24 ottobre 2019

Fedez-Martani e l'eterna lotta della diffamazione sui social network

La procura di Roma chiede l'archiviazione per la querela sporta dal rapper verso l'ex concorrente del GF per un tweet sul party al supermercato. Oltre il caso, sono le motivazioni a dare da riflettere
di Simone Cosimi
Ci risiamo. Insulti e offese sui social network sono più o meno gravi di quelli espressi di persona o in cerchie sociali ristrette? Per molti la sterminata platea digitale (effettiva o potenziale) è un’aggravante dell’eventuale diffamazione o delle ingiurie, che sono state depenalizzate dal 2016. Per altri, a quanto pare, è la credibilità di quegli ambienti a dover essere considerata per prima, al di là del seguito dei protagonisti. Lo sostiene la procura di Roma che ha chiesto l’archiviazione di una querela che il rapper Fedez aveva sporto contro Daniela Martani, ex concorrente del Grande Fratello 2009.
In occasione della festa a sorpresa in un supermercato di Milano organizzata dalla moglie Chiara Ferragni, debitamente documentata sui social dai protagonisti e dagli invitati con pesanti strascichi polemici per l’atteggiamento sprezzante nei confronti dei prodotti, molti dei quali andati sprecati, Martani scrisse un anno fa su Twitter il seguente post: “Io ve lo dico da anni che sono due idioti palloni gonfiati irrispettosi della vita delle persone e degli animali. Per far parlare di loro non sanno più cosa inventarsi. Fare una festa a casa era troppo normale altrimenti chi glieli mette i like”. Fedez, all’anagrafe Federico Leonardo Lucia, presentò querela. Oggi, appunto, la richiesta di archiviazione. Che comunque è solo una richiesta: i legali del cantante si sono opposti in virtù del fatto che “la diffusione di un messaggio diffamatorio” su Facebook, Twitter o Instagram, proprio perché può raggiungere un numero enorme di utenti, “integra un’ipotesi di diffamazione aggravata”.
L’ex assistente di volo di Alitalia è tornata sul punto questa mattina, sempre via Twitter: “Gli sono arrivato (sic) milioni di insulti, invece di spargersi cenere sul capo per quello che fecero nel supermercato tirandosi addosso frutta e verdura, #Fedez e #ChiaraFerragni mi avevano denunciata. Beh gli è andata male. Il PM ha chiesto l’archiviazione”. Dal punto di vista del gesto, e in fondo anche della presunta diffamazione, si è in fondo visto e letto di peggio: il grottesco party al supermarket fu in effetti uno dei momenti di massimo scollamento dei re Mida del Like dalla realtà di milioni di persone (ma si scusarono) e l’osservazione di Martani, per quello che siamo abituati a ingoiare sulle piattaforme, perfino moderata.
Tuttavia il punto è un altro, e chiaramente si lancia oltre questa storia. Che forse potrà segnare un precedente interessante e anche se si tratta solo di una richiesta di archiviazione segnala evidentemente un certo orientamento dei giudici inquirenti. L’idea, cioè, che le piattaforme social, in virtù di una “scarsa considerazione e credibilità” non siano “idonee a ledere la reputazione altrui”. Una tesi piuttosto complessa da sostenere, in una società che vive sempre di più il confronto con la realtà digitale che si sovrappone a quella fisica e delle conseguenze, spesso drammatiche, della prima sulla seconda.
I pubblici ministeri, per giunta in presenza di due star dei social, sostengono dunque che una certa sfera di confronto, in questo caso quella delle piattaforme sociali, non valga granché. E che quindi in fondo la gravità di quanto vi accade, possibili diffamazioni incluse o fatti di altro genere, sia da considerarsi inferiore rispetto a come sarebbe valutata se fosse successo altrove. Lo decidono loro, o meglio questa la loro proposta per l’archiviazione. Così, almeno, pare di capire dalle cronache.
Secondo i legali di Fedez – contro cui Martani, animalista convinta, si è scagliata per esempio quando il rapper e la moglie hanno indossato pellicce naturali – la questione è del tutto opposta: proprio perché un numero enorme di persone li frequenta l’offesa è molto grave. Altrimenti si corre il rischio di trasformarli “in una vera e propria zona franca in cui tutto e concesso”. Il quadro è mutato, dalle mobilitazioni dell’ex presidente della Camera Laura Boldrini contro gli hater fino a iniziative come la campagna #odiareticosta, la consapevolezza di come quel che si scrive e si fa online non possa essere giudicato in modo differente rispetto alla sfera offline è senz’altro aumentata. E se il caso specifico è ricco di sfumature sulle quali ovviamente non sta a noi entrare, certo la valutazione di fondo della richiesta di archiviazione rischierebbe di dilapidare quei pochi passi avanti che siamo riusciti a fare i termini di cittadinanza digitale.
La procura scrive infatti al gip che “sui social accade che un numero illimitato di persone, appartenenti a tutte le classi sociali e livelli culturali, avverta la necessità immediata di sfogare la propria rabbia e frustrazione, scrivendo fuori da qualsiasi controllo qualunque cosa, anche con termini scurrili e denigratori che in astratto possono integrare il reato di diffamazione, ma che in concreto sono privi di offensività”. A parte che è una rappresentazione parziale di quegli ecosistemi, inquadrati come dei porcili senza senso dei quali lo Stato di diritto può eventualmente fregarsene. Ma chi decide in che misura quelle frasi rimangano davvero in astratto e se davvero possano considerarsi prive di offensività, quando lette, rilanciate e spesso sfruttate per costruire ulteriori attacchi da centinaia se non migliaia di utenti?

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