di Ezio Savino
Certi poeti confessano una vita segnata dai fiumi. Nomadi, naufraghi, esuli, trovano nella geografia dell’acqua corrente una consonanza con il loro stesso vagare. Il Nilo, la Senna, l’Isonzo formano il liquido reticolo dei ricordi per Giuseppe Ungaretti. Il cieco Omero discorse con esattezza di Xanto e di Scamandro, i fiumi di Ilio, al punto che un moderno cacciatore di tesori, Schliemann, fiducioso nel navigatore satellitare degli esametri, disseppellì i ruderi della città di Priamo.
Dante è un maestro in materia fluviale. Se il suo Acheronte, con la malvagia e trista riviera, con l’onda pigra e bruna, paga dazio agli ispiratori classici, Orazio e Virgilio, sorgenti, cascate, orridi, anse e sbocchi di tanti altri corsi d’acqua bucano la pagina con la potenza del vissuto, la nettezza dell’autopsia, l’occhio d’aquila del viaggiatore per costrizione, che scruta e registra i dettagli, pronto a incastonarli nelle terzine con lo scrupolo della guida topografica che fatalmente matura nell’assoluto della poesia. Talvolta, quel particolare fiume gli appare perfetto per chiarire il discorso con una similitudine infallibile.
Chi non ha fatto l’esperienza di un fragore torrenziale che impedisce di percepire le parole del vicino? Così l’acqua sporca del Flegetonte, piombando nel burrato di Malebolge, assorda i due viandanti dell’aldilà. Per stampare nell’immaginazione il doloroso effetto, Dante ci solleva dalla bruma infera all’aria pura del Monviso, scaturigine del Po. Guardando a levante, da lì si scorge l’Acquacheta, un torrente che dal macigno appenninico di San Benedetto dell’Alpe, senza imitare i confratelli che si gettano nel gran corso padano, serpeggia all’Adriatico lambendo Forlì, non senza cambiare il suo nome, ora di fiume, in Montone, prima però formando la cascata dei Romiti, con un rombo spiegato dal fatto che la portata vi irrompe intera, non dispersa in rivoli. La descrizione dantesca ha corpo: stiamo ascoltando il pellegrino, che ha salito le alture, ha volto il lento sguardo intorno, confrontando l’orizzonte con la mappa, su cui forse il dito, scorrendo, ripercorreva il disegno dei profili alpestri, dei campanili merlati, dell’arabesco dei fiumi, mentre le labbra ne mormoravano i nomi.
In altri punti, le correnti fluviali si impregnano di emozioni più aggrovigliate. Nell’ultima bolgia, affacciata sul pozzo dei Giganti, si martirizzano i falsari. Maestro Adamo è tra loro. Il corpo è deformato in mostruoso liuto. La ventraia, ingigantita dall’idropisia metafisica, inchioda al suolo il dannato, i piedi scomparsi sotto la massa. Così il contraltare della giustizia divina sconcia chi volle, per avidità di denaro, dare forma fasulla di fiorino al metallo ignobile. L’idropico è un assetato cronico. Con diabolica raffinatezza, la pena è acuita dal ricordo di aver avuto intorno, nella vita terrena, chiare e dolci acque. Come i ruscelletti che dai verdi colli del Casentino (il Clusentinum latino, la «valle chiusa», la conchiglia di monti culminante nella Falterona) scendono in Arno, in canali «freddi e molli». Questo losco artista del conio fu al servizio dei conti Guidi, feudatari decaduti della Romena, maniero di cui ancora oggi nereggiano le rovine, nell’alta vallata, paradiso di faggeti e conifere, che da Firenze porta ad Arezzo, con i gioielli delle pievi e delle abbazie, Vallombrosa, Camaldoli e il crudo sasso della Verna, sanguinosa gloria delle stimmate francescane. E il passo della Consuma è ancora lì, a ricordare il rogo che castigò il riccone falsario, che nell’arsura darebbe tutto per una goccia di quei suoi nostalgici ruscelli.
Dante percorse in lungo e in largo il Casentino. Certo si dissetò a quelle acque. Ne sentiamo la delicata frescura nelle sue parole. La vollero assaporare i viaggiatori inglesi dell’Ottocento, che s’inerpicavano per le precarie barocciabili casentinesi, con in una mano una copia della Divina Commedia (tradotta dall’irlandese Willliam Hayley nel 1802 e sponsorizzata da Thomas Carlyle, che proclamò Dante fratello dell’umanità e lo santificò insieme al secondo eroe della poesia universale, Shakespeare), e nell’altra il Paradiso perduto del loro vate Milton, che paragonò le legioni degli angeli al fogliame delle oscurità etrusche, coronanti le solitudini di Vallombrosa in solenni archi frondosi.
E questo ci porta al bel saggio di Raffaella Cavalieri, Il viaggio dantesco (Robin Edizioni, pagg. 173, euro 10). Il dantesco del titolo va inteso in tre sensi. Il primo riassume la fisionomia del vagabondo politico, che assaggiò il sale del pane altrui su strade e sentieri d’Italia. Il secondo allude alle sue memorie di pedone nel crogiolo della poesia: non solo fiumi, ma scorci di città, isole, pinete, pianure, che contrappuntano come luminose cartoline i paesaggi oltremondani. Il terzo, vero scopo del libro, è riferire quel modo tutto ottocentesco di leggere il poeta, ripercorrendone gli itinerari con la guida dei versi, in un’Italia che agli stranieri golosi di cultura (il francese Ampère: Viaggio dantesco; il tedesco Bassermann: Dantes Spuren in Italien; le britanniche Ella e Nora Noyes: Il Casentino e la sua storia) appariva nel fascino incontaminato di un medioevo vivente. Per loro Dante è il cicerone, e le terre d’Italia il più sincero commento al poema. Che non si comprende a fondo se non ponendo l’orma su quella del cantore.
Nel nostro tempo, in cui la critica letteraria affila i suoi bisturi sul testo, con alchimie di strutturalismi, formalismi, analisi stilistiche, concordanze stivate in banche dati elettroniche, questo generoso e appassionato ritorno all’umanità del poeta allarga il cuore. Scarpiniamo in cima alla Falterona, sul tratturo dantesco, lasciamo vagare l’occhio sulle cento e più miglia dell’Arno, principe e demone dei suoi fiumi, e solo così risentiremo intere le note amare dell’invettiva, della topografia satirica del poeta infernale.
«Il Giornale» del 22 ottobre 2006
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