di Maurizio Belpietro
In cinquant’anni di vita il Partito radicale ci ha abituati alle sue battaglie di disobbedienza civile. Ricordate gli aborti praticati da Emma Bonino per spingere la classe politica a fare una legge che consentisse l’interruzione di gravidanza? Il rifiuto a indossare la divisa per far approvare il diritto a non impugnare un’arma, svolgendo un servizio civile alternativo a quello militare? O – ancora – l’hashish distribuito da Marco Pannella per indurre il Parlamento a liberalizzare le droghe? Quelle dei militanti della Rosa nel pugno erano autentiche provocazioni, pugni nello stomaco con cui gli stessi radicali erano pronti a rischiare l’illegalità pur di richiamare l’attenzione su un problema. Le loro erano scelte politiche studiate ad arte per suscitare scandalo, finire sui giornali, aprire processi in cui, alla fine, non loro – i radicali – ma le questioni degli aborti clandestini, dell’obiezione di coscienza e dello spaccio di droga finissero sul banco degli imputati.
Si può essere d’accordo – e talvolta noi lo siamo stati – o meno su quelle «disobbedienze civili», ma è fuor di dubbio che i radicali mettevano in gioco loro stessi, anche dal punto di vista penale, pur di costringere il Paese a discutere, pur di riuscire a smuovere l’opinione pubblica e la politica.
Nel caso Welby però ci sembra siano andati oltre il pugno nello stomaco. Ciò che resta di quel partito appare vittima, stavolta, di un riflesso condizionato che lo condanna al ruolo di disobbedienza, senza rendersi conto che in gioco non c’era il diritto alla «canna» giornaliera o quello di non tenere in mano il fucile, ma una vita umana.
Confesso che il dramma di Piergiorgio Welby mi ha colpito e ha suscitato in me profonda tristezza. E non solo per il dolore di un uomo che soffre e non riesce più a vivere, ma anche per una vita piegata alle esigenze della battaglia politica: una campagna condotta in nome del diritto alla morte garantito per legge. Durante la conferenza stampa in cui i radicali hanno annunciato la morte dell’ex pittore non ho trovato traccia del dolore per la fine di questa vita.
Il tono delle frasi pareva quello di una vittoria per mettere il Paese di fronte al fatto compiuto: Welby è morto, eutanasia è fatta. La provocazione ha conseguito l’obiettivo. La disobbedienza civile ha avuto il sopravvento e per i radicali il successo politico è ottenuto: il medico che ha staccato la spina probabilmente sarà indagato. Si farà un processo. Ci sarà, nuovamente, grande clamore mediatico. Si aprirà dunque un caso e il Parlamento non potrà rimanere inerte. Welby è morto, viva Welby. Se avesse continuato a vivere, prima o poi il dibattito sull’eutanasia sarebbe stato accantonato. Così invece non sarà.
Ciò che sconcerta è la sbrigatività con cui si liquida una vita, il cinismo con cui si reclama la morte garantita dallo Stato. Anzi, morte assistita dallo Stato o dai suoi rappresentanti. Perché è questo il nocciolo del problema: la morte, per loro, dev’essere un diritto sancito per legge. Un diritto da delegare perché qualcuno esegua.
Si obietterà: Welby voleva morire, Welby non voleva più vivere in quel modo. Lo so, e mi domando: chi stabilirà qual è il modo giusto in cui si può decidere che non si vuole più vivere e si lascia ad altri il compito di staccare la spina? Solo in caso di sclerosi che ti paralizza in un letto o anche in altri casi? Chi deciderà a che punto si può ricevere aiuto per morire? Risposta: l’individuo stesso, basterà un testamento biologico. Ognuno metterà per iscritto quando e se staccare la spina. Semplicissimo.
La verità è che alla fine a deliberare sarà sempre un comitato, di giudici o esperti. Rappresentanti dello Stato decreteranno la modica quantità di vita che dà diritto alla morte. Una commissione sentenzierà se ci sono le condizioni per accedere all’assistenza per andare all’aldilà.
Che orrore e che terrore. Già lo Stato ci prende per mano appena nati e ci assilla fino alla morte. Così ci aiuterà anche a raggiungerla più in fretta, se lo vorremo o se avremo – qualche anno prima – espresso il desiderio di essere assistiti nel trapasso. È la statalizzazione della fine di una vita. Quasi un fatto burocratico. Si compila un modulo e si attende. E la chiamano battaglia di civiltà.
Si può essere d’accordo – e talvolta noi lo siamo stati – o meno su quelle «disobbedienze civili», ma è fuor di dubbio che i radicali mettevano in gioco loro stessi, anche dal punto di vista penale, pur di costringere il Paese a discutere, pur di riuscire a smuovere l’opinione pubblica e la politica.
Nel caso Welby però ci sembra siano andati oltre il pugno nello stomaco. Ciò che resta di quel partito appare vittima, stavolta, di un riflesso condizionato che lo condanna al ruolo di disobbedienza, senza rendersi conto che in gioco non c’era il diritto alla «canna» giornaliera o quello di non tenere in mano il fucile, ma una vita umana.
Confesso che il dramma di Piergiorgio Welby mi ha colpito e ha suscitato in me profonda tristezza. E non solo per il dolore di un uomo che soffre e non riesce più a vivere, ma anche per una vita piegata alle esigenze della battaglia politica: una campagna condotta in nome del diritto alla morte garantito per legge. Durante la conferenza stampa in cui i radicali hanno annunciato la morte dell’ex pittore non ho trovato traccia del dolore per la fine di questa vita.
Il tono delle frasi pareva quello di una vittoria per mettere il Paese di fronte al fatto compiuto: Welby è morto, eutanasia è fatta. La provocazione ha conseguito l’obiettivo. La disobbedienza civile ha avuto il sopravvento e per i radicali il successo politico è ottenuto: il medico che ha staccato la spina probabilmente sarà indagato. Si farà un processo. Ci sarà, nuovamente, grande clamore mediatico. Si aprirà dunque un caso e il Parlamento non potrà rimanere inerte. Welby è morto, viva Welby. Se avesse continuato a vivere, prima o poi il dibattito sull’eutanasia sarebbe stato accantonato. Così invece non sarà.
Ciò che sconcerta è la sbrigatività con cui si liquida una vita, il cinismo con cui si reclama la morte garantita dallo Stato. Anzi, morte assistita dallo Stato o dai suoi rappresentanti. Perché è questo il nocciolo del problema: la morte, per loro, dev’essere un diritto sancito per legge. Un diritto da delegare perché qualcuno esegua.
Si obietterà: Welby voleva morire, Welby non voleva più vivere in quel modo. Lo so, e mi domando: chi stabilirà qual è il modo giusto in cui si può decidere che non si vuole più vivere e si lascia ad altri il compito di staccare la spina? Solo in caso di sclerosi che ti paralizza in un letto o anche in altri casi? Chi deciderà a che punto si può ricevere aiuto per morire? Risposta: l’individuo stesso, basterà un testamento biologico. Ognuno metterà per iscritto quando e se staccare la spina. Semplicissimo.
La verità è che alla fine a deliberare sarà sempre un comitato, di giudici o esperti. Rappresentanti dello Stato decreteranno la modica quantità di vita che dà diritto alla morte. Una commissione sentenzierà se ci sono le condizioni per accedere all’assistenza per andare all’aldilà.
Che orrore e che terrore. Già lo Stato ci prende per mano appena nati e ci assilla fino alla morte. Così ci aiuterà anche a raggiungerla più in fretta, se lo vorremo o se avremo – qualche anno prima – espresso il desiderio di essere assistiti nel trapasso. È la statalizzazione della fine di una vita. Quasi un fatto burocratico. Si compila un modulo e si attende. E la chiamano battaglia di civiltà.
«Il Giornale» del 22 dicembre 2006
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