Le scoperte sui meccanismi della mente superano le ambizioni del «new realism»
di Sandro Modeo
Da biologia e neuroscienze le risposte più profonde sul senso ultimo della vita
La discussione innescata dal libro di Maurizio Ferraris (Manifesto del nuovo realismo) e la serie di convegni sul «new realism» potrebbero indurre a pensare che la realtà sia finalmente (e ufficialmente) rientrata nel discorso filosofico.
La sua eclissi andrebbe ricondotta, per Ferraris, soprattutto al pensiero postmodernista, le cui buone intenzioni si sono rovesciate in altrettanti effetti-paradosso: il sogno di una società più solidale e liberata dalla «tirannia della ragione» si è tradotto nel populismo mediatico e nell’allucinazione permanente del reality; e il relativismo anti- illuminista (con la «verità» alleggerita tra virgolette ironiche) ha spianato la strada ai dogmi della Chiesa. Su questo versante socio-politico, il Manifesto ha pagine taglienti e disintossicanti. Ma quando affronta il nucleo dell’equivoco postmodernista (il credo costruttivista, per cui «non ci sono fatti, ma solo interpretazioni») per introdurre un «nuovo realismo» fondato su una realtà oggettiva indipendente dagli schemi cognitivi dell’osservatore, ci si trova a disagio. Una simile prospettiva — così come quella, recentemente proposta da Eco, di un realismo «negativo», fondato su «uno zoccolo duro dell’essere» — è stata infatti disegnata molte volte prima (e meglio): soprattutto in un ambito, la biologia evoluzionistica, che dalla filosofia continua a essere ignorato e/o frainteso… Lo stesso Ferraris — che pure rivaluta l’oggettività fattuale e concettuale della scienza — tiene a smarcarsi dalla pretesa della scienza stessa a invadere terreni non suoi.
Eppure, basterebbe avvicinarsi senza pregiudizi non solo all’evoluzione, ma anche alle sue conferme e integrazioni più recenti (genetiche, neurobiologiche, embriologiche), per trovare risposte davvero innovative e convincenti su tante questioni filosofiche e socio-psicologiche; per accorgersi che non c’è nessun reingresso della realtà nel discorso filosofico, per il semplice motivo che non ne è mai uscita, e che la liquidazione del postmodernismo (presentata come un funerale) è solo la visita a una tomba da tempo ricoperta di rampicanti.
Prendiamo due libri-chiave. Nel primo (L’altra faccia dello specchio, 1973), Konrad Lorenz — risalendo a sue ipotesi degli anni Trenta — inserisce la connessione tra «soggetto conoscente» e «oggetto conosciuto» nel profondo del processo evolutivo, mostrando come gli schemi concettuali con cui gli organismi viventi «leggono» il mondo esterno siano informazioni adattative: dal paramecio che scansa l’ostacolo ai complessi comportamenti umani (o, come diceva Popper, dall’ameba a Einstein, accomunati dal procedere per tentativi ed errori) conoscere equivale a sopravvivere. Rifacendosi a Donald Campbell, Lorenz inscrive questa attitudine entro un «realismo ipotetico». Nel secondo libro (Sulla materia della mente, 1993), l’immunologo-neuroscienziato Gerald Edelman parla invece di «realismo condizionato», riferendosi a come il nostro corredo (neuro)fisiologico rappresenti e ridefinisca in continuazione le vastità di un ambiente «senza etichette»: proprio come l’evoluzione (la selezione), il nostro cervello opera in modo strutturato e «aperto». Per Edelman, un simile realismo è l’unico «ismo» superstite, in un cimitero di «ismi» in cui la tomba del postmoderno viene circondata da cappelle e mausolei (monismo e dualismo, razionalismo e idealismo, e così via).
In questa prospettiva, il ruolo centrale viene assunto dal cervello e dal sistema nervoso: nei termini di Lorenz, «l’altra faccia dello specchio», che è però metafora suggestiva ma impropria, perché i substrati neuronali che ci permettono di accendere delle «scene» sul mondo non agiscono come superfici passive, ma come strutture attive e creative, già a livello percettivo. Lo vediamo in tutti i sistemi nervosi che hanno preceduto il nostro. Proseguendo una distinzione tra «sé» e «non sé» avviata dalle cellule — grazie alla membrana — 3 miliardi e mezzo di anni fa, l’evolversi di tali sistemi è una sequenza di «modelli interni del mondo esterno», via via più complessi secondo le variazioni climatiche, il mutare dell’ambiente, la crescente competizione tra specie: si va dai proto-sistemi nervosi di certi vermi (302 neuroni con schemi basici di orientamento) a quelli di pesci, anfibi e rettili, fino ai paleo-mammiferi (già capaci di emozioni ememoria episodica) e ai neo-mammiferi (in cui la corteccia consente di percepire la profondità e i neuroni-specchio di provare empatia).
Ma in questa successione non c’è un progresso: l’evoluzione, nonostante la sua storicità — e fatte salve le estinzioni — è sempre «contemporanea»: i batteri, da cui tutto è cominciato, ne sono i veri vincitori. In un recente, straordinario libro (Engineering Animals), i biologi Mark Denny e Alan McFadzean ricostruiscono nei dettagli non solo la genesi dell’anatomia e la bio-meccanica di decine e decine di animali (come il volo degli albatros), ma anche i meccanismi sensoriali e cognitivi, cioè proprio i loro «modelli interni del mondo esterno». Tra le tante sequenzememorabili: il gusto dei panda rossi (con recettori peculiari del dolce); l’udito «attivo» dei pipistrelli (i cui sonar leggono in anticipo i rilievi della roccia); il campo visivo «elettrico» dell’anguilla; e la fitta elaborazione che presiede all’orientamento dei piccioni, con mappe cerebrali che integrano l’attenzione al sole, alle stelle, ai poli, alle linee costiere.
La lezione è duplice. In primo luogo, elimina il problema del noumeno kantiano, la «cosa in sé» posta al di là dei sensi e della ragione: il nesso tra la realtà «là fuori» (il brulichio di atomi e molecole della materia, animata o inanimata) e quella «là dentro» o «là dietro» (il corredo neurofisiologico) è un incessante dialogo dinamico. Se i cervelli non sono specchi, non sono tuttavia nemmeno proiettori su uno schermo inerte (come vorrebbe il costruttivismo); e il loro interagire col mondo (secondo le predisposizioni delle specie e, in forma più sottile, degli individui) vanno a formare una fantasmagoria di letture del mondo, tra loro fittamente intrecciate. Nello stesso tempo, tutto questo ci ricorda che tutti noi siamo dei patchwork plasmati dal bricolage di un’evoluzione che adatta strutture remote a funzioni nuove, mescolando le specie: e anche qui, non soltanto a livello anatomico (i polmoni come sviluppo delle branchie), ma a livello di schemi percettivi ed emotivo-cognitivi: basti pensare al nostro cervello «rettiliano», al fatto che le proteine attive nelle nostre connessioni neuronali siano quelle dell’adesione cellulare di antichissime spugne, o che un gene decisivo nel predisporre al linguaggio (il Fox P2) sia stato e sia adibito — nell’uomo e in altri animali — alla funzione respiratoria, senza la cui modulazione non potremmo parlare.
Certo, questa continuità/contiguità dell’uomo col resto del vivente coesiste con una netta discontinuità: proprio il linguaggio e la «coscienza di essere coscienti» (esiti di alte integrazioni tra aree cerebrali) ci hanno permesso di penetrare la realtà con acquisizioni spiazzanti, a partire da quelle contro-intuitive della scienza, da cui abbiamo appreso — a correzione dei nostri sensi — che la terra gira intorno al sole o che gli oggetti sono composti di atomi. Ma non dobbiamo sopravvalutare (né, beninteso, sottovalutare) questa attitudine. Per quanto possiamo spingere in avanti i nostri confini conoscitivi con astrazioni teoriche e prolungamenti tecnici dei nostri sensi (dal telescopio al microscopio) o delle nostre facoltà cognitive (il computer), la nostra raffigurazione del mondo sarà sempre condizionata e mediata dai nostri vincoli evolutivi e neurofisiologici. E lo stesso vale per le più raffinate speculazioni teologiche e filosofiche, per le possibilità dell’immaginazione, per le più azzardate elaborazioni linguistiche: tutte le nostre protesi concettuali più estreme (la Divinità e l’Infinito, l’Essere e il Nulla) si perdono come frecce scagliate nell’indeterminato, o vanno a sbattere sul mondo esterno, «là fuori », perché vanno a sbattere, simultaneamente, sui limiti del nostro cervello, «là dentro». In quest’ottica, anche la dorsale più «provocatoria» della proposta di Ferraris e del «new realism» — tenere scissa l’ontologia dall’epistemologia, il discorso sull’essere dalla teoria della conoscenza — rischia di risultare poco più di un elegante sofisma, se non un mezzo improprio per proteggere l’autonomia della filosofia dalla scienza.
Edoardo Boncinelli scrive spesso come la biologia si possa «trascendere, ma non ignorare». È un adagio che può essere rovesciato: ignorare la biologia, in fondo, è l’unico modo per poter avere l’illusione di trascenderla.
La sua eclissi andrebbe ricondotta, per Ferraris, soprattutto al pensiero postmodernista, le cui buone intenzioni si sono rovesciate in altrettanti effetti-paradosso: il sogno di una società più solidale e liberata dalla «tirannia della ragione» si è tradotto nel populismo mediatico e nell’allucinazione permanente del reality; e il relativismo anti- illuminista (con la «verità» alleggerita tra virgolette ironiche) ha spianato la strada ai dogmi della Chiesa. Su questo versante socio-politico, il Manifesto ha pagine taglienti e disintossicanti. Ma quando affronta il nucleo dell’equivoco postmodernista (il credo costruttivista, per cui «non ci sono fatti, ma solo interpretazioni») per introdurre un «nuovo realismo» fondato su una realtà oggettiva indipendente dagli schemi cognitivi dell’osservatore, ci si trova a disagio. Una simile prospettiva — così come quella, recentemente proposta da Eco, di un realismo «negativo», fondato su «uno zoccolo duro dell’essere» — è stata infatti disegnata molte volte prima (e meglio): soprattutto in un ambito, la biologia evoluzionistica, che dalla filosofia continua a essere ignorato e/o frainteso… Lo stesso Ferraris — che pure rivaluta l’oggettività fattuale e concettuale della scienza — tiene a smarcarsi dalla pretesa della scienza stessa a invadere terreni non suoi.
Eppure, basterebbe avvicinarsi senza pregiudizi non solo all’evoluzione, ma anche alle sue conferme e integrazioni più recenti (genetiche, neurobiologiche, embriologiche), per trovare risposte davvero innovative e convincenti su tante questioni filosofiche e socio-psicologiche; per accorgersi che non c’è nessun reingresso della realtà nel discorso filosofico, per il semplice motivo che non ne è mai uscita, e che la liquidazione del postmodernismo (presentata come un funerale) è solo la visita a una tomba da tempo ricoperta di rampicanti.
Prendiamo due libri-chiave. Nel primo (L’altra faccia dello specchio, 1973), Konrad Lorenz — risalendo a sue ipotesi degli anni Trenta — inserisce la connessione tra «soggetto conoscente» e «oggetto conosciuto» nel profondo del processo evolutivo, mostrando come gli schemi concettuali con cui gli organismi viventi «leggono» il mondo esterno siano informazioni adattative: dal paramecio che scansa l’ostacolo ai complessi comportamenti umani (o, come diceva Popper, dall’ameba a Einstein, accomunati dal procedere per tentativi ed errori) conoscere equivale a sopravvivere. Rifacendosi a Donald Campbell, Lorenz inscrive questa attitudine entro un «realismo ipotetico». Nel secondo libro (Sulla materia della mente, 1993), l’immunologo-neuroscienziato Gerald Edelman parla invece di «realismo condizionato», riferendosi a come il nostro corredo (neuro)fisiologico rappresenti e ridefinisca in continuazione le vastità di un ambiente «senza etichette»: proprio come l’evoluzione (la selezione), il nostro cervello opera in modo strutturato e «aperto». Per Edelman, un simile realismo è l’unico «ismo» superstite, in un cimitero di «ismi» in cui la tomba del postmoderno viene circondata da cappelle e mausolei (monismo e dualismo, razionalismo e idealismo, e così via).
In questa prospettiva, il ruolo centrale viene assunto dal cervello e dal sistema nervoso: nei termini di Lorenz, «l’altra faccia dello specchio», che è però metafora suggestiva ma impropria, perché i substrati neuronali che ci permettono di accendere delle «scene» sul mondo non agiscono come superfici passive, ma come strutture attive e creative, già a livello percettivo. Lo vediamo in tutti i sistemi nervosi che hanno preceduto il nostro. Proseguendo una distinzione tra «sé» e «non sé» avviata dalle cellule — grazie alla membrana — 3 miliardi e mezzo di anni fa, l’evolversi di tali sistemi è una sequenza di «modelli interni del mondo esterno», via via più complessi secondo le variazioni climatiche, il mutare dell’ambiente, la crescente competizione tra specie: si va dai proto-sistemi nervosi di certi vermi (302 neuroni con schemi basici di orientamento) a quelli di pesci, anfibi e rettili, fino ai paleo-mammiferi (già capaci di emozioni ememoria episodica) e ai neo-mammiferi (in cui la corteccia consente di percepire la profondità e i neuroni-specchio di provare empatia).
Ma in questa successione non c’è un progresso: l’evoluzione, nonostante la sua storicità — e fatte salve le estinzioni — è sempre «contemporanea»: i batteri, da cui tutto è cominciato, ne sono i veri vincitori. In un recente, straordinario libro (Engineering Animals), i biologi Mark Denny e Alan McFadzean ricostruiscono nei dettagli non solo la genesi dell’anatomia e la bio-meccanica di decine e decine di animali (come il volo degli albatros), ma anche i meccanismi sensoriali e cognitivi, cioè proprio i loro «modelli interni del mondo esterno». Tra le tante sequenzememorabili: il gusto dei panda rossi (con recettori peculiari del dolce); l’udito «attivo» dei pipistrelli (i cui sonar leggono in anticipo i rilievi della roccia); il campo visivo «elettrico» dell’anguilla; e la fitta elaborazione che presiede all’orientamento dei piccioni, con mappe cerebrali che integrano l’attenzione al sole, alle stelle, ai poli, alle linee costiere.
La lezione è duplice. In primo luogo, elimina il problema del noumeno kantiano, la «cosa in sé» posta al di là dei sensi e della ragione: il nesso tra la realtà «là fuori» (il brulichio di atomi e molecole della materia, animata o inanimata) e quella «là dentro» o «là dietro» (il corredo neurofisiologico) è un incessante dialogo dinamico. Se i cervelli non sono specchi, non sono tuttavia nemmeno proiettori su uno schermo inerte (come vorrebbe il costruttivismo); e il loro interagire col mondo (secondo le predisposizioni delle specie e, in forma più sottile, degli individui) vanno a formare una fantasmagoria di letture del mondo, tra loro fittamente intrecciate. Nello stesso tempo, tutto questo ci ricorda che tutti noi siamo dei patchwork plasmati dal bricolage di un’evoluzione che adatta strutture remote a funzioni nuove, mescolando le specie: e anche qui, non soltanto a livello anatomico (i polmoni come sviluppo delle branchie), ma a livello di schemi percettivi ed emotivo-cognitivi: basti pensare al nostro cervello «rettiliano», al fatto che le proteine attive nelle nostre connessioni neuronali siano quelle dell’adesione cellulare di antichissime spugne, o che un gene decisivo nel predisporre al linguaggio (il Fox P2) sia stato e sia adibito — nell’uomo e in altri animali — alla funzione respiratoria, senza la cui modulazione non potremmo parlare.
Certo, questa continuità/contiguità dell’uomo col resto del vivente coesiste con una netta discontinuità: proprio il linguaggio e la «coscienza di essere coscienti» (esiti di alte integrazioni tra aree cerebrali) ci hanno permesso di penetrare la realtà con acquisizioni spiazzanti, a partire da quelle contro-intuitive della scienza, da cui abbiamo appreso — a correzione dei nostri sensi — che la terra gira intorno al sole o che gli oggetti sono composti di atomi. Ma non dobbiamo sopravvalutare (né, beninteso, sottovalutare) questa attitudine. Per quanto possiamo spingere in avanti i nostri confini conoscitivi con astrazioni teoriche e prolungamenti tecnici dei nostri sensi (dal telescopio al microscopio) o delle nostre facoltà cognitive (il computer), la nostra raffigurazione del mondo sarà sempre condizionata e mediata dai nostri vincoli evolutivi e neurofisiologici. E lo stesso vale per le più raffinate speculazioni teologiche e filosofiche, per le possibilità dell’immaginazione, per le più azzardate elaborazioni linguistiche: tutte le nostre protesi concettuali più estreme (la Divinità e l’Infinito, l’Essere e il Nulla) si perdono come frecce scagliate nell’indeterminato, o vanno a sbattere sul mondo esterno, «là fuori », perché vanno a sbattere, simultaneamente, sui limiti del nostro cervello, «là dentro». In quest’ottica, anche la dorsale più «provocatoria» della proposta di Ferraris e del «new realism» — tenere scissa l’ontologia dall’epistemologia, il discorso sull’essere dalla teoria della conoscenza — rischia di risultare poco più di un elegante sofisma, se non un mezzo improprio per proteggere l’autonomia della filosofia dalla scienza.
Edoardo Boncinelli scrive spesso come la biologia si possa «trascendere, ma non ignorare». È un adagio che può essere rovesciato: ignorare la biologia, in fondo, è l’unico modo per poter avere l’illusione di trascenderla.
«Corriere della Sera - Suppl. La Lettura» del 31 marzo 2012
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