Marco Paolini porta in scena, nella tv laica e di sinistra, l’orrore dell’eugenetica e dell’eutanasia. Racconta quel che fecero i nazisti, ma il suo sguardo è tutto rivolto all’oggi
di Marina Valensise
E’ tutto pronto al Paolo Pini di Milano, l’ex ospedale psichiatrico tra Quarto Oggiaro e la Comasina, attrezzato come teatro, ostello della gioventù, spazio per mostre e luogo di ristoro. La nuova vita del manicomio inizia negli anni Novanta, diciott’anni dopo l’entrata in vigore della legge 180, la legge Basaglia, dal nome dello psichiatra triestino che chiuse i manicomi italiani. Stasera e domani qui, nella Sala delle cucine, si parlerà di eugenetica e di eutanasia, di scienza e di morale. E’ in scena “Ausmerzen. Vite indegne di essere vissute”, ultima narrazione di Marco Paolini, il più intenso tra gli autori del teatro civile italiano. Lo spettacolo è un monologo sulle teorie eugenetiche e eutanasiche messe in atto dai nazisti, e dai loro successori, prima, durante e dopo la Seconda guerra mondiale per sterilizzare e poi eliminare disabili mentali e psichici, disadattati, storpi, ragazzi malformati con tare ereditarie. Al fine di migliorare la razza e di tagliare costi sociali.
Raccontando l’orrore nazista, Paolini vuole restituire il dolore dell’esperienza, il senso di responsabilità, il dilemma della scelta, la dimensione stessa del diverso. Ma soprattutto vuole offrire una prospettiva storica al dilemma che ancora oggi attanaglia le coscienze in fatto di eugenetica e di eutanasia. E infatti non è solo un uomo schivo, attore pudico e carismatico, capace di stare in scena per ore da solo e ammaliare il pubblico con una recita mai uguale a se stessa. “Dopo due ore di racconto, chiedo sempre agli spettatori come stanno, di cosa vogliono parlare”, confessa Paolini. “A volte mi risponde un medico, a volte un genitore, a volte un insegnante, a volte un cieco, un sordo… Solo se imposti le cose su una base di integralità, puoi discutere sull’onda delle emozioni, sopportando idee opposte, e avendo la civiltà di sviluppare i rispettivi argomenti sino in fondo, senza strillare”.
A conferma di questo suo civismo militante, domani sera, vigilia della Giornata della memoria, il canale tv La7 trasmetterà in diretta “Ausmerzen”, seguito da un dibattito fra il pubblico, animato da Gad Lerner, la star della rete Telecom che considera Paolini “un traguardo”. Così, nel salotto buono televisivo saldamente in mano alla sinistra laica e politicamente corretta stanno per irrompere due ore di televisione integrale (niente interruzioni pubblicitarie) su un tema impegnativo, al centro delle preoccupazioni non soltanto della chiesa e di intellettuali laici non allineati al pensiero dominante in materia, ma anche delle battaglie culturali di questo giornale. E’ possibile porre un limite all’onnipotenza della scienza? O in nome della tecnica e della produttività del sistema dobbiamo continuare a negare impunemente la dignità della persona umana? E qual è il rapporto che corre tra economia e società? Eliminare i deboli, gli idioti, i malati mentali, gli infelici, gli inguaribili, come fecero i nazisti per migliorare la razza e contenere la spesa sociale, è davvero un’esclusiva abietta dello stato totalitario? O una tentazione che percorre anche i regimi liberi e le democrazie? E che cosa succede quando la “brava gente” si mette in testa di avere ragione?
Paolini è un apostolo del teatro civile. Studia per anni le sue narrazioni, preparandole scrupolosamente con ricerche, interviste, testimonianze a tutto campo – si tratti del “Racconto del Vajont” o del “Sergente nella neve”, del “Gioco del Rugby” o del “Galileo”. E’ uno che crede nelle virtù catartiche del dramma, come un antico cittadino della polis, ma senza pose apocalittiche, e tenendo a bada le emozioni: “Vogliamo parlare di eutanasia oggi? Volevo fare un testamento biologico, ma sono rimasto sconcertato dal tono con cui si è discusso del caso Englaro, dal furore integralista di parole d’ordine brucianti”, dichiara in modo programmatico. “Non credo che in questo modo si sia reso un servizio alla mente umana. Personalmente, avrei voluto che non si coprisse con tanto fracasso un argomento dal quale pochi di noi sono colpiti direttamente. Ringrazio Dio di non essere fra quanti si trovano a vivere una situazione del genere, e come forma di rispetto chiederei innanzitutto di abbassare la voce. Non voglio entrare a gamba tesa nel dibattito, ma dare una prospettiva che aiuti a riflettere. A questo serve una narrazione come la mia: a fornire una base razionale, non solo emotiva, per dire: guardate cosa abbiamo alle spalle, guardate l’orrore commesso dai nazisti in nome dell’eutanasia, dell’eugenetica e della presunzione di risolvere ogni malattia su base scientifica”.
Anagraficamente, Paolini è un veneto che ama il sud e odia la Lega; “un veneto di minoranza” o, come dice lui, “che usa la lingua non per ergere muri o discriminare il forestiero, come fanno oggi gli impiegati alle poste di Conegliano, ma per ragionare con gli altri, anzi per fare in modo che il teatro ricrei la società, e gli uomini non impazziscano”. Caratterialmente, è un bellunese ruvido, montanaro, chiuso e così geloso di sé che rifiuta di confessare il suo mondo interiore: “Perché farmi giudicare per le mie opinioni, quando non ne ho una grande stima?”. Nemmeno sotto torchio rivelerebbe cosa davvero lo muova. “Non voglio mettere l’accento su ciò che penso, ma su ciò che faccio. Perché se pensi certe cose, ma non riesci a farle sentire, è velleitario dire quali siano le tue intenzioni”. Insomma, è un attore e un artista, nutre la convinzione che il teatro sia ancora quel luogo d’elezione utile a smascherare il potere e le sue mistificazioni, per dare un ordine al reale e un senso al mondo. E infatti è persuaso che solo una rappresentazione corale permetta il confronto tra tesi contrapposte, favorendo una dialettica ispirata alla ragione e all’uso pubblico della ragione, al riparo da sofismi, scorciatoie, da derive demagogiche: “Se dovessi scegliermi un ruolo del teatro classico”, confessa, “mi assegnerei quello del coro”.
Paolini pone col suo racconto i dilemmi che vuole suggerire alle coscienze contemporanee. Irradiarle nelle case degli italiani è l’ultimo exploit della piccola nave corsara che sta smuovendo le acque del nostro mare mediatico. “Servizio pubblico è anche quello di una tv privata e commerciale che abbia un rapporto onesto e costruttivo col suo pubblico”, dice infatti il direttore di rete de La7 nel suo ufficio romano in via della Pineta Sacchetti. In epoca di tagli, ristrutturazioni e controllo draconiano dei bilanci, è stato proprio lui, Lillo Tombolini, a convincere del progetto Gianni Stella, feroce risanatore, soprannominato dai dipendenti “er canaro”, e oggi strenuo difensore di Paolini. “Da uomo intelligente, si è convinto da solo”, si schermisce Tombolini. “Paolini, infatti, restituisce una realtà che nessuna lettura ti può dare. Impossibile spezzare l’emozione con lo spot”.
Il sodalizio tra Paolini e La7 nasce negli anni passati e si consolida col “Sergente nella neve”, racconto sulla ritirata dei soldati italiani in Russia, tratto dal libro autobiografico di Mario Rigoni Stern, trasmesso in diretta nel 2007 da una cava dismessa nei pressi di Zovencedo, in provincia di Vicenza. “Come faremo a riempirla di pubblico? Mi domandavo allora”, ricorda Tombolini. “C’era un freddo cane, pioveva, tirava un vento gelido. Per arrivare alla cava bisognava percorrere un viottolo sterrato nel bosco. A un certo punto, vidi decine di ragazzi arrivare a piedi, dopo una salita di tre chilometri. Paolini li aspettava intorno a un fuoco. ‘Venite a scaldarvi’, gridava, offrendo vin brûlé”. Questo per dire il calore, il legame comunitario, il contatto diretto, ingredienti base del suo teatro.
Dopo il successo del “Sergente”, Tombolini avrebbe voluto allestire un altro teatro su strada, con palco su via Mario Fani, per il trentennale del rapimento Moro. “Solo un anno per prepararlo? Troppo poco”, rispose Paolini, che avrebbe voluto intervistare tutto il Trionfale e conoscere uno per uno gli abitanti del quartiere romano per entrare con loro nel ricordo di quel giovedì 16 marzo 1978, giorno in cui fu rapito lo statista dc e uccisi i cinque uomini della sua scorta. Il fatto è che Paolini non è solo un teatrante eccentrico che studia i suoi spettacoli come uno studente universitario si prepara l’esame; quando sale sul palcoscenico ha l’ambizione di un cronista, che tenga a bada sia l’attore sia il teatro, “perché se l’attore e il teatro sono troppo presenti distraggono lo spettatore, e se ci metti troppo pathos, scateni nel pubblico l’adrenalina”. Così gran parte della sua preparazione consiste nel cercare il giusto tono della voce, nel costruire una presenza scenica non troppo invadente, per raccontare l’orrore rendendolo plausibile.
Per esempio “Ausmerzen”, “verbo gentile”, come dice Paolini, “che evoca la terra e il mese di marzo, quando i pastori, prima della transumanza, sopprimevano le pecore e gli agnelli troppo lenti, tant’è che in tedesco significa ‘sopprimere chi rallenta la marcia, chi è troppo lento per seguire il branco’” (ma è anche sinonimo di ‘sradicare, abbattere, eliminare, rifiutare, dimenticare, espungere, estirpare, radiare’) è la cronaca agghiacciante dello sterminio di massa, che prepara la soluzione finale, raccontata col distacco paradossale di uno che avrebbe potuto esserne sia la vittima sia il responsabile, e la freddezza di chi mettendolo in scena cerca di aiutare la gente a affrontare i dilemmi che pone. “Lo spettacolo segue le origini delle idee eugenetiche”, spiega infatti Paolini. “Racconta ciò che accadde in Germania tra il 1934 e il 1939, l’accelerazione della macchina burocratica tedesca verso la sterilizzazione di massa, quando l’eugenetica diventa disciplina universitaria, e poi il salto dalla sterilizzazione all’eliminazione. C’è la storia del primo bambino disabile sequestrato e soppresso. La fase ufficiale del programma T4 dura due anni, dal primo settembre 1939 all’estate 1941. Esiste persino un bilancio di 70.292 vittime, ma si tratta di stime. E c’è anche il racconto della così detta “eutanasia selvaggia”, termine che rischia di sembrare un alibi, ma indica la morte negli ospedali psichiatrici di altre 230 mila persone tra il settembre del 1941 e il settembre del 1945. La guerra finisce ai primi di maggio del 1945, ma la macchina eutanasica non si ferma, anzi continua a funzionare per anni. Tant’è vero che fino al 1948, negli ospedali psichiatrici tedeschi l’indice di mortalità resta altissimo. In Italia, invece, di quei dati non ci sono stime, mancano le statistiche”.
Farà sicuramente effetto assistere al racconto-spettacolo di Paolini dalle cucine dell’ex manicomio Paolo Pini, luogo in cui i malati di mente, una volta dimessi, hanno trovato alloggio, e persino lavoro, come addetti all’ostello, al ristorante, alla sala mostre, grazie a una cooperativa sociale e a varie organizzazioni di volontariato riunite sotto il nome di “Olinda”, che era quello scelto da Italo Calvino per la città immaginaria che cresce senza periferia, come una grande piazza aperta in cui convivono le persone più diverse. “E’ normale oggi per i milanesi venire qui a bere un caffè o mangiare un piatto di pasta in compagnia di persone che pur avendo problemi psichiatrici anche gravi, affetti da disturbi psichici e vissuti per anni come barboni in mezzo alla strada facendosi espellere ovunque, hanno finito per integrarsi, e oggi riescono persino a lavorare, con effetti terapeutici notevoli”, dice al Foglio lo psichiatra ticinese Thomas Emmenegger che del Paolo Pini è il direttore. Emmenegger crede in “un’impresa sociale”, dove ogni singola attività, legata al mangiare, al dormire, al pensare, alimenta un sistema complesso di cittadinanza, permettendo di mitigare competitività e produttività con altre forme di compensazione. Così il teatro per esempio surroga alle carenze dell’ostello, e il ristorante a quelle del teatro. E in questo luogo deputato alla solidarietà, che accoglie i disabili, gli psicotici, gli ossessivi, li nutre, li integra come parte di un tutto, restituendo loro un ruolo attraverso il lavoro, il racconto di Paolini non è solo un percorso, una testimonianza, ma una lezione di pedagogia civile.
“Cent’anni fa per finire in manicomio bastava che ci fossero troppi figli in famiglia, che qualcuno avesse un problema”, dice Paolini. “Molti ragazzi, di cui racconto in ‘Ausmerzen’, se avessero avuto un insegnante di sostegno si sarebbero salvati la vita. L’Italia è l’unico paese in Europa a non avere le classi differenziate. In Germania pure i sordi ce le hanno. Noi siamo gli unici matti che provano a tenere i disabili e i ritardati mentali in classe con gli altri bambini. Tutti ci studiano per copiarci, ma noi oggi rischiamo di rinunciare a questo modello perché non ce la facciamo più. In una certa regione del nord c’è persino un assessore alla Sanità che ha stabilito di escludere dai trapianti di organi i pazienti con un quoziente intellettuale inferiore al 60. Si rende conto? E invece ci servirebbe uno scatto d’orgoglio per riconoscere le cose buone che siamo riusciti a fare alla faccia dei paesi più ricchi di noi”.
Non per niente, “Ausmerzen” nasce da un’idea del fratello di Marco Paolini, Mario, di due anni più giovane, pedagogista di professione. “Lui lavora sin dai tempi del servizio civile coi portatori di handicap, mentre io sono un imbranato”, dice il fratello maggiore, “non sarei capace di star dietro ai bambini ritardati”. Mario oggi si occupa anche di formazione degli educatori dei bambini “con disabilità complesse”, come si dice in gergo, incapaci cioè di accedere a un lavoro, vuoi per un deficit neurologico, come una paralisi cerebrale infantile, vuoi perché privi di competenze linguistiche, per effetto di carenze relazionali. Insomma, vive a diretto contatto con un campione di popolazione che ai tempi di Hitler veniva considerata “geneticamente inguaribile” e perciò passibile di misure radicali. “Oggi sappiamo molte più cose di un tempo”, dice al Foglio Mario Paolini, citando i suoi maestri, Andrea Canevaro ed Enrico Montobbio, pionieri nella cultura dell’integrazione. “Ci sono conoscenze che scadono come un vasetto di yogurt. Perciò, non è corretto usare giudizi tranchant quando ci si occupa di disabili: meglio sentirsi compagni di strada, formare operatori che dedichino molto tempo all’istruzione. In passato, le persone disturbate, che avevano comportamenti aggressivi e autolesionistici finivano in manicomio. Oggi si è capito che il lavoro per molti di loro può avere un effetto terapeutico”.
Mario ha il viso dolce di un sacrestano veneto e il verbo pieno del cittadino ispirato. Solo pochi anni fa ha scoperto cos’era successo nella Germania nazista. Nel 2002, leggendo gli atti di un convegno su psichiatria e nazismo, tenuto nel 1998 nell’ex ospedale psichiatrico di San Servolo, venne a conoscenza del famigerato “Aktion T4”, il programma eutanasico e eugenetico nazista, così chiamato dall’indirizzo della villa berlinese, in Tiergartenstrasse 4, sede della Fondazione per la salute e l’assistenza sociale, che ebbe per legge il mandato di sterilizzare prima e sopprimere poi le persone affette da malattie ereditarie considerate inguaribili o da gravi malformazioni fisiche. “Mi consideravo un ottimista, ma quando lessi quegli atti mi resi conto di essere un cretino”, dice sgomento il pedagogista Paolini. “Stavo facendo un mestiere senza sapere che settant’anni prima gente come me aveva commesso quel che aveva commesso. Così, cominciai a studiare, a documentarmi, e mi accorsi che nella storiografia ufficiale di tutto ciò non c’era quasi traccia. L’università continuava a sfornare laureati in Psicologia e Scienza dell’educazione con una scarsissima conoscenza di questi fatti, che non erano l’ennesima nefandezza compiuta dai nazisti, ma l’effetto di una serie di procedure sviluppate in base al movimento eugenetico che a quei tempi accomunava la classe medica, più o meno consapevole delle sue conseguenze”. Mario Paolini cita “Die Freigabe der Vernichtunglebensunwerten Lebens” (“Il permesso di annientare vite indegne di essere vissute”), saggio del 1920 i cui autori, Alfred Hoche e Klaus Binding, rispettivamente un medico e un giudice, sostenevano il diritto dello stato di uccidere “persone mentalmente morte” e eliminare i “gusci vuoti di essere umani”. Insomma, erano i precursori nazi delle tesi care oggi a mille e mille eutanasici libertari.
Sconvolto dalla scoperta, Mario Paolini trovò un appassionato alter ego in Giovanni De Martis, consulente d’azienda col pallino della storiografia, presidente dell’associazione Olokaustos e fondatore dell’omonimo sito, oggi fra i più informati sul tema. Così un bel giorno propose al fratello Marco di girare un documentario con la loro società di produzione. “Partimmo insieme per la Germania”, ricorda oggi De Martis. “Andammo a intervistare il professor Von Cranach, direttore dell’Istituto psichiatrico di Kaufbeuren, massimo conoscitore dell’archivio di quella che negli anni Trenta fu la clinica dello sterminio. E andammo a trovare pure Alice Ricciardi von Platen, la studiosa che per prima, come membro della commissione medica al secondo processo di Norimberga (che finì per comminare lievi pene ai medici, agli psichiatri, al personale sanitario coinvolto) aveva ricostruito l’intero programma eutanasico nazista. Girammo molto, in senso fisico e cinematografico, ma poi finì tutto nel cassetto”.
Il documentario non venne mai realizzato. La cosa parve morire lì. Ma i materiali raccolti erano tali che premevano per essere utilizzati. Mario Paolini continuava a raccontare la storia dei nazisti assassini dei propri figli disabili, dello stato totalitario che organizza il sequestro, la sterilizzazione poi la soppressione fisica dei “pesi morti”, fissando parametri, procedure, stratagemmi vari, che serviranno come prova generale allo sterminio degli ebrei. Nel luglio 1933, cinque mesi dopo la nomina di Hitler alla Cancelleria, venne emanata la legge sulla prevenzione della nascita di persone affette da malattie ereditarie. L’esecuzione era affidata al ministero dell’Interno attraverso i tribunali speciali per la sanità ereditaria, formati da due medici e un giudice distrettuale. Tra il 1933 e il 1939 si calcola siano state sterilizzate dalle 200 mila alle 350 mila persone. Più tardi poi, con l’invasione della Polonia e l’inizio della guerra, partì l’“Aktion T4”, che si protrasse fino al 1941 quando, sospeso per le proteste, venne continuato in altro modo. De Martis, intanto, continuando a fare ricerche, finì per scrivere una prima bozza di sceneggiatura, intitolata “Apolide”. Da questa bozza nacquero le due letture pubbliche tenute da Paolini nel 2008 al Paolo Pini di Milano e a Trieste. Il testo di stasera è l’ultima rielaborazione, passata al vaglio del pubblico e modificata in funzione delle sue reazioni. “Marco ha un’eccezionale capacità di sintesi” dice De Martis. “Rimuginando il testo, riesce a rielaborarlo di continuo finché non trova l’espressione migliore”.
Il racconto di stasera dunque, è stato già provato su gruppi di spettatori a Castelfranco Veneto, a Padova, a Quarto d’Altino, poi in Puglia, a Zara e Mantova. In scena con Paolini ci sarà anche una tedesca di ventitré anni, Naomi Brenner, che non è un’attrice ma una psicologa, che ha tradotto le fonti sensibili, per restituire la verità dei termini con tutte le sfumature necessarie. “Detesto il politicamente corretto”, dichiara infatti Paolini. “La mia non è un’operazione della memoria, e nemmeno un’archeologia confinata a sessant’anni fa. Vuol essere un racconto attuale. Come li chiamo questi disabili, con le parole che usavano i nazisti? Con quelle che usiamo noi? Con quelle che vorrebbero loro? La narrazione non può essere una cosa tranquilla come un saggio: citare le stesse parole che usavano i nazisti significa giocare con termini difficili”, spiega Paolini, che pur essendo un maniaco della preparazione, lascia spazio all’improvvisazione. “Il racconto è un flusso continuo. A volte mi esce una parola, a volte un’altra, a volte mi dico che schifo, attenzione, ho esagerato. Io sono un musicista, sto suonando le parole e mi vengono fuori sbagliate. Qualcuno è turbato, qualcuno protesta… cazzo. Allora a volte usi detestabili eufemismi, per esempio, il termine ‘infelici’ apre un abisso, perché fornisce una giustificazione mostruosa. E comunque, meglio sbagliare e poi vergognarsi, che starci a pensare, sennò non apri più bocca”.
Per il suo racconto, Paolini dunque si serve di documenti ufficiali, di atti processuali, di circolari della Cancelleria del Reich. Ricostruisce il modo in cui i nazisti organizzarono il censimento, racconta dei tribunali speciali che procedettero alla valutazione dei malati, per autorizzare la consegna o per organizzare il sequestro delle persone da “curare”, sterilizzandole prima e eliminandole in seguito. Descrive il modo in cui l’apparato dello stato nazista coinvolse i medici di base, che dovevano persuadere le famiglie a consegnare loro i figli, con la scusa di internarli in strutture ospedaliere create ad hoc per curarli meglio, salvo poi comunicarne ai genitori il decesso, avvenuto previa somministrazione di un cocktail di scopolamina e di luminol, negando loro però il diritto di riottenerne le spoglie, con un imbroglio sulla decorrenza dei termini. Intanto, i corpi di quelle vite indegne di essere vissute erano finiti nei forni crematori, prodromo alla soluzione finale. Insomma, una storia tremenda. L’eutanasia di massa, perpetrata in nome della razza, del miglioramento della specie, della “razionalità” del sistema sanitario e dell’intera società, venne decisa senza alcun consenso individuale. Era il trionfo dell’equivoco nazista, e cioè dell’idea che ci fossero vite indegne di stare al mondo, che lo stato e i funzionari pubblici determinavano, al di là della volontà dei loro stessi portatori o dei loro cari. “Lo stesso inventore dell’eugenetica Francis Galton (1822-1911) non pensò mai che questa scienza scellerata potesse tradursi in una pratica tanto violenta”, avverte oggi Giovanni De Martis. Ma la così detta eutanasia eugenetica non era un’esclusiva della Germania nazista. Era un progetto diffuso, praticato con successo da molti paesi del civilissimo occidente, la Svezia, la Svizzera, la Danimarca, la Gran Bretagna, e persino l’America. E mentre Paolini insiste sulla peculiarità dell’eutanasia nazista, che anticipa lo sterminio di massa, quello che gli sta a cuore è anche l’urgenza di riflettere su un dilemma che, nonostante le differenze, continua ad attanagliare il nostro presente.
“Non credo che la soluzione sia una deliberazione del Parlamento, che ce la caveremo con una legge. Chiunque affronti questa storia sta d’un male cane. Per questo, penso che raccontarla serva da contrappeso a ogni scorciatoia, rendendoci più attenti, più sensibili. D’altra parte, è imbarazzante interpretare documenti o storie come questi in un paese che rischia di farsi governare dall’onda emotiva. Fare una cosa del genere in tv è quasi criminale, perché fai stare male la gente”, avverte Paolini. “Ma il teatro è società. E allora un contrappeso ci vuole. Bisogna incivilire il confronto, parlare di eugenetica per dire che alla fine non migliora la vita. Se io riesco a ricreare la società col teatro, col dibattito, con la tv, tutto questo forse può servire a sconfiggere l’eugenetica, a superare la retorica del miglioramento, a riconoscerla e smascherarla. Forse se ci si frequenta di più non si impazzisce”.
Ma cosa nutre l’ambizione di Marco Paolini? Cosa c’è dentro la testa di questo pazzo che ha il coraggio di portare in tv l’orrore dell’Aktion T4 in un monologo di due ore? Chi è veramente questo montanaro bellunese che invoca il rispetto per la finitezza, il senso del limite, e difende senza condizioni la creatura umana? E’ un cristiano, un cattolico? Un ex comunista? Un cane sciolto? Un laico pentito? Un ateo devoto? Noi non l’abbiamo incontrato al Paolo Pini, dove di “Ausmerzen” non c’è stata nemmeno una prova, ma a Catania, dove Paolini era in tournée fino all’altro ieri col suo “ITIS Galileo”, ospite del Teatro Stabile. Niente di più incongruo di un bellunese nella città etnea. Ma basta una battuta, uno sguardo assorto sull’arborescenza che cresce spontanea sotto certi lastroni inamovibili, sigillati sul lastrico medievale di Palazzo Platamone, attuale sede dell’assessorato alla Cultura, per capire che il saltimbanco aedo del teatro classico, è un uomo attento, dotato di ironia: “La natura è improgettabile. Tra vent’anni i curatori di qualche museo berlinese verranno qui a inchinarsi di fronte a questa installazione spontanea intitolata ‘Erbacce’”.
La visita continua nell’atelier dell’assessore alla Cultura, Marella Ferrera, a Palazzo Biscari. La stilista-assessore mostra la nuova collezione, abiti tessuti a mano, con reti cucite su una composizione di centrini, e intarsi all’uncinetto formati da particolari di vecchie foto in bianche e nero che spiccano al centro. Sono le tracce dei ricordi e dei dolori delle spose per procura che cent’anni fa sbarcavano a Ellis Island, pronte a farsi impalmare da chiunque, persino da un perfetto sconosciuto oriundo siciliano o conterraneo, pur di ottenere un visto d’ingresso negli Stati Uniti. Era questo il nuovo mondo, il futuro riservato a milioni di emigrati (15 in tutto). “Ognuno di questi vestiti è come la rete da pesca di una piccola barca in cui è rimasto impigliato qualcosa”, commenta assorto Paolini. L’intervista col Foglio diventa la prova generale della tenuta scenica, del tono di voce, dell’intensità orale che servirà mettere in scena al Paolo Pini. “Nel 1920, quando le spose siciliane approdavano a Ellis Island, era il momento in cui gli americani applicavano l’eugenetica per rilasciare il visto d’ingresso agli emigranti”, dice Paolini. “Per entrare, dovevi compilare una serie di questionari, e dichiarare strane cose, per esempio se avevi l’abitudine di mangiare la verza, oppure il cavolo. Era un modo per discriminare i settentrionali dai meridionali, e scegliere i primi a scapito dei secondi”.
Per preparare “Ausmerzen”, Paolini ha letto pure il “Mein Kampf”: “Hitler aveva la fobia dei matti, raccontava di quelli che mangiano la cacca, ma aveva capito benissimo cosa stava succedendo in America. ‘Gli Stati Uniti, scriveva, sono più avanti di noi tedeschi: rifiutano certe razze per l’immigrazione’. Il che dimostra che non è il nazismo a creare il clima in cui poi si formano le idee radicali di sterilizzazione e eliminazione dei disabili, ma è il razzismo che si respira nei così detti paesi civili a creare il nazismo”.
E’ il primo colpo contro il luogo comune. Anche le democrazie, come dimostra la storia dei visti siciliani, hanno le loro zone d’ombra. “Esistono le idee eugenetiche legate a Galton alla fine dell’Ottocento”, insiste infatti Paolini, mentre gli occhi pervinca iniziano a brillare, cancellando i tratti della stanchezza. “Uno dei primi a interessarsi alle idee eugenetiche fu Mr. Bell, l’inventore del telefono. Il suo problema erano i sordi che bloccano il mercato. Commissionò uno studio sugli abitanti di una certa isola, mi pare Virgin Island (lo racconta De Martis), ed ebbe la conferma che la sordità è una caratteristica ereditaria. Sicché per risolvere un problema legato al mercato, Bell proporrà di sterilizzare i sordi, per impedirne la riproduzione, consentendo con ciò a tutta la popolazione di utilizzare il telefono. Perciò l’idea di respingere chi non è provvisto di caratteristiche genetiche gradite non nasce in una dittatura o in uno stato totalitario, ma in una democrazia a forte immigrazione”.
Del resto, era la stessa epoca in cui gran parte della popolazione dell’Italia meridionale venne sottoposta a osservazione dal frenologo Cesare Lombroso, che definendo i tratti fisiognomici del tipo bruzio, per corroborare la lotta al brigantaggio, fondò la scienza della criminologia. “Effettivamente, basta guardare le foto della Prima guerra mondiale, per vedere come rinviassero ancora a un carattere somatico prevalente”, replica Paolini. “I reggimenti sardi sull’altipiano di Asiago erano somaticamente diversi dai loro ufficiali piemontesi. Di fatto, gli italiani si guardano per la prima volta nelle palle degli occhi sui campi di battaglia della Prima guerra mondiale. L’emigrazione interna ancora non esisteva. Un friulano alto, bianco robusto e un calabrese nero riccio e secco come i fichi di settembre, erano increduli di appartenere allo stesso paese. All’inizio, tra loro c’è diffidenza”. Poi però la trincea crea un legame. “La guerra certo lega, perché se fai la stessa tribolazione diventi fratello, e poi in quella tribolazione circolano idee nuove, le idee socialiste, le idee di solidarietà, nella sopportazione dei triboli fraternizzi persino con quelli che combattono dall’altra parte”.
Allora torna la domanda: il razzismo è una tendenza propria al nazionalsocialismo, dell’idea di uno stato fondato sulla purezza etnica o anche altro? “Non parliamo di tendenza, per favore”, esclama Paolini. “E’ pericoloso!”. E per dimostrarlo torna agli anni Settanta, quando si discuteva sull’innato e sull’acquisito, discettando su natura e cultura. “Di chi è la colpa se tu sei un delinquente, della società o della genetica? Ce lo domandavamo da ragazzi. La questione era chiara: chi sosteneva che sono i geni a determinare il carattere era di destra; se invece dicevi che era la società, passavi per uno di sinistra. La distinzione appariva in embrione in un libro di Erich Fromm e costellava le nostre discussioni adolescenziali tra chi citava le tesi di Konrad Lorenz, e chi replicava con quelle di Bertrand Russel. Tutte cose che approcciavamo ingenuamente, bevendoci brutte traduzioni. Oggi non si ragiona più così. Non si osa nemmeno. Però, se ci pensi, la genetica piano piano è diventata un elemento cardine nella soluzione dei nostri problemi. E’ al centro della possibilità di migliorare la nostra vita non solo per vincere le malattie, ma come strumento di controllo sociale, di controllo delle nascite, di orientamento anche estetico, nella selezione del sesso dei nascituri. Siamo arrivati allo shopping procreativo, a decidere come voglio il mio bambino. Ne discutiamo e ci arrabbiamo pure, perciò è importante sapere cosa il passato abbia prodotto di mostruoso, in questo senso. Ma se poniamo al genetista la domanda che assillava i ragazzi negli anni Settanta, e cioè quanto è determinato dall’impronta genetica e quanto invece è effetto dell’educazione e della società, lui sorriderà, spiegandoci che il nostro Dna non può fornirci più del sei per cento di ciò che noi siamo”.
Percentuale irrisoria. “Le differenze cromosomiche tra la più bianca antartica e la più nera aborigena delle popolazioni, mi dirà oggi il genetista, sono racchiuse in un numero infinitamente piccolo di elementi del corredo genetico della specie umana. Il che vuol dire che la velleità di creare un popolo in base a un patrimonio genetico comune, come quella della Germania nazista, si fonda su un assurdo, su un dato scientificamente falso; perché alla fine, se solo il sei, il sette, l’otto, diciamo pure il dieci per cento dipende dal corredo genetico, se guardandoci intorno ci scappa da dire, ‘questa è una società di stronzi’, il problema purtroppo non è risolvibile geneticamente, ma rinvia al discorso della scuola. In altre parole, non è che se mettiamo a posto il Dna l’Italia va meglio; perché il 90 per cento dipende da quello che guardiamo, sentiamo leggiamo. Perciò, puoi pure sceglierti il bambino che vuoi allo shopping genetico, ma sta’ tranquillo che se tu sei stronzo per educazione e per cultura, viene fuori stronzo anche lui. Dunque, non è questione di Dna o di concepimento, ma del lavoro che devi fare su te stesso. Su questo non c’è scampo. Certo, se interpreti la procreazione come marketing cui scegli il prodotto, la vera domanda è: vale ancora la pena di riprodurre una specie umana che ragiona in questo modo? Mi sembra di no. C’è una linea di demarcazione tra le preoccupazioni per la salute e il capriccio, il vizio, l’idea che il mercato mi mette a disposizione un prodotto e io sono come un bambino davanti alla vetrina, di un negozio, senza più i genitori di una volta che sapevano tirargli uno scappellotto, se cominciava a gridare voooglioooo quello!!!!!”.
La genetica così però ne esce a pezzi? “Certo, può tutelarci dalla malattia, ma non risolve la stronzaggine. Ora, i problemi che abbiamo di fronte sono per la maggior parte educativi, comportamentali. Non richiedono l’investimento da parte di una multinazionale e nemmeno il colpo di scena che migliori la specie. Tocca fare manutenzione, arte ordinaria, sulla quale non ci sono scorciatoie, come frequentare la scuola dell’obbligo, imparare a parlare senza ruttare o senza alzare la voce. Il che significa introdurre un’autolimitazione, fatto di per sé privo di appeal, ma necessario”.
Così, partendo dall’opposizione tra natura e cultura, e passando per lo studio del genoma, si arriva allo spettacolo di stasera. “Io racconto un pensiero mostruoso. Racconto di come brava gente possa arrivare a mettere in opera pratiche criminali avendo demolito, ma molto progressivamente, ogni freno inibitore. Alla fine, so che la causa di tutto questo è, da un lato, nelle idee eugenetiche, dall’altro nel mancato bilanciamento offerto da un sistema solido dotato di un senso del limite. Il mancato contrappeso all’eugenetica, che permette lo sterminio, però, non è un’idea scientifica. E’ un’idea morale e culturale: è il tessuto sociale in grado di avere il senso del limite. Un dittatore può anche avere la velleità di pensare che in questo modo si debellano le malattie e si migliora la specie, soprattutto se la specie avesse contezza che il miglioramento non avviene attraverso un colpo di scena, ma attraverso un costante lavoro di manutenzione, grazie al peso dell’esperienza, grazie all’autorevolezza della nazione, al ruolo dell’adulto… noi oggi però viviamo un’epoca che vede l’abiura degli adulti”.
Abiura degli adulti, dice proprio così Marco Paolini, usando una bella espressione per un fenomeno che è sotto gli occhi di tutti, e cioè la morte della vecchiaia, il trionfo spasmodico della giovinezza, inseguita fuori tempo massimo da chiunque. “Gli adulti abiurano perché vogliono essere giovani. Questo ci chiedono il mercato e i modelli dominanti: tenerci giovani. E in questo c’è la complicità degli adulti, che rifiutano di farsi sorpassare, non mollano la sedia. Fare coming out, oggi, significa dichiararsi adulti”. Insiste Paolini, con sottinteso politicamente scorrettissimo. Dichiararsi adulti è ciò che richiede vero coraggio sociale, altro che dichiararsi gay. “Assumersi il compito della responsabilità, smascherare tesi grottesche. D’accordo la genetica, ma dove arriveremo? Dammi un contrappeso. D’accordo la ricerca sulle staminali e la possibilità di debellare malattie. Non voglio censurare alcuna opzione che mi permetta di battere queste strade. Dopodiché non voglio essere semplicemente il malato ansioso e spaventato che si rivolge al medico e non capendo di cosa stia parlando e, vedendo che magari la cura non funziona, un attimo dopo va dal mago. Io rispetto il dolore e l’ansia delle persone, ma non è un mondo di adulti quello che avrà bisogno del dottor Di Bella o chi per lui, per avere speranza, per trovare quel magico plus di energia che a volte manca nell’approccio con un medico bravo, ma incapace di trasmettere fiducia. Noi siamo fragili, perché siamo disposti ad affidare la soluzione dei problemi a chi non ha queste capacità. Mentre un adulto delle generazioni più solide, che accettavano la finitezza, non apriva subito a chiunque bussasse alla sua porta. Ecco, secondo me è questo che ci manca degli adulti, l’esperienza che, sulla base di qualcosa che non posso aver imparato solo io, ma anche la mia gente, permette di selezionare, di accettare una cosa, di decidere se vale la pena di fidarmi. Oggi non abbiamo più questa diffidenza istintiva che difende, siamo tutti creduli. Siamo fragili. Questo è il pericolo rispetto all’eugenetica. La Germania degli anni Trenta era fragile. Soffriva le conseguenze di una crisi economica devastante. Non voglio stabilire un nesso di tipo deterministico, ma è chiaro che una condizione di sofferenza diffusa che interessa molte fasce della popolazione, la perdita di sicurezza, l’inflazione galoppante, offrono il destro all’idea di eliminare gli inutili, di buttare a mare chi non produce, chi non ha pagato il biglietto e costa troppo. E se stai male è più difficile resistere alla lusinga di un pensiero cattivo, che anche i sani hanno, perché è un pensiero che alberga nel cuore di ogni persona, non solo dei cattivi. Solo che, se hai il contrappeso dell’educazione, o di un sistema di relazioni, lo puoi isolare, neutralizzare. Puoi vergognartene. In un momento di crisi, invece, quel pensiero diventa condiviso. E se poi il governo, arrivato al potere nel 1933, lo esprime nei manifesti, nei libri di scuola, nei corsi universitari, alla fine quando vedo tanti professori che dicono la stessa cosa, io di quel pensiero recondito non mi vergogno più, perché ormai ha assunto una cittadinanza”.
E’ strano parlare di miseria, solitudine, sofferenza, per spiegare il trionfo dell’eugenetica nazista, e farlo nel meridione. Qui da sempre manca il lavoro, e tutti si ricordano i poveri che mendicavano scalzi l’olio fritto nelle case dei ricchi. Eppure i matti, gli scemi del villaggio qui sono sempre stati una presenza familiare, come Cipì, che s’aggirava in pieno agosto, in un paesino della Calabria, coperto di strati di cappotti e impermeabili, le mani avvolte in sacchetti di plastica, e gli occhi da ebete puntati su di noi bambini che pure capivamo benissimo cosa voleva dirci con quei suoi strani suoni gutturali. “Attenzione”, risponde Paolini sorridendo. “L’unica forma di resistenza all’eutanasia di stato si ebbe nei paesini della Pomerania, del Baden Württemberg, della Sassonia, nei villaggi dei minatori della Ruhr, dove tutti si conoscono e il matto del villaggio ha un nome proprio. Sono pochi i casi dove il pulmino coi vetri oscurati che andava a prelevare i disabili, gli idioti, gli idrocefali, gli schizofrenici o gli psicotici girava a vuoto, senza poter fare il suo carico umano, perché gli abitanti di quei paesini erigono barricate”.
Paolini cita il libro di Alice von Platen, ma insiste sulla complicità dei medici. Dice che ci furono obiezioni di coscienza, ma molti inganni, ricatti, intimidazioni. Se rifiutavano di consegnare il figlio ritardato o storpio, le famiglie rischiavano di perdere la tessera annonaria. Gli unici episodi di resistenza avvennero in piccole comunità solidali che dei loro matti e dei loro storpi si prendevano cura. Oggi non se ne vedono più. “La società liquida rende tutti perfettamente uguali e omologabili. E appena arriva l’alluvione, ti parlo da veneto, in questi paesi dove si vive bene e tante case vanno sott’acqua, si dice ‘ci hanno lasciato soli’, lo stato non ci aiuta. Ma a parte i tempi tecnici per l’arrivo della Protezione civile, io dico, il tuo vicino di casa dov’era? Non ne hai? Se l’argine si rompeva trent’anni fa, sarebbe accorso per primo a darti una mano. Ma se tu i vicini non li vedi da sedici anni, questo ti rende più fragile, ti espone a idee bislacche come il pensare che il tuo rapporto col mondo passi per uno schermo al silicio, invece che dalla porta di casa. Oggi a noi manca la società vicinale, manca il prossimo, che determinava la prevalenza della vita pubblica su quella privata”.
A questo serve il racconto di Paolini, a ricordarci cosa è successo nella Germania di Hitler e a farci riflettere sul perché, a richiamarci al senso del limite e alla nostra responsabilità di uomini liberi, anche se nessuno oggi riesce a farsi soverchie illusioni. “Rispetto alla mostruosità di queste cose”, conclude Paolini, “un attore è come un’aspirina. Sono consapevole che devi avere un senso del limite pauroso, pur muovendo in una zona in cui se non fai vivere questa cosa qui, se non l’accendi, nessuno ti ascolta. E come faccio io ad accenderla? Non lo so. So solo che ho smesso di fare ‘Vajont’ perché nessuna tecnica teatrale mi permetteva di ripeterlo a teatro tutte le sere, mantenendo la mia integrità psicofisica. Ripetendo una cosa che costa fai del male, picchi duro, picchi i bambini. Mi sono accorto che ci sono cose che trascendono il mestiere, perché ti fanno soffrire davvero. Devi stare attento a non esagerare. Se ti fai coinvolgere ti si spezza la voce e rendi un cattivo servizio. Ci sono parti in cui corro dei rischi, trattenere il respiro sarebbe un po’ troppo liberatorio per chi guarda. L’unica cosa che posso fare per raccontarla bene questa storia, e provocare domande che turbano senza offendere, è creare un tono, fare in modo che siano parole sommesse, senza l’urtante presunzione che rende impossibile ragionare con gli altri. E poi, il vero soggetto di questo racconto non sono i cattivi processati a Norimberga, ma la brava gente, la gente come noi, quelli come me e te. Se creo indignazione, offrendo al pubblico solo un bersaglio, forse ho sfuocato l’obiettivo. La vera preoccupazione è che si impazzisce in gruppo e si rinsavisce da soli, ma ci vuole tempo”.
«Il Foglio» del 25 gennaio 2011