ma ovviamente a nessuno passa per la mente di incolparlo moralmente se non adotta questa soluzione. Così, sarebbe possibile che ciascuno di noi rinunciasse a tutto per alleviare le vite di coloro che soffrono, ma sarebbe assurdo parlare di obbligo morale. Il problema è ben noto e si chiama “superogazione”, termine che indica il “chiedere troppo”, al di là del moralmente doveroso e del fattibile praticamente. A questo la risposta sembra essere che, nel migliore dei mondi possibili, Google avrebbe potuto prevenire il caricamento e la diffusione del video. Così si pecca di irrealismo, e questa è l’altra parte dell’errore: in quel “migliore dei mondi possibili” non ci sarebbero stati né maltrattamenti né registrazione.
In questo mondo reale, il grande beneficio recato da strumenti di diffusione e interazione informativa come Google Video devono e possono essere conciliati sinergeticamente con la protezione dei diritti umani. Eticamente, la strategia migliore non è instaurare un’autoritaria censura preventiva, che causerebbe un immenso danno al libero scambio delle informazioni e soffocherebbe una buona cultura della rete, ma censurare tempestivamente e fermamente chi non rispetta le regole della convivenza civile online. In altre parole: applicare regole come quella del safe harbor, che fanno prosperare il nostro ambiente digitale e la cultura liberale che esso promuove. Esattamente come ha fatto Google nel caso Vividown.
Il processo a carico di Google, per il reato di concorso in diffamazione aggravata ai danni dell’associazione Vividown, va considerato alla luce di questa cultura della rete e della sua etica dell’informazione. Si tratta della triste vicenda del filmato, poi caricato su Google Video, in cui sono ripresi i maltrattamenti contro un ragazzo disabile. Nel video, uno dei ragazzi diffama l’associazione Vividown. Appena allertata, Google ha rimosso il video, collaborato attivamente con le forze dell’ordine, e offerto le proprie scuse pubblicamente. I bulli sono stati puniti.La famiglia del ragazzo ha scelto di non prendere parte al processo. Le domande etiche che sorgono sono: Google si è comportata bene? Qual è la sua responsabilità morale? Le risposte richiedono tre chiarimenti.
Primo, legalità e moralità non sono due facce della stessa medaglia. Un comportamento legale può essere immorale (lapidare un colpevole) e un comportamento morale può essere illegale (difendere il diritto di voto delle donne). Secondo, le applicazioni tecnologiche raramente sono neutre: esse tendono a essere moralmente buone (stufa elettrica) o cattive (sedia elettrica). Terzo, ci sono alcuni principi universali che aiutano a capire se un’azione è buona o cattiva: non fare agli altri ciò che non vorremmo fosse fatto a noi; agire come se tutti dovessero imitarci; scegliere l’azione che massimizza il benessere del maggior numero di persone coinvolte; rispettare e migliorare l’ambiente in cui si agisce.
Questi chiarimenti mostrano che Google si è comportata giustamente e in modo moralmente responsabile, in senso positivo, a favore del miglioramento dell’ambiente informazionale e per il genere di esistenza che vi si conduce al suo interno. Nello specifico: il comportamento di Google nel caso Vividown è lodabile moralmente e universalizzabile eticamente: tutti dovrebbero prendere esempio dalla sua condotta, che soddisfa principi etici basilari.
La lettrice attenta potrà forse ricordare due potenziali critiche circolate sulla stampa. La prima è che, nel caso dei mass media o di applicazioni tecnologiche come i blogs, chi offre certe informazioni ne è anche responsabile, almeno moralmente, e i video non sono un’eccezione. Questo è vero. La confusione subentra quando, per un’analogia errata, si compara Google Video a una testata giornalistica o televisiva. Google offre uno spazio digitale in cui gli utenti possono scambiarsi i propri files, impegnandosi a rispettare le regole dell’offerta (terms of service) e la legislazione vigente. Se queste regole o leggi sono violate, Google giustamente interviene, come ha fatto prontamente nel caso Vividown. Accusare Google di responsabilità morale è quindi come accusare un parcheggio perché dei ladri sono stati in grado di abbandonarvi momentaneamente una vettura rubata: si deve essere molto confusi.
La seconda obiezione è che, riprendendo l’esempio precedente, il parcheggio può non essere in grado di prevenire l’abbandono della macchina rubata nel suo spazio, ma nel mondo digitale ciò è tecnicamente fattibile. Quindi la responsabilità morale di Google sarebbe quella di non aver fatto abbastanza: avrebbe dovuto monitorare quale sorta di video veniva caricato e impedirne la diffusione a monte, senza aspettare di rimuoverlo a valle. L’errore, in questo caso, è duplice. Da una parte, si pecca di ingenuità. La mera possibilità tecnica non implica la responsabilità morale: anche il parcheggio potrebbe installare strumenti di prevenzione tecnologica, come videocamere collegate con le banche dati della polizia, ma ovviamente a nessuno passa per la mente di incolparlo moralmente se non adotta questa soluzione. Così, sarebbe possibile che ciascuno di noi rinunciasse a tutto per alleviare le vite di coloro che soffrono, ma sarebbe assurdo parlare di obbligo morale. Il problema è ben noto e si chiama “superogazione”, termine che indica il “chiedere troppo”, al di là del moralmente doveroso e del fattibile praticamente. A questo la risposta sembra essere che, nel migliore dei mondi possibili, Google avrebbe potuto prevenire il caricamento e la diffusione del video. Così si pecca di irrealismo, e questa è l’altra parte dell’errore: in quel “migliore dei mondi possibili” non ci sarebbero stati né maltrattamenti né registrazione.
In questo mondo reale, il grande beneficio recato da strumenti di diffusione e interazione informativa come Google Video devono e possono essere conciliati sinergeticamente con la protezione dei diritti umani. Eticamente, la strategia migliore non è instaurare un’autoritaria censura preventiva, che causerebbe un immenso danno al libero scambio delle informazioni e soffocherebbe una buona cultura della rete, ma censurare tempestivamente e fermamente chi non rispetta le regole della convivenza civile online. In altre parole: applicare regole come quella del safe harbor, che fanno prosperare il nostro ambiente digitale e la cultura liberale che esso promuove. Esattamente come ha fatto Google nel caso Vividown.
* uno dei massimi esperti di etica informazionale ( http://www.philosophyofinformation.net/ e http://it.wikipedia.org/wiki/Luciano_Floridi), fondatore e coordinatore del gruppo di ricerca interdipartimentale sulla filosofia dell’informazione all’Università di Oxford.
«La Stampa» del 25 novembre 2009
2 commenti:
"articoli interessanti e utili per il dibattito in classe e per la riflessione personale"...
Non si vedono interventi di allievi, ne riflessioni personali.
Francesco questo blog sembra un enorme opera di plagio! Complimenti.
Notevole il lavoro di selezione degli articoli, ben fatto!
Ciao Jonathan! Come hai letto gli articoli servono per il dibattito in classe e la riflessione personale": il dibatito e la riflessione NON devono aver luogo nel blog, ma IN CLASSE e nell'interiorità dei lettori.
Questo mio blog (e in realtà il termine è anche sbagliato per un tipo di 'cosa' come questa) E' e VUOLE ESSERE un'opera di plagio: NON nasce come esercizio creativo, ma è un deposito di articoli che a mio giudizio sono stimolanti. L'opera di selezione è l'unica attività creativa (se vogliamo almeno questo concederlo ...) che ha la pretesa di avere il mio lavoro. E SOLO in questo reputo sia la sua utilità. Grazie per l'intervento!
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