di Erri De Luca
Ho avuto fino ai sedici anni il dono di estati sconfinate. Sbarcavo sull’isola il primo di luglio, ripartivo il 30 di settembre. Venivo dalla città spalancata sul golfo, ma costretta in una pressa di palazzoni e vicoli. Napoli conteneva la più fitta densità umana d’Europa, ci vivevamo da accatastati. Lo spazio era assegnato a turni, gremito anche di notte. Ci stavo e ci crescevo rattrappito per nove mesi all’anno.
L’arrivo di luglio mi estraeva dalle viscere della città e mi depositava sopra la magnifica superficie del sud, con tutto il largo intorno che potevo desiderare. Già la breve traversata faceva da spogliatoio dove deporre l’uniforme di cittadino. Un ordine opposto alla disciplina dei nove mesi, un "Rompete le righe", faceva saltare regole, orari e l’imballaggio di un corpo infilato in poco spazio. Sull’isola iniziava la libertà , che è prima di tutto un’esperienza fisica.
Lo sbarco coincideva con l’addio alle scarpe. I piedi uscivano dai lacci come due prigionieri che ottenevano di colpo il rilascio. All’inizio incerti, abbagliati, esitavano. Risentivano le asprezze del suolo, il rovente delle pietre, poi ispessivano la suola e potevano pure correre sugli scogli. Sull’isola iniziava il loro viaggio.
Nel mio vocabolario personale affido alla parola viaggio uno statuto speciale. Per me è quello che si fa a piedi. È viaggio la scalata, il pellegrinaggio, l’incolonnamento di migratori sulle piste di Africa e di Oriente, lo scavalcamento di frontiere dei contrabbandieri. Viaggio è quello che procede alla velocità del piede umano. Il resto non incluso in questo campo, si riduce per me a spostamento con mezzi di trasporto.
Da quando vado in giro e in gita a fare incontri pubblici, schizzando da una destinazione all’altra all’interno di treni e aerei, chiamo spostamenti queste traiettorie da palla di biliardo.
Sull’isola dell’infanzia e dell’adolescenza cominciava e finiva il viaggio, che è un diritto all’inselvatichimento dentro ogni educazione. Coincideva con il cambio di pelle, con il callo sotto i piedi scalzi. La libertà era un ispessimento della superficie.
La mancanza cronica di acqua dolce, che era solo piovana di cisterne, faceva bastare il mare per igiene. Il sale si incrostava addosso impregnando la pelle di salmastro. I capelli chiari diventavano gialli e interdetti al pettine. Solo una spazzola ruvida si apriva un varco nell’intrico a cespuglio. Il corpo, analfabeta cittadino, riprendeva confidenza con il nuoto, i tuffi, le salite sopra scogli a picco. I piedi riacquistavano il gioco di prestigio dell’equilibrio sulla barca da pesca, reggendo il tronco tra rollii e beccheggi. Se un’onda più forte costringeva all’appoggio delle mani, era una sconfitta da squalifica. Piccole ferite si disinfettavano a mare.
Dal bordo dell’isola gli occhi potevano viaggiare seguendo le navi di passaggio, le lampare notturne della pesca ai tòtani. Libertà erano i mari intorno e la messa a fuoco dell’orizzonte sgombero.
I pubblici poteri hanno visto le isole come reclusioni naturali, piantandoci dei penitenziari. Ho avuto invece la notizia opposta: le isole sono state per me il concentrato della libertà. Perciò sul loro suolo, più che in terraferma, è osceno l’edificio delle detenzioni. Le sbarre e il mare: è la più insolente contraddizione, più della fame innanzi a una tavola imbandita.
Da mare guardavo la cupa fortezza di Procida. Dietro le griglie spuntava a volte uno straccio per saluto a noi, liberi sulla barca. Rispondevo con la mia maglietta e con l’agitazione delle braccia al vento. Lassù dentro il perimetro sbarrato anche a togliersi le scarpe si restava nella camicia di forza degli anni di pena assegnati. Lì dentro la parola viaggio era proibita.
Infine il rientro in città a fine stagione rimetteva il corpo in esilio. I piedi scalzi e allargati rientravano con sforzo e resistenza nella scarpe, equivalente di manette ai polsi. Infilandole mi staccavo dall’isola e dal suolo della libertà.
L’arrivo di luglio mi estraeva dalle viscere della città e mi depositava sopra la magnifica superficie del sud, con tutto il largo intorno che potevo desiderare. Già la breve traversata faceva da spogliatoio dove deporre l’uniforme di cittadino. Un ordine opposto alla disciplina dei nove mesi, un "Rompete le righe", faceva saltare regole, orari e l’imballaggio di un corpo infilato in poco spazio. Sull’isola iniziava la libertà , che è prima di tutto un’esperienza fisica.
Lo sbarco coincideva con l’addio alle scarpe. I piedi uscivano dai lacci come due prigionieri che ottenevano di colpo il rilascio. All’inizio incerti, abbagliati, esitavano. Risentivano le asprezze del suolo, il rovente delle pietre, poi ispessivano la suola e potevano pure correre sugli scogli. Sull’isola iniziava il loro viaggio.
Nel mio vocabolario personale affido alla parola viaggio uno statuto speciale. Per me è quello che si fa a piedi. È viaggio la scalata, il pellegrinaggio, l’incolonnamento di migratori sulle piste di Africa e di Oriente, lo scavalcamento di frontiere dei contrabbandieri. Viaggio è quello che procede alla velocità del piede umano. Il resto non incluso in questo campo, si riduce per me a spostamento con mezzi di trasporto.
Da quando vado in giro e in gita a fare incontri pubblici, schizzando da una destinazione all’altra all’interno di treni e aerei, chiamo spostamenti queste traiettorie da palla di biliardo.
Sull’isola dell’infanzia e dell’adolescenza cominciava e finiva il viaggio, che è un diritto all’inselvatichimento dentro ogni educazione. Coincideva con il cambio di pelle, con il callo sotto i piedi scalzi. La libertà era un ispessimento della superficie.
La mancanza cronica di acqua dolce, che era solo piovana di cisterne, faceva bastare il mare per igiene. Il sale si incrostava addosso impregnando la pelle di salmastro. I capelli chiari diventavano gialli e interdetti al pettine. Solo una spazzola ruvida si apriva un varco nell’intrico a cespuglio. Il corpo, analfabeta cittadino, riprendeva confidenza con il nuoto, i tuffi, le salite sopra scogli a picco. I piedi riacquistavano il gioco di prestigio dell’equilibrio sulla barca da pesca, reggendo il tronco tra rollii e beccheggi. Se un’onda più forte costringeva all’appoggio delle mani, era una sconfitta da squalifica. Piccole ferite si disinfettavano a mare.
Dal bordo dell’isola gli occhi potevano viaggiare seguendo le navi di passaggio, le lampare notturne della pesca ai tòtani. Libertà erano i mari intorno e la messa a fuoco dell’orizzonte sgombero.
I pubblici poteri hanno visto le isole come reclusioni naturali, piantandoci dei penitenziari. Ho avuto invece la notizia opposta: le isole sono state per me il concentrato della libertà. Perciò sul loro suolo, più che in terraferma, è osceno l’edificio delle detenzioni. Le sbarre e il mare: è la più insolente contraddizione, più della fame innanzi a una tavola imbandita.
Da mare guardavo la cupa fortezza di Procida. Dietro le griglie spuntava a volte uno straccio per saluto a noi, liberi sulla barca. Rispondevo con la mia maglietta e con l’agitazione delle braccia al vento. Lassù dentro il perimetro sbarrato anche a togliersi le scarpe si restava nella camicia di forza degli anni di pena assegnati. Lì dentro la parola viaggio era proibita.
Infine il rientro in città a fine stagione rimetteva il corpo in esilio. I piedi scalzi e allargati rientravano con sforzo e resistenza nella scarpe, equivalente di manette ai polsi. Infilandole mi staccavo dall’isola e dal suolo della libertà.
«Avvenire» del 24 maggio 2013
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