Il filosofo canadese Clancy Martin, studioso di Kierkegaard: meglio pensare a una nuova «memoria digitale» che dia spazio al lutto, al pentimento e alla rinascita
di Serena Danna
Clancy Martin ha un talento naturale nel raccontare le complicazioni che nascono dai vizi. Nonostante sia un grande esperto di Kierkegaard, lo scrittore canadese, 45 anni, che insegna filosofia all’università del Missouri, non utilizza mai il filtro della morale quando scrive di passione, che sia quella per l’alcol, per il sesso o per il furto - argomenti dei suoi libri nonché costanti della sua vita. La sua ultima opera, Adulterio in America Centrale (Indiana), racconta di una storia d’amore clandestina, che si trasforma presto in ossessione per la protagonista Brett. Martin definisce il romanzo uno studio sui «pericoli dell’amore».
Cominciamo dal primo pericolo: le conseguenze dell’innamoramento.
«Le storie d’amore brevi e intense si sono rivelate presto uno specchio utile della mia debolezza: mi ritrovo a rivelare tutti i miei difetti, a svelare i miei tentativi di essere più attraente per prolungare l’estasi di quei giorni di vertigine. Nelle relazioni durature, come quella con mia moglie e con i miei figli, sembra accadere esattamente l’opposto: scopro delle forze che non ero sicuro di avere e quel sentimento mi rassicura. La relazione amorosa rappresenta la più piena espressione della vita, contiene tutto il male e il bene e la solitudine, l’angoscia, la gioia e il conforto dell’essere umano. È questo il suo valore. Non credo ci sia nulla nella vita umana di comparabile a un rapporto d’amore».
È vero che si parla (e si scrive) troppo dell’inizio degli amori e poco della fine?
«Passiamo molto tempo a discutere di anatomia dell’innamoramento, delle unioni che funzionano e analizziamo poco la struttura dei cuori spezzati e l’ossessione che si sviluppa verso l’amor perduto. Ci piace il lieto fine e tendiamo a evitare la parte triste. Naturalmente la letteratura è piena di cantori della fine: Raymond Carver, Ferrante, Yates, Didion, Renata Adler e Moravia. Nel mio libro, la prima metà si concentra sull’innamoramento, la seconda sulla disgregazione. Tuttavia credo che dovremmo occuparci di più del lungo processo di guarigione: proprio questo segmento è il meno servito. Penso a quei giorni in cui ti alzi dal letto alle nove di sera solo per trovare qualcuno da portarci».
A proposito di ossessioni, qual è il ruolo delle tecnologie digitali nel discorso amoroso?
«Amo vedere come le persone giurano di smetterla con Facebook e poi ci tornano, e di nuovo “adesso basta”, e poi eccoli collegati. L’attacco di follia che porta a cancellare tutti i vecchi messaggi e le chat per poi piangere la loro perdita. E, una volta ri-innamorati, cominciare tutto daccapo. In realtà, non credo che la falsa memoria del digitale cambi davvero qualcosa: il significato della memoria dipende dal modo in cui ti relazioni ad essa. Non c’è dubbio che internet contribuisca all’infelice prolungamento del processo di lutto, all’insana, infinita ossessione verso l’amante che non c’è più. Sono un romanziere quindi credo nell’uso della memoria come strumento per capire il presente, per dargli un senso, come possibilità di crescita. Penso anche che il pentimento sia una cosa buona. Come dice Kierkegaard, la vita può essere compresa solo all’indietro ma guardando avanti. Passare il tempo a sviscerare le tracce digitali di una storia finita è utile quanto guardare l’album delle nozze disteso sul pavimento della propria camera da letto. Questo non significa che dovresti fare come la mia mamma, che ha bruciato tutte le fotografie del suo matrimonio (incluse quelle di noi figli!). Penso piuttosto che dobbiamo ancora trovare una strada ragionevole per integrare la nuova memoria digitale nella struttura più ampia del lutto, del pentimento e della rinascita».
Cominciamo dal primo pericolo: le conseguenze dell’innamoramento.
«Le storie d’amore brevi e intense si sono rivelate presto uno specchio utile della mia debolezza: mi ritrovo a rivelare tutti i miei difetti, a svelare i miei tentativi di essere più attraente per prolungare l’estasi di quei giorni di vertigine. Nelle relazioni durature, come quella con mia moglie e con i miei figli, sembra accadere esattamente l’opposto: scopro delle forze che non ero sicuro di avere e quel sentimento mi rassicura. La relazione amorosa rappresenta la più piena espressione della vita, contiene tutto il male e il bene e la solitudine, l’angoscia, la gioia e il conforto dell’essere umano. È questo il suo valore. Non credo ci sia nulla nella vita umana di comparabile a un rapporto d’amore».
È vero che si parla (e si scrive) troppo dell’inizio degli amori e poco della fine?
«Passiamo molto tempo a discutere di anatomia dell’innamoramento, delle unioni che funzionano e analizziamo poco la struttura dei cuori spezzati e l’ossessione che si sviluppa verso l’amor perduto. Ci piace il lieto fine e tendiamo a evitare la parte triste. Naturalmente la letteratura è piena di cantori della fine: Raymond Carver, Ferrante, Yates, Didion, Renata Adler e Moravia. Nel mio libro, la prima metà si concentra sull’innamoramento, la seconda sulla disgregazione. Tuttavia credo che dovremmo occuparci di più del lungo processo di guarigione: proprio questo segmento è il meno servito. Penso a quei giorni in cui ti alzi dal letto alle nove di sera solo per trovare qualcuno da portarci».
A proposito di ossessioni, qual è il ruolo delle tecnologie digitali nel discorso amoroso?
«Amo vedere come le persone giurano di smetterla con Facebook e poi ci tornano, e di nuovo “adesso basta”, e poi eccoli collegati. L’attacco di follia che porta a cancellare tutti i vecchi messaggi e le chat per poi piangere la loro perdita. E, una volta ri-innamorati, cominciare tutto daccapo. In realtà, non credo che la falsa memoria del digitale cambi davvero qualcosa: il significato della memoria dipende dal modo in cui ti relazioni ad essa. Non c’è dubbio che internet contribuisca all’infelice prolungamento del processo di lutto, all’insana, infinita ossessione verso l’amante che non c’è più. Sono un romanziere quindi credo nell’uso della memoria come strumento per capire il presente, per dargli un senso, come possibilità di crescita. Penso anche che il pentimento sia una cosa buona. Come dice Kierkegaard, la vita può essere compresa solo all’indietro ma guardando avanti. Passare il tempo a sviscerare le tracce digitali di una storia finita è utile quanto guardare l’album delle nozze disteso sul pavimento della propria camera da letto. Questo non significa che dovresti fare come la mia mamma, che ha bruciato tutte le fotografie del suo matrimonio (incluse quelle di noi figli!). Penso piuttosto che dobbiamo ancora trovare una strada ragionevole per integrare la nuova memoria digitale nella struttura più ampia del lutto, del pentimento e della rinascita».
«Corriere della sera» del 21 novembre 2015
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