31 maggio 2010

F. Petrarca, Familiares, XXI 15 (lettera a G. Boccaccio)

Edizione di riferimento: Francesco Petrarca, Opere, Canzoniere - Trionfi - Familiarium rerum Libri - con testo a fronte, Sansoni editore, Firenze 1975, secondo l'edizione curata da Vittorio Rossi e Umberto Bosco, per l'edizione nazionale nazionale delle opere di Francesco Petrarca, Firenze, Sansoni, 1933-1942 con la traduzione inedita di Enrico Bianchi.
di Francesco Petrarca
A Giovanni da Certaldo,
difendendosi da una calunnia mossagli da invidiosi.
Molte cose sono nella tua lettera che non hanno bisogno di risposta, perché già le trattammo poco fa a viva voce. Ma di due non debbo tacere, e su di esse ti dirò il mio pensiero. In primo luogo, tu mi chiedi scusa, e non senza perché, di aver fatto grandi lodi di un nostro concittadino, popolare per quel che riguarda lo stile, ma indubbiamente nobile per il contenuto; e ti scusi in modo, da sembrare ch’io stimi le lodi di lui o di chiunque altro recar danno alla mia gloria; e perciò tu aggiungi che, se ben considero, tutto il bene che dici di lui ridonda a mia gloria. Dici anche chiaramente, a giustificazione dalle tue lodi, che quand’eri giovinetto egli fu prima guida e primo lume ai tuoi studi; sentimento giusto, grato, memore e, per parlar più propriamente, pieno di pietà; che se tutto dobbiamo ai genitori, molto ai benefattori, di che non siamo debitori a chi guidò e formò le nostre menti? Quanto siano da noi più benemeriti quelli che ebbero cura della nostra mente di quelli che curarono il nostro corpo, comprenderà chi sa giustamente apprezzare l’una e l’altro, e dovrà convenire che quella è dono immortale, questo è mortale e caduco. Tu dunque, non col mio per­messo ma con la mia approvazione, esalta e venera, quella face del tuo ingegno, che ti procurò ardore e luce in questa via, nella quale tu procedi a gran passi verso la gloria; face che a lungo agitata e vorrei dire stancata dai ventosi applausi del volgo, tu porterai al cielo con lodi finalmente vere e degne di te e di lui. Di tali lodi io mi compiacqui, poiché egli è degno di un tal banditore e tu, come dici, di questo gli sei debitore; e lodo perciò il tuo carme laudatorio e con lui il tuo vate. Ma dalla tua lettera di scusa nient’altro ricavo se non che io ti sono ancor poco noto, mentre credevo d’esserti notissimo. Così dunque io non mi compiaccio, non mi esalto alle lodi degli uomini illustri? Credimi, nulla è da me più alieno, nulla più ignoto del­l’invidia; anzi - vedi quanto ne sono lontano! - posso assicurarti, e ne chiamo a testimone Iddio che legge nei cuori, che nulla nella vita più mi addolora che vedere a chi se lo merita venir meno la gloria e il premio; non ch’io mi lamenti del mio danno o che dal contrario speri un guadagno, ma perché compiango la pubblica sorte, vedendo che il premio delle arti oneste vien dato alle oscene; sebbene non ignori che, se la gloria dei buoni inciti gli animi a imitarli, tuttavia la vera virtù, come affermano i filosofi, è sprone a se stessa, e stimolo e meta. Or dunque, poiché tu me ne hai offerto un’occasione, che io da me non avrei cercato, io voglio fermarmi un po’ per difendermi davanti a te e per tuo mezzo davanti agli altri da un’opinione che non solo a torto - come dice Quintiliano di sé e di Seneca - ma insidiosamente e malignamente si è divulgata sul giudizio ch’io fo di quel poeta. Poiché chi mi vuol male dice ch’io l’odio e disprezzo, cercando così di suscitarmi contro l’odio di quel volgo al quale egli è graditissimo; nuova specie d’iniquità e arte mirabile di nuocere. A costoro rispon­derà per me la verità.

Prima di tutto, io non ho nessuna ragione d’odio verso un uomo che non ho mai veduto, se non una volta sola nella mia infanzia. Visse col mio nonno e con mio padre, più giovane del primo, più vecchio del secondo, col quale nel medesimo giorno e da una stessa tempesta civile fu cacciato dalla patria. Spesso tra compagni di sventura nascono grandi amicizie; e questo accadde anche tra loro, che oltre alla fortuna avevano in comune l’ingegno e gli studi, se non che all’esilio, al quale mio padre ad altre cure rivolto e pensoso della famiglia si rassegnò, egli si oppose ed agli studi con maggiore ardore si consacrò, di tutto incurante e sol di gloria desideroso. E in questo non saprei abbastanza ammirarlo e lodarlo; poiché non l’ingiuria dei concittadini, non l’esilio, non la povertà, non gli attacchi degli av­versari, non l’amore della moglie e dei figliuoli lo distrassero dal cammino intrapreso; mentre vi sono tanti ingegni grandi, sì ma così sensibili, che un lieve sussurro li distoglie dalla loro intenzione; ciò che avviene più spesso a quelli che scrivono in poesia e che, dovendo badare, oltre che al concetto e alle parole, anche al ritmo, hanno bisogno più di tutti di quiete e di silenzio. Tu comprendi perciò che davvero odioso e ridicolo è quell’odio che alcuni hanno immaginato ch’io porti a questo poeta, poiché, come vedi, non ho alcuna cagione d’odiarlo, ma molte d’amarlo, ovvero la patria comune e la paterna amicizia e l’ingegno e lo stile, ottimo nel suo genere, che lo rendono immune da ogni disprezzo. L’altra calunniosa accusa che mi si fa è che io, che fin da quella prima età in cui avidamente si coltivano gli studi, mi compiacqui tanto di far raccolta di libri, non abbia mai ricercato il libro di costui, e mentre con tanto ardore mi diedi a raccoglier libri quasi introvabili, di quello solo, che era alla mano di tutti, stranamente non mi sia curato. Confesso che è così, ma nego di averlo fatto per le ragioni ch’essi dicono. Io allora, dedito a quel suo stesso genere di poesia, scrivevo in volgare; nulla mi sembrava più elegante, né pensavo di poter aspirare a meta più alta, ma temevo che, se mi fossi dedicato alla lettura degli scritti suoi o di qualcun altro, non mi accadesse, in un’età così pieghevole e proclive all’ammirazione, di diventare volente o nolente un imitatore. Da questo nella baldanza del mio animo giovanile io aborrivo, e tanta era in me la fiducia o meglio l’audacia, da credere di potere col mio ingegno e senza l’aiuto di alcuno crearmi uno stile proprio e ori­ginale; se fu vana credenza, vedano gli altri. Ma questo io affermo che se qualche parola o espressione si trovi nei miei versi che a quelle di quel poeta o di altri sia simile o uguale, ciò avvenne non per furto o per volontà di imitare - due cose che come scogli io cercai sempre di evitare, soprattutto scrivendo in volgare - ma per caso fortuito o, come dice Cicerone, per somiglianza d’ingegno, calcando io senza volerlo le orme altrui. Credi pure che è così, se in qualche cosa mi credi; nulla è più vero. E se questo non feci, come pur si deve credere, per modestia o vergogna, si deve accusarne la giovanile baldanza. Ma oggi io son ben lontano da tali scrupoli, e poiché da quegli studi mi sono del tutto allontanato, e ogni timore è scomparso, accolgo presso di me tutti gli altri poeti, e questo prima di tutti. Io che mi offrivo al giudizio altrui, ora in silenzio giudico gli altri, quale più e quale meno, ma questo in modo da dargli senza esitazione la palma della volgare eloquenza.

Mentiscono dunque quelli che affermano ch’io cerchi di diminuir la sua gloria, mentre forse io solo, meglio di molti di questi insulsi ed esagerati lodatori, so che sia quel non so che di incognito che accarezza loro le orecchie ma, poiché la via dell’ingegno è chiusa, non discende nel loro animo. Sono essi di coloro che Cicerone bolla nella sua Retorica: « Quando », egli dice, « leggono buone orazioni o buone poesie, approvano gli oratori e i poeti, ma non intendono per quale im­pulso li approvino, perché non possono sapere dove sia né che sia né come sia quello che li diletta ». E se questo avviene per Demostene e Cicerone e Omero e Virgilio tra uomini colti e nelle scuole, come non avverrà per questo nostro tra persone volgari nelle taverne e nelle piazze? Per quel che mi riguarda, io l’ammiro e l’amo, non lo disprezzo; e credo di potere sicuramente affermare che se egli fosse vissuto fino a questo tempo, pochi avrebbe avuto più amici di me, se quanto mi piace per l’opera del suo ingegno così mi fosse piaciuto anche per i costumi; e al contrario, che a nessuno sarebbe stato più in odio che a questi sciocchi lodatori, che non sanno mai né perché lodano né perché biasimano, e facendogli la più grave ingiuria che si possa fare ai poeti, sciupano e guastano, recitandoli, i suoi versi; del che io, se non fossi così occupato, farei clamorosa vendetta. Ma non posso fare altro di lamentarmi e disgustarmi che il bel volto della sua poesia venga imbrattato e sputacchiato dalle loro bocche; e qui colgo l’occasione per dire che fu questa non ultima cagione ch’io abbandonassi la poesia volgare a cui da giovane m’ero dedicato; poiché temei che anche ai miei scritti non accadesse quel che vedevo accadere a quelli degli altri e specialmente di quello di cui parlo, non potendo sperare che la lingua o l’animo di questi cotali si mostrassero più inclini o più miti verso le mie cose di quel che s’eran dimostrati verso quelle di coloro, cui il prestigio dell’antichità e il favor generale avevano resi celebri nei teatri e nelle piazze. E i fatti dimostrano che i miei timori non furono vani, poiché quelle stesse poche poesie volgari, che giovanilmente mi ven­nero scritte in quel tempo, sono continuamente malmenate dal volgo, sì che ne provo sdegno, e odio quel che un giorno amai; e ogni volta che, contro voglia e irato con me stesso, mi aggiro per le strade, dappertutto trovo schiere d’ignoranti, tro­vo il mio Dameta, che suole nei trivii

Su stridente zampogna al vento spandere

Miseri carmi.

Ma anche troppo io mi sono indugiato su argomenti di così poco conto, che d’esser trattato seriamente non meritava, dovendo io in altre cure impiegare questo tempo che più non ritorna; ma mi è sembrato che la tua scusa somigliasse un po’ all’accusa di quei tali. Poiché, come ti ho detto, molti mi rinfacciano un odio, altri un disprezzo per questo poeta, di cui oggi a bella posta non fo il nome, perché il volgo, che tutto ascolta e niente capisce, non vada poi dicendo ch’io lo denigro; poiché molti mi accusan d’invidia, e son proprio quelli che invidiano me e il mio nome. Che sebbene io non sia gran che da invidiare, tuttavia gl’invidiosi non mi mancano; ciò che una volta non credevo possibile e di cui tardi mi sono accorto. Eppure or son molti anni, quando poteva scusarmi il bollor della gioventù, non con parole o scritti di poco conto, ma in un carme inviato a un uomo insigne, forte della mia coscienza osai affermare di non provare invidia per nessuno. E sia pure che altri non mi creda degno di fede. Ma, dimmi, come è mai possibile ch’io invidi uno che dedicò tutta la sua vita a quegli studi ai quali io dedicai appena il primo fiore della giovinezza, sì che quella che per lui fu, non so se unica, ma certo arte suprema, fu da me considerata uno scherzo, un sollazzo, un’esercitazione dell’ingegno? Come può esservi qui luogo all’invidia o al sospetto? Quanto a quel che tu dici, ch’egli poteva, se voleva, volgersi ad altro stile, io credo, in fede mia - poiché grande è la stima ch’io fo del suo ingegno - ch’egli avrebbe potuto fare tutto quello che avesse voluto; ma è chiaro che al primo si dedicò. E sia pure che all’altro si dedicasse e pienamente lo raggiungesse; e che perciò? e perché dovrei invidiarlo e non esaltarlo? e a chi porterà invidia chi neppur di Virgilio è invidioso, se pur non si dica ch’io invidi a costui l’applauso e le rauche grida dei tintori, degli osti, dei forzatori di cui mi compiaccio d’esser privo insieme con Virgilio e Omero? Poiché so quanto valga presso i dotti la lode degl’ignoranti; se pure non si creda ch’io abbia più caro un cittadino mantovano che un fiorentino, ciò che, se non altro, sarebbe indegno della nostra comune origine; sebbene io sappia che l’invidia alligna soprattutto tra vicini; ma un tale sospetto, oltre che da altre cause che ho detto, è infirmato anche dalla differenza d’età; poiché, come dice elegantemente quel Cicerone che nulla dice senza eleganza, « i morti sono senza invidia e senz’odio ». Tu mi crederai se ti giuro che mi piace l’ingegno e lo stile di quel poeta, e che di lui io non parlo mai se non con gran lode. Questo solo ho risposto a chi con più insistenza me ne domandava, che egli fu un po’ disuguale, perché è più eccellente negli scritti in volgare che non in quelli in poesia e in prosa latina; e questo neppur tu negherai, né vi sarà alcun critico di buon senso che non veda che ciò gli torna a lode e gloria. Poiché, chi mai, non dirò ora che l’eloquenza è ormai morta e sepolta, ma anche quando più era in fiore, fu sommo in ogni sua parte? Leggi le Declamazioni di Seneca: una tale eccellenza non si concede né a Cicerone, né a Virgilio, né a Sallustio, né a Platone. Chi può aspirare a una lode che è negata a ingegni così grandi? basta distinguersi in un sol genere. E così stando le cose, tacciano coloro che intessono calunnie; e quelli che dei calunniatori si fidarono, leggano, di grazia, questo mio giudizio. Liberato l’animo da ciò che l’opprimeva, vengo all’altra cosa. Quando tu mi ringrazi ch’io mi sia dimostrato così sollecito della tua salute, tu ti mostri cortese al modo delle persone civili, ma non comprendi che fai cosa inutile. Poiché, come si può ringraziare uno perché abbia cura di se stesso e bene amministri il suo? Le tue, o amico, sono le mie cose. Sebbene tra le cose umane nulla sia più santo, più divino, più celeste dell’amicizia, salvo la virtù, tuttavia credo che ci sia differenza tra l’essere il primo ad amare o a essere amato, e che con maggior reli­gione si debbano coltivar le amicizie che contraccambiamo che quelle che da noi stessi furono offerte. Per tacer di altri esempi, nei quali mi dichiaro vinto dal tuo ossequio e dalla tua amicizia, non potrò mai dimenticarmi di quando, viaggiando io in fretta attraverso l’Italia nel cuor dell’inverno, non con gli affetti soli, che son come i passi dell’anima, ma con la persona celermente mi venisti incontro per il desiderio grande di conoscere un uomo non mai visto prima d’allora, facendoti precedere da un carme veramente pregevole; e così, proponendoti d’amarmi, mi mostrasti prima l’aspetto del tuo animo che quello del tuo viso. Era vicina la sera e l’aria si oscurava, quando entrando dopo lunga assenza dentro le mura della patria fui accolto dal tuo affettuoso e immeritato saluto. Tu rinnovasti con me quel poetico incontro del re Arcadio con Anchise, in cui

La mente ardea con giovanile amore

Di chiamarlo per nome e destra a destra

Congiungere.

Che sebbene io non, come quello, avanzassi più alto degli altri, ma più umile, in te tuttavia non meno era ardente l’animo. Tu mi guidasti non « sotto le mura di Fineo », ma nei sacri penetrali della tua amicizia; né io ti donai

Una bella faretra e licii dardi,

ma un affetto perenne e sincero. In molte altre cose a te inferiore, in questa sola non mi sento da meno né di Niso, né di Pitia, né di Lelio. Addio.

Postato il 31 maggio 2010

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