di Carlo Ossola
«Quand’anche Dio non esistesse, la Religione sarebbe ancora Santa e Divina. // Dio è il solo essere che, per regnare, non ha neppur bisogno d’esistere». Sono questi i primi due aforismi delle Fusées di Baudelaire [Parigi 1821 -1867], che inaugurano i suoi Journaux intimes. La mirabile versione delle Fleurs du mal [1857] meditata da Giorgio Caproni restituisce infine, dopo un secolo e mezzo, l’impressionante sfida di Baudelaire: parlare del Divino sotto un cielo vuoto di Dio: "Sul fondo dell’Ignoto".
Non esito a dire che questa traduzione ricapitoli due secoli, l’Ottocento in Baudelaire, il Novecento in Caproni, allo stesso modo che Kant e Nietzsche hanno ricapitolato i loro secoli di pensiero, e sotto la stessa istanza: se anche Dio non esistesse, il suo Vuoto è tremendo, altrettanto impronunciabile e fatale che la sua Presenza: «ces malédictions, ces blasphèmes, ces plaintes, / ces extases, ces cris, ces pleurs, ces Te Deum…»; e Caproni: «queste maledizioni, queste bestemmie, questi lamenti, / queste estasi, questi urli, questi pianti, questi Te Deum, / sono un’eco ripetuta da mille labirinti; sono pei cuori / mortali, un oppio divino! // […] // Ché davvero, o Signore, la miglior prova di dignità a noi / concessa è proprio tale singhiozzo che, rotolando d’era in / era, viene a morir sulle rive della tua eternità». (I fari).
Una fedeltà a questo vuoto, scavato da Baudelaire, che guiderà Caproni sino al fondo di Res amissa: «Uno dei tanti, anch’io. / Un albero fulminato / dalla fuga di Dio» (Anch’io).
Baudelaire rompe con l’ottimismo nomenclatorio di Victor Hugo: «Questi immagina che basti adoprare parole più numerose – osserva Yves Bonnefoy – perché si rafforzi il rapporto con il mondo. Vuole articolare la rappresentazione, ma è perché dimentica, almeno a tratti, che è la presenza che conta». La presenza improvvisa, nei Tableaux parisiens, d’Una passante: «Un lampo… poi la notte! - Bellezza fuggitiva / d’uno sguardo che m’ha fatto all’istante rinascere / non più ti rivedrò che nell’eternità?»; o la lotta senza posa con il Demone che incalza: «Eccolo che getta nei miei occhi smarriti / vesti sudice, ferite aperte, / il corredo sanguinante della Distruzione» (La Destruction).
E Bonnefoy mette in rilievo, proprio su tale tema, le affinità con Delacroix, che Baudelaire stesso riconosce: «Delacroix, lago di sangue, morso da angeli crudeli» (Les Phares). Più tardi verranno, sulla sua scia, Rimbaud e la sua Saison en enfer, Mallarmé e Valéry. Ungaretti stesso – seguendo Baudelaire e passando per Dostoevskij – osserverà che infine, e grazie a lui, «gli abissi umani sono perlustrabili» (Ragioni di una poesia). È la foresta spessa del notturno che ci avvolge e dalla quale non emergono che suoni inarticolati, gridi, o «bave e ringhi», come evoca Andrea Zanzotto. «Luoghi di cenere e di calce» son rimasti (Baudelaire, La Béatrice), «pianure della Noia, profonde e deserte» (La Destruction), e «cadaveri verniciati» (Danse macabre).
Baudelaire ha inghiottito i suoi posteri: Freud e Artaud, e il Surrealismo: poeta d’un’Apocalisse sciancata, poiché altro non vediamo: «Il gregge dei mortali salta e gode, senza vedere / in un buco del soffitto la tromba dell’Angelo, / sinistra e spalancata come uno schioppo annerito» (ivi).
C’è da domandarsi perché l’Ottocento italiano sia senza un Baudelaire, perché manchino i Fiori del Male: a quelle tumide fragranze si sporse, un po’ prima, il Manzoni del Fermo e Lucia e si ritrasse; impossibile dimorare in una colpa che non chiedesse espiazione e redenzione, che fosse sempre, e ancora, «insaziabile aspide» (Baudelaire). Leopardi ebbe il cosmo per misura, il suo Male era terso e nudo e universale, e non doveva «annegare il rancore e cullare l’indolenza» del Vin des chiffonniers o del Vin de l’assassin. Nessuno dei due, guardando in alto, vide «Cieli squarciati come pietre di greto» (Horreur sympathique). Vediamo, attraverso Baudelaire, il debole spegnersi della poesia italiana nel secondo Ottocento, incapace di guardare e di dire: «ogni giorno verso l’Inferno scendiamo di un passo, / senza orrore, attraverso tenebre nauseanti» (Baudelaire, Al Lettore). Mancò la Grazia e misero fu il Male, nessuno seppe inoltrarsi in sé «più profondamente che mai sia sceso il filo di piombo» (Tortures de l’opium).
«Baudelaire è il poeta dell’interiorità dell’essere, della verità profonda, delle sofferenze dell’uomo nella natura. Il suo stile mira a descrivere l’interiorità, le aspirazioni, i deliri, i ricordi, in uno stile che sia congruo all’esteriorità». Questa osservazione di Benveniste, insigne linguista del XX secolo [Aleppo, 1902 - Parigi, 1976], risale a un dossier manoscritto di appunti inediti su Baudelaire, del 1967, ed è un contributo di acuta lucidità su ciò che differenzia poesia e linguaggio ordinario; e insieme un’interpretazione tra le più profonde che si possano oggi leggere sulla poesia di Baudelaire. Egli arriva subito all’essenziale: «La poesia è una lingua interiore alla lingua»; «a differenza del linguaggio ordinario, il linguaggio poetico fa vedere le cose, facendosi vedere esso stesso»; Baudelaire deve dunque esibire «una interiorità che si faccia vedere da sola», in un processo ove verità (interna) e realtà (esterna) vengano di necessità a coincidere: «Il poeta ci insegna la verità e ci disvela la realtà». Affinché le due istanze possano convergere, occorre ritrovare, nell’una e nell’altra, l’istante di eternità che brilla in esse: «Non è tanto un ritorno indietro, quanto un’eternità ritrovata nel sovvenire [gli esempi di siffatto ricordare sono essenziali]: "mère des souvenirs…"».
Perciò, chiosa Benveniste, «Baudelaire non riconosce che l’eternità, un’immobilità fuori del tempo, condizione della Bellezza, delle statue, della materia». Ed è così in L’Ideale: «O anche tu, grande Notte, figlia di Michelangelo, / che quieta snodi in una posa strana / le tue forme foggiate per le bocche dei Titani». Il fascino della lettura di Benveniste è proprio in questa coscienza della sfida ultima che Baudelaire pone al linguaggio: egli lo vuole capace d’interiorità e d’eternità, di visioni e di deliri, di tutto ciò che liberi solitudini: «La "solitudine profonda" è il retaggio di tutti gli "spiriti liberi". Ed è per questo che la morte soltanto consente il compimento integrale e giubilatorio dell’unione (cfr. La mort des Amants), ove una strofa tutta intera suggerisce ch’essi sono […] gemelli fusi nella morte in un bagliore unico». Così, biblicamente apocalittico, il Baudelaire della Morte dei Poveri: "[La Morte] è la gloria degli Dei, il granaio mistico, / la borsa del povero e la sua patria antica, / è il portico che s’apre sui Cieli sconosciuti!».
Non esito a dire che questa traduzione ricapitoli due secoli, l’Ottocento in Baudelaire, il Novecento in Caproni, allo stesso modo che Kant e Nietzsche hanno ricapitolato i loro secoli di pensiero, e sotto la stessa istanza: se anche Dio non esistesse, il suo Vuoto è tremendo, altrettanto impronunciabile e fatale che la sua Presenza: «ces malédictions, ces blasphèmes, ces plaintes, / ces extases, ces cris, ces pleurs, ces Te Deum…»; e Caproni: «queste maledizioni, queste bestemmie, questi lamenti, / queste estasi, questi urli, questi pianti, questi Te Deum, / sono un’eco ripetuta da mille labirinti; sono pei cuori / mortali, un oppio divino! // […] // Ché davvero, o Signore, la miglior prova di dignità a noi / concessa è proprio tale singhiozzo che, rotolando d’era in / era, viene a morir sulle rive della tua eternità». (I fari).
Una fedeltà a questo vuoto, scavato da Baudelaire, che guiderà Caproni sino al fondo di Res amissa: «Uno dei tanti, anch’io. / Un albero fulminato / dalla fuga di Dio» (Anch’io).
Baudelaire rompe con l’ottimismo nomenclatorio di Victor Hugo: «Questi immagina che basti adoprare parole più numerose – osserva Yves Bonnefoy – perché si rafforzi il rapporto con il mondo. Vuole articolare la rappresentazione, ma è perché dimentica, almeno a tratti, che è la presenza che conta». La presenza improvvisa, nei Tableaux parisiens, d’Una passante: «Un lampo… poi la notte! - Bellezza fuggitiva / d’uno sguardo che m’ha fatto all’istante rinascere / non più ti rivedrò che nell’eternità?»; o la lotta senza posa con il Demone che incalza: «Eccolo che getta nei miei occhi smarriti / vesti sudice, ferite aperte, / il corredo sanguinante della Distruzione» (La Destruction).
E Bonnefoy mette in rilievo, proprio su tale tema, le affinità con Delacroix, che Baudelaire stesso riconosce: «Delacroix, lago di sangue, morso da angeli crudeli» (Les Phares). Più tardi verranno, sulla sua scia, Rimbaud e la sua Saison en enfer, Mallarmé e Valéry. Ungaretti stesso – seguendo Baudelaire e passando per Dostoevskij – osserverà che infine, e grazie a lui, «gli abissi umani sono perlustrabili» (Ragioni di una poesia). È la foresta spessa del notturno che ci avvolge e dalla quale non emergono che suoni inarticolati, gridi, o «bave e ringhi», come evoca Andrea Zanzotto. «Luoghi di cenere e di calce» son rimasti (Baudelaire, La Béatrice), «pianure della Noia, profonde e deserte» (La Destruction), e «cadaveri verniciati» (Danse macabre).
Baudelaire ha inghiottito i suoi posteri: Freud e Artaud, e il Surrealismo: poeta d’un’Apocalisse sciancata, poiché altro non vediamo: «Il gregge dei mortali salta e gode, senza vedere / in un buco del soffitto la tromba dell’Angelo, / sinistra e spalancata come uno schioppo annerito» (ivi).
C’è da domandarsi perché l’Ottocento italiano sia senza un Baudelaire, perché manchino i Fiori del Male: a quelle tumide fragranze si sporse, un po’ prima, il Manzoni del Fermo e Lucia e si ritrasse; impossibile dimorare in una colpa che non chiedesse espiazione e redenzione, che fosse sempre, e ancora, «insaziabile aspide» (Baudelaire). Leopardi ebbe il cosmo per misura, il suo Male era terso e nudo e universale, e non doveva «annegare il rancore e cullare l’indolenza» del Vin des chiffonniers o del Vin de l’assassin. Nessuno dei due, guardando in alto, vide «Cieli squarciati come pietre di greto» (Horreur sympathique). Vediamo, attraverso Baudelaire, il debole spegnersi della poesia italiana nel secondo Ottocento, incapace di guardare e di dire: «ogni giorno verso l’Inferno scendiamo di un passo, / senza orrore, attraverso tenebre nauseanti» (Baudelaire, Al Lettore). Mancò la Grazia e misero fu il Male, nessuno seppe inoltrarsi in sé «più profondamente che mai sia sceso il filo di piombo» (Tortures de l’opium).
«Baudelaire è il poeta dell’interiorità dell’essere, della verità profonda, delle sofferenze dell’uomo nella natura. Il suo stile mira a descrivere l’interiorità, le aspirazioni, i deliri, i ricordi, in uno stile che sia congruo all’esteriorità». Questa osservazione di Benveniste, insigne linguista del XX secolo [Aleppo, 1902 - Parigi, 1976], risale a un dossier manoscritto di appunti inediti su Baudelaire, del 1967, ed è un contributo di acuta lucidità su ciò che differenzia poesia e linguaggio ordinario; e insieme un’interpretazione tra le più profonde che si possano oggi leggere sulla poesia di Baudelaire. Egli arriva subito all’essenziale: «La poesia è una lingua interiore alla lingua»; «a differenza del linguaggio ordinario, il linguaggio poetico fa vedere le cose, facendosi vedere esso stesso»; Baudelaire deve dunque esibire «una interiorità che si faccia vedere da sola», in un processo ove verità (interna) e realtà (esterna) vengano di necessità a coincidere: «Il poeta ci insegna la verità e ci disvela la realtà». Affinché le due istanze possano convergere, occorre ritrovare, nell’una e nell’altra, l’istante di eternità che brilla in esse: «Non è tanto un ritorno indietro, quanto un’eternità ritrovata nel sovvenire [gli esempi di siffatto ricordare sono essenziali]: "mère des souvenirs…"».
Perciò, chiosa Benveniste, «Baudelaire non riconosce che l’eternità, un’immobilità fuori del tempo, condizione della Bellezza, delle statue, della materia». Ed è così in L’Ideale: «O anche tu, grande Notte, figlia di Michelangelo, / che quieta snodi in una posa strana / le tue forme foggiate per le bocche dei Titani». Il fascino della lettura di Benveniste è proprio in questa coscienza della sfida ultima che Baudelaire pone al linguaggio: egli lo vuole capace d’interiorità e d’eternità, di visioni e di deliri, di tutto ciò che liberi solitudini: «La "solitudine profonda" è il retaggio di tutti gli "spiriti liberi". Ed è per questo che la morte soltanto consente il compimento integrale e giubilatorio dell’unione (cfr. La mort des Amants), ove una strofa tutta intera suggerisce ch’essi sono […] gemelli fusi nella morte in un bagliore unico». Così, biblicamente apocalittico, il Baudelaire della Morte dei Poveri: "[La Morte] è la gloria degli Dei, il granaio mistico, / la borsa del povero e la sua patria antica, / è il portico che s’apre sui Cieli sconosciuti!».
«Avvenire» dell'8 giugno 2015
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