Esce da Bompiani un libro dello scrittore scampato alla Shoah: l’amaro racconto della sua condizione nell’Ungheria sovietizzata
di Imre Kertesz
«Gridano più di noi i poeti, gli avvocati, i filosofi, i preti», dice Tadeusz Borowski. «E infine risulterà come un guasto, un incidente, il fatto che alcuni di noi siano sopravvissuti lo stesso», aggiunge Jean Améry. Sto citando le parole di autori che ci hanno tramandato autentiche esperienze dell’Olocausto, e che parlano già la lingua del dopo-Auschwitz. Che tipo di lingua è questa? Io, personalmente, prendendo in prestito un termine tecnico musicale, la chiamo lingua atonale. Infatti, se riteniamo che la tonalità sia la convenzione comunemente accettata dell’impostazione univoca, allora l’atonalità è la dichiarazione dell’invalidità di questo comune accordo, di questa tradizione. Un tempo anche nella letteratura esisteva un suono di base, un ordine dei valori basato sulla morale e sull’etica del comune accordo che stabiliva il sistema relativo delle frasi e dei pensieri. Quei pochi che hanno dedicato la loro esistenza all’Olocausto, sapevano con esattezza che la continuità della loro vita si era interrotta, che non potevano proseguire con la loro vita, per così dire, nel modo socialmente accettato, e che non potevano esprimere le loro esperienze nella lingua precedente ad Auschwitz. Invece di impegnarsi a dimenticare, di cercare il calore della normale esistenza umana, hanno ricostruito la loro personalità annientata nei campi di sterminio con le esperienze acquisite negli stessi campi, diventando i medium di Auschwitz. Però grazie a questo hanno scoperto troppo presto l’assurdità della sopravvivenza. Lo spirito di Auschwitz che li ha impregnati come un veleno, la cortese indifferenza della società, le tante porte aperte che non hanno potuto varcare, e che non valeva nemmeno la pena, come se avessero scoperto il giudizio impresso su di loro a fuoco, come una grave ferita che non guarirà mai. Jean Améry e Tadeusz Borowski si sono uccisi, come Paul Celan, Primo Levi e tanti altri ancora, di cui non conosciamo nemmeno i nomi. Ho dovuto dire tutto questo, e non sarei sincero se non ammettessi che pensando a queste frasi coerenti mi coglie sempre un certo imbarazzo, la necessità di spiegarmi. Oggi so bene che l’analisi era precisa, come ho scritto nel 1991 nel mio Diario delle galere: sono stato salvato dal suicidio da quella «società» che, dopo l’esperienza dei campi di concentramento, con le sembianze del «socialismo» ha dimostrato che la libertà, la liberazione, la grande catarsi e tutto ciò di cui discutono e in cui credono, in parti più fortunate del mondo, intellettuali, pensatori e filosofi, qui non può esistere; questo fatto ha assicurato la continuità della mia vita da prigioniero, escludendo ogni minima possibilità di errore. Per questo motivo io non sono stato raggiunto dall’onda anomala della delusione che ha iniziato a travolgere le persone con ricordi simili ai miei che vivevano in società più liberali e inutilmente acceleravano il passo davanti all’onda: «L’acqua pian piano è arrivata loro alla gola». È andata così, e quando ho iniziato a scrivere è stato come se avessi iniziato a farlo nel presente prolungato di Auschwitz. L’Olocausto e lo stato esistenziale in cui scrivevo dell’Olocausto si sono intrecciati indissolubilmente. Per quanto possa risultare paradossale, nella dittatura comunista la mia libertà di scrittore era illimitata - tanto quanto erano pochi i luoghi ad Auschwitz dove si poteva conservare un diario segreto. In una simile situazione non vale la pena mentire, e nemmeno valutare il silenzio artistico, o magari manipolare, poiché la possibilità della pubblicazione è tanto incerta quanto quella della sopravvivenza. In un certo senso, nelle condizioni della censura totale, la situazione dello scrittore è più semplice perché la stessa libertà è creata dall’oppressione, attraverso il fatto che giorno dopo giorno nega e quindi giorno dopo giorno riconferma la propria esistenza. Indubbiamente simili considerazioni facilmente portano alla disperazione, perché si imbattono sempre nell’assenza di una via d’uscita. Ma anche nel più completo smarrimento, se prestiamo attenzione, balena una lontana promessa, quella kierkegaardiana speranza al di là di ogni speranza che, in questo caso, forse si cela nella sorte comune, più precisamente nell’essere privati della sorte, poiché una dittatura è facilmente rappresentabile con un’altra dittatura e ci può cogliere per un attimo l’illusione che parlando dell’Olocausto si parli di tutti e che parlando della sofferenza si possa essere portavoce della sofferenza di tutti. E questa illusione è alimentata proprio dal tacere o dal rifiuto con cui i potenti accolgono l’opera e l’isolamento in cui spingono il suo autore. Nietzsche, che con il suo ragionamento radicale, con il suo stile puro e travolgente, un tempo, proprio quando le sue opere erano state messe all’indice nell’Ungheria socialista, era sostanzialmente il mio maestro, afferma che ciò che non uccide l’uomo aumenta la sua vitalità. Deve essere così, perché la dittatura mi aiutava non solo a tenermi in vita, ma anche a trovare la lingua in cui dovevo scrivere. Infatti, in nessun altro luogo è così evidente che la lingua «non è pensata per te e nemmeno per me» quanto in uno Stato totalitario. Qui lo scrittore può avere solo uno scopo, e questo scopo è negativo e creativo al tempo stesso: allontanarsi dalla lingua «qui in vigore», che ormai ha arrestato ogni sentimento e pensiero umano di un tempo e li ha usati a proprio favore, come lavoratori forzati, e con ciò che è rimasto della lingua, con i frantumi mutilati, creare il suo personaggio, il sopravvissuto dell’Olocausto che, per citare Cioran, si sente fuori dall’umanità.
Nato nel 1929 a Budapest, Imre Kertész è sopravvissuto da ragazzo ai lager nazisti. Ha vinto il Nobel nel 2002
Il brano pubblicato in questa pagina è tratto dal libro del premio Nobel Imre Kertész, Il secolo infelice (pagine 263, 18), in uscita da Bompiani mercoledì 7 marzo. Questo volume presenta al lettore italiano una serie di saggi e discorsi dello scrittore ebreo ungherese, tradotti da Krisztina Sándor con una consulenza di Alessandro Melazzini, che coprono un arco di tempo dal 1990 al 2002 e affrontano temi come la memoria dell’Olocausto, il confronto tra i regimi totalitari fascisti e comunisti, l’identità ebraica e il suo rapporto con lo Stato d’Israele. Il testo qui anticipato è uno stralcio da un discorso pronunciato da Imre Kertész nel novembre 2000, alla rassegna Berliner Funktionen.
«Corriere della sera» del 4 marzo 2007
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