Addio a Umberto Eco, il filosofo inquieto
di Mario De Caro
Come la maggior parte degli italiani alfabetizzati, ho sentito parlare di Umberto Eco molto presto. Avevo, credo, dodici anni quando lessi la Fenomenologia di Mike Bongiorno, che nell'Italia del boom giocò un ruolo assai maggiore della Fenonomenologia dello spirito di Hegel.
Entusiasta di quel testo, lessi poi un altro racconto di Eco, Nonita (per capire solo vari anni dopo che era una parodia di Lolita), e le sue formidabili stroncature dei classici da parte di immaginari critici coevi. Poi passai ai suoi testi di semiotica e di estetica e, soprattutto, al suo Come si fa una tesi di laurea, testo capitale per tutti i laureandi in discipline umanistiche prima dell'affermazione di internet.
Poi venne il 1980 e Il nome della rosa. Lo lessi due volte in una settimana, tanto fu il mio entusiasmo per le avventure di Guglielmo di Baskerville, di Adso da Melk e di Jorge da Burgos. Mi divertii moltissimo a decrittare i giochi letterari echiani: i giochi borgesiani, le citazioni di Voltaire, la ripresa di peso della Storia di fra Michele Minorita.
Allora, però, non avevo ancora gli strumenti culturali per capire che che sullo sfondo di quel geniale romanzo c'era la veneranda questione filosofica del realismo, rispetto alla quale trent'anni dopo avrei collaborato con Eco nel volume Bentornata realtà (Einaudi). Cosa c'entri Il nome della rosa con il tema del realismo è presto detto. Come molti ricorderanno, uno dei temi classici della filosofia medievale fu la "questione degli universali". Il problema non era quello di stabilire se nel mondo reale esistono veramente le rose, le cose verdi e i professori: di queste cose nessuno dubitava nel Medioevo come nessuno dubita oggi (filosofi dadaisti a parte, naturalmente). Il problema, piuttosto, era quello di capire cosa le rose, le cose verdi e i professori sono effettivamente.
Su questo tema i filosofi medievali si dividevano in due scuole principali: i nominalisti e i realisti; e le conseguenze della disputa erano importanti, sul piano della morale, della scienza e, soprattutto, della teologia. Secondo i realisti, tutte le rose, tutte le cose verdi e tutti i professori condividono essenze comuni (la "rosità", la "verdezza", la "professorità"); secondo i nominalisti, invece, le singole rose (le singole cose verdi, i singoli professori) sono invece accomunate soltanto dai concetti mediante cui noi le descriviamo o addirittura dai nomi che noi attribuiamo loro: nella realtà non esiste nulla oltre le cose singole, insomma. Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus, recita la famosa chiusa del Nome della rosa.
La rosa originaria (intesa come l'essenza di tutte le rose) sta solo nel nome, perché i nomi delle essenze sono nudi, perché non rimandano a nessuna essenza reale. E, in effetti, nei suoi primi testi filosofici, come La struttura assente, Eco sembrava tendere verso il nominalismo.
Ad ogni modo, nella maturità (Kant e l'ornitorinco) prese a difendere invece una concezione esplicitamente realistica ("vetero-realismo", la chiamava scherzosamente, per distanziarsi almeno un po' dal "nuovo realismo" di Maurizio Ferraris).
La sua idea era che la realtà fa sempre attrito rispetto ai nostri tentativi di determinarla e di controllarla: le interpretazioni, insomma trovano sempre limiti invalicabili nel modo in cui il mondo è fatto. Ma, per fortuna, ora che Umberto Eco se ne è andato, ci resteranno almeno le sue interpretazioni.
Entusiasta di quel testo, lessi poi un altro racconto di Eco, Nonita (per capire solo vari anni dopo che era una parodia di Lolita), e le sue formidabili stroncature dei classici da parte di immaginari critici coevi. Poi passai ai suoi testi di semiotica e di estetica e, soprattutto, al suo Come si fa una tesi di laurea, testo capitale per tutti i laureandi in discipline umanistiche prima dell'affermazione di internet.
Poi venne il 1980 e Il nome della rosa. Lo lessi due volte in una settimana, tanto fu il mio entusiasmo per le avventure di Guglielmo di Baskerville, di Adso da Melk e di Jorge da Burgos. Mi divertii moltissimo a decrittare i giochi letterari echiani: i giochi borgesiani, le citazioni di Voltaire, la ripresa di peso della Storia di fra Michele Minorita.
Allora, però, non avevo ancora gli strumenti culturali per capire che che sullo sfondo di quel geniale romanzo c'era la veneranda questione filosofica del realismo, rispetto alla quale trent'anni dopo avrei collaborato con Eco nel volume Bentornata realtà (Einaudi). Cosa c'entri Il nome della rosa con il tema del realismo è presto detto. Come molti ricorderanno, uno dei temi classici della filosofia medievale fu la "questione degli universali". Il problema non era quello di stabilire se nel mondo reale esistono veramente le rose, le cose verdi e i professori: di queste cose nessuno dubitava nel Medioevo come nessuno dubita oggi (filosofi dadaisti a parte, naturalmente). Il problema, piuttosto, era quello di capire cosa le rose, le cose verdi e i professori sono effettivamente.
Su questo tema i filosofi medievali si dividevano in due scuole principali: i nominalisti e i realisti; e le conseguenze della disputa erano importanti, sul piano della morale, della scienza e, soprattutto, della teologia. Secondo i realisti, tutte le rose, tutte le cose verdi e tutti i professori condividono essenze comuni (la "rosità", la "verdezza", la "professorità"); secondo i nominalisti, invece, le singole rose (le singole cose verdi, i singoli professori) sono invece accomunate soltanto dai concetti mediante cui noi le descriviamo o addirittura dai nomi che noi attribuiamo loro: nella realtà non esiste nulla oltre le cose singole, insomma. Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus, recita la famosa chiusa del Nome della rosa.
La rosa originaria (intesa come l'essenza di tutte le rose) sta solo nel nome, perché i nomi delle essenze sono nudi, perché non rimandano a nessuna essenza reale. E, in effetti, nei suoi primi testi filosofici, come La struttura assente, Eco sembrava tendere verso il nominalismo.
Ad ogni modo, nella maturità (Kant e l'ornitorinco) prese a difendere invece una concezione esplicitamente realistica ("vetero-realismo", la chiamava scherzosamente, per distanziarsi almeno un po' dal "nuovo realismo" di Maurizio Ferraris).
La sua idea era che la realtà fa sempre attrito rispetto ai nostri tentativi di determinarla e di controllarla: le interpretazioni, insomma trovano sempre limiti invalicabili nel modo in cui il mondo è fatto. Ma, per fortuna, ora che Umberto Eco se ne è andato, ci resteranno almeno le sue interpretazioni.
«Avvenire» del 21 febbraio 2016
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