di Massimo Gramellini
Alla notizia della possibile estinzione del pappagallo neozelandese (detto anche pappagallo Alitalia perché fatica a volare), gli amanti della natura insorsero giustamente per sensibilizzare l’opinione pubblica. Invece, dopo la rivelazione dei ricercatori dell’università di Gerusalemme che il maschio occidentale ha smarrito la metà dei suoi spermatozoi, nessun amante dell’umanità è sembrato preoccuparsi. La macchina dell’informazione ha digerito e sputato il ferale annuncio in meno di ventiquattr’ore e in nessuna città europea o nordamericana si segnalano sit-in di protesta o quantomeno code nei reparti di andrologia. Non è la prima volta che in Occidente ci troviamo alle prese con il problema delle culle vuote. Ma è la prima volta che sembriamo non considerarlo un problema. L’imperatore Augusto fu visto battere la testa contro un muro del Senato quando comprese che Roma era diventata così sterile da non essere in grado di sostituire i quindicimila soldati scomparsi nella battaglia di Teutoburgo contro i trisavoli della Merkel, mentre appena due secoli prima era riuscita a rimpiazzare in un batter di ciglia le quasi centomila perdite subite dai cartaginesi, trisavoli dei migranti. Gli eredi di Augusto, concentrati su temi che riguardano la loro sopravvivenza, come i vitalizi e la legge elettorale, di quella dell’Occidente se ne infischiano.
E appena smettono di farlo rimediano risolini imbarazzati — è successo a Renzi quando ha varato il «dipartimento mamme» — o gaffe imbarazzanti, come la parlamentare del Pd che rivendicava la salvaguardia della razza, espressione che i crimini nazisti hanno espulso per sempre dal lessico commestibile. Ma in genere di questa materia non se ne preoccupa e tantomeno occupa nessuno, se non i nostalgici alla Trump, che però indossano solo idee difensive e vorrebbero tornare a un passato di muri e di dazi. Gli altri tacciono. Non si discute la posizione, più che legittima, di chi è favorevole alla nostra lenta autodissoluzione per garantire la sopravvivenza di un pianeta già sufficientemente popolato. L’associazione inglese «Having Kids» ha considerato l’eventuale nascita di un terzo figlio degli eredi al trono William e Kate «non sostenibile per l’ambiente e l’economia della Gran Bretagna». (La regina Vittoria di figli ne ebbe nove, ma ai tempi dell’Impero Britannico si pensava ancora che farne tanti aiutasse, se non l’ambiente, certamente l’economia). Il sospetto, però, è che la maggioranza degli occidentali, lungi dal desiderare la propria fine, semplicemente non ne abbia coscienza. Si parla spesso del divario tra realtà vera e realtà percepita. L’impressione è che si percepiscano più migranti e più pericoli di quanti ne indichino le statistiche, ma che non si percepisca affatto la drastica e documentata riduzione delle culle, dei bambini e degli adolescenti, anche solo rispetto a vent’anni fa. Tanto che gli avversari della società multietnica sono i primi ad affermare: «Siamo già fin troppi così».
Il crollo delle nascite potrà anche imputarsi alla crisi economica e alla mancanza di politiche a sostegno della famiglia, ma il calo del desiderio — di cui quello delle nascite è solo una delle conseguenze — evoca le storture di una civiltà sempre meno connessa con i ritmi e le leggi della natura, in cui si parla continuamente di sesso, ma lo si pratica sempre di meno. Un’epidemia che è arrivata a lambire persino gli zoo, se è vero che i maschi delle tigri vengono trattati con il Viagra per supplire a una desolante carenza di iniziativa, benché nel loro caso non si possano neanche tirare in ballo le distrazioni del calciomercato. Per quanto riguarda gli umani, solo le nazioni più evolute, quelle scandinave, stanno tentando una riscossa a base di spot televisivi in cui si reclamizza il più antico e dimenticato dei piaceri. Con qualche risultato sull’indice demografico, pare. Ma da che cosa dipenderà questa gigantesca rimozione collettiva del problema? Certamente dalla paura di prenderne coscienza e dalla indisponibilità a cambiare stile di vita. Ma potrebbe esserci anche dell’altro: la scomparsa del senso di missione che ogni civiltà reca con sé. Come se l’Occidente sentisse di avere esaurito il suo ciclo bimillenario e fosse diventato meno fertile perché si è rassegnato all’idea di dovere passare la mano. In un saggio di Robert Kaplan intitolato Monsoon si profetizza un futuro prossimo in cui le due potenze mondiali saranno Cina e India e dove proprio a quest’ultima toccherà il compito di portare avanti la fiaccola della civiltà occidentale che i nostri spermatozoi dimezzati stanno spegnendo nel disinteresse di tutti. Chissà che cominciare a parlarne non riattizzi un po’ il fuoco.
E appena smettono di farlo rimediano risolini imbarazzati — è successo a Renzi quando ha varato il «dipartimento mamme» — o gaffe imbarazzanti, come la parlamentare del Pd che rivendicava la salvaguardia della razza, espressione che i crimini nazisti hanno espulso per sempre dal lessico commestibile. Ma in genere di questa materia non se ne preoccupa e tantomeno occupa nessuno, se non i nostalgici alla Trump, che però indossano solo idee difensive e vorrebbero tornare a un passato di muri e di dazi. Gli altri tacciono. Non si discute la posizione, più che legittima, di chi è favorevole alla nostra lenta autodissoluzione per garantire la sopravvivenza di un pianeta già sufficientemente popolato. L’associazione inglese «Having Kids» ha considerato l’eventuale nascita di un terzo figlio degli eredi al trono William e Kate «non sostenibile per l’ambiente e l’economia della Gran Bretagna». (La regina Vittoria di figli ne ebbe nove, ma ai tempi dell’Impero Britannico si pensava ancora che farne tanti aiutasse, se non l’ambiente, certamente l’economia). Il sospetto, però, è che la maggioranza degli occidentali, lungi dal desiderare la propria fine, semplicemente non ne abbia coscienza. Si parla spesso del divario tra realtà vera e realtà percepita. L’impressione è che si percepiscano più migranti e più pericoli di quanti ne indichino le statistiche, ma che non si percepisca affatto la drastica e documentata riduzione delle culle, dei bambini e degli adolescenti, anche solo rispetto a vent’anni fa. Tanto che gli avversari della società multietnica sono i primi ad affermare: «Siamo già fin troppi così».
Il crollo delle nascite potrà anche imputarsi alla crisi economica e alla mancanza di politiche a sostegno della famiglia, ma il calo del desiderio — di cui quello delle nascite è solo una delle conseguenze — evoca le storture di una civiltà sempre meno connessa con i ritmi e le leggi della natura, in cui si parla continuamente di sesso, ma lo si pratica sempre di meno. Un’epidemia che è arrivata a lambire persino gli zoo, se è vero che i maschi delle tigri vengono trattati con il Viagra per supplire a una desolante carenza di iniziativa, benché nel loro caso non si possano neanche tirare in ballo le distrazioni del calciomercato. Per quanto riguarda gli umani, solo le nazioni più evolute, quelle scandinave, stanno tentando una riscossa a base di spot televisivi in cui si reclamizza il più antico e dimenticato dei piaceri. Con qualche risultato sull’indice demografico, pare. Ma da che cosa dipenderà questa gigantesca rimozione collettiva del problema? Certamente dalla paura di prenderne coscienza e dalla indisponibilità a cambiare stile di vita. Ma potrebbe esserci anche dell’altro: la scomparsa del senso di missione che ogni civiltà reca con sé. Come se l’Occidente sentisse di avere esaurito il suo ciclo bimillenario e fosse diventato meno fertile perché si è rassegnato all’idea di dovere passare la mano. In un saggio di Robert Kaplan intitolato Monsoon si profetizza un futuro prossimo in cui le due potenze mondiali saranno Cina e India e dove proprio a quest’ultima toccherà il compito di portare avanti la fiaccola della civiltà occidentale che i nostri spermatozoi dimezzati stanno spegnendo nel disinteresse di tutti. Chissà che cominciare a parlarne non riattizzi un po’ il fuoco.
«Corriere della sera» del 29 luglio 2017
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