di Massimo Gramellini
Se siamo in mano ai vecchi, qualche piccolissima responsabilità non andrà attribuita anche ai giovani? L'ultima statistica è raggelante: su mille ragazzi italiani che cominciano le scuole superiori, soltanto diciotto arrivano alla laurea in orario. Persino aggiungendovi i ritardatari lievi, cioè coloro che finiscono entro l'anno e non nei secoli dei secoli, resta una percentuale che una volta si sarebbe definita da Terzo Mondo, non fosse che adesso i ventenni di quei Paesi hanno una marcia in più, e chi può farlo studia come un forsennato, si sacrifica, si arrabatta e alla fine sfonda.
I giovani occidentali hanno meno appetito? Può darsi, ma i nostri ancora meno degli altri: fra gli studenti liceali che decidono di cimentarsi in un lavoretto durante l'estate, quelli italiani si collocano trionfalmente all'ultimo posto. Molti insorgeranno, sbandierando diplomi e lauree inutilizzabili, impieghi sottopagati e precari. Hanno ragione. Ma allora perché i loro fratelli minori continuano a iscriversi alle facoltà umanistiche che danno lavoro a minoranze di raccomandati, invece di buttarsi su quelle scientifiche, richiestissime dal mercato? Matematica, chimica, fisica, biologia: interi mondi, affascinanti e ben remunerati, sono stati consegnati a indiani e cinesi. A nulla vale che le università tentino di attirare i ragazzi con offerte da supermercato, abbuonando le tasse del primo anno: paghi due, studi tre. Molto più comodo spaccarsi la testa su lettere o sociologia, per poi andare a ingolfare i «call center» a trecento euro al mese.
«La Stampa» del 23 agosto 2006
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