24 giugno 2011

Torna la lezione di Seneca: filosofia ad altezza d'uomo

di Marcello Veneziani

Con Epicuro è il pensatore che ha scritto i "long seller" di maggior successo. La sua lettera sulla felicità proposta ai liceali insegna ad accettare il destino

Non ho fatto in tempo, ieri sul Giornale, a invocare Seneca agli esami di stato che nella stessa mattinata sono stato accontentato. A Seneca, a Lucilio e alle sue lettere sulla felicità ho dedicato l’ultimo mio libro uscito poche settimane fa. E una lettera di Seneca a Lucilio in tema di felicità è stata ieri la seconda prova di maturità per i liceali.
Sono contento, e non per puro piacere personale. Seneca è uno di quei pochi filosofi che non insegna solo teorie ma pratiche di vita, che fa filosofia ad altezza d’uomo e mira non solo a esercitare l’intelligenza ma a trasformare la vita e penetrare dentro l’anima del suo lettore, anche per la bellezza del suo stile.
Seneca è cordialmente detestato da molti per tante ragioni. Innanzitutto perché si studia a scuola e spesso è da tradurre dal latino, anziché gustare come filosofo. Poi perché predicava bene e razzolava male, in amore e denaro, in potere e in possesso, dai tempi di Claudio ai tempi di Nerone, di cui fu consigliere, un po’ complice e infine vittima. Quindi perché predicava troppo, era un po’ troppo grillo parlante ed estenuava i poveri malcapitati che voleva consolare, esortare, ammaestrare. Ma era un vero educatore, e della sua vita in fin dei conti ci interessa poco, perché quel che resta di lui sono i suoi scritti e i suoi pensieri. Che dopo duemila anni riscuotono ancora tanto successo; non dico a scuola, ma in libreria. Con Epicuro, Seneca è il filosofo autore di long seller di maggior successo nel presente. Perché parla di vita e di felicità, perché è chiaro e comprensibile. In un ipotetico Giornale dell’Impero sarebbe stato l’elzevirista principe. In fondo è l’unico coetaneo di Cristo che merita di starGli al passo, seppure a devota distanza.
In tema di felicità, si capisce da lontano che Seneca ne è un portatore sano, perché lui è un melanconico. Predilige la felicità del saggio, come assenza di passioni; ma quella non è felicità, si chiama serenità, o al grado estremo beatitudine. Ci sono in realtà due tipi di felicità. Una è la felicità come perdersi nella vita, l’euforia di abbandonarsi ai flussi e alle passioni vitali. Una felicità dionisiaca, bacchica a Roma dove Dioniso era chiamato Liber Pater. L’altra, invece, è la felicità come armonia, senso del bello e della misura; è la felicità apollinea, ed è quella che più somiglia alla felicità virtuosa del saggio, a cui si riferisce Seneca.
Ma qual è il senso e il culmine di quella felicità a cui allude Seneca nella lettera n. 74 che è stata data in pasto ai maturandi? È la felicità come amor fati, come accettazione serena del destino, della realtà, dei nostri limiti e del nostro tramontare.
È lì che nasce per lo stoico, come Seneca, la padronanza di sé, la libertà dalle passioni e dalle dipendenze materiali. Il saggio non ha bisogno di nulla, e non perché possieda già tutto ma perché tutto ciò che a lui veramente importa è dentro di sé, nella sua perfezione interiore. Nella virtù risiede il saper vivere, secondo Seneca, e se la felicità volta le spalle alla virtù decade il sentimento religioso, la lealtà e generosità verso gli altri, la gratitudine e la fierezza del lavoro; tutto si vanifica, perde senso e valore. E nasce quello stato d’animo descritto da Seneca che si riferisce al suo tempo ma che sembra alludere al nostro: quell’odio verso la vita unito al timore della morte. Tanto più disprezziamo la vita quanto più morbosamente ci attacchiamo a lei. Perché in realtà vivere non basta, ho sostenuto nel testo senechiano, la vita non può essere scopo di se stessa, una vita non va solo vissuta, potenziata e prolungata, ma anche pensata, plasmata e dedicata.
Infine il dubbio antico: ma chi era e cosa rispondeva questo Lucilio? Il poco che sappiamo di lui, in un alone di incertezza sulla sua stessa esistenza, è che fu un allievo di poco più giovane di Seneca, fu un funzionario dell’impero, per un periodo in Sicilia; era di origine meridionale, forse pompeiana, ed aveva propensione poetico-letteraria. Ma non si sono mai trovate le sue lettere a Seneca, anche se il filosofo iberico vi fa spesso riferimento. Da qui la mia idea di vestire i panni di Lucilio e di scrivere al maestro, di dialogare con lui e di confutarlo rispettosamente in certi casi. Lettere che sarebbero state ritrovate a Pompei nel recente crollo della casa del moralista (un lettore-docente ha realmente creduto a questa invenzione letteraria e in una mail ha benedetto il crollo per il prezioso ritrovamento).
Grande lezione, quella di Seneca, e poco importa fargli i conti della serva e notare qualche vistosa incoerenza tra quel che scrisse e quel che visse: in fondo la sua vita riguarda solo lui e i pochi intimi, il suo pensiero riguarda tutti noi. Ma sulla felicità Seneca ci insegna soprattutto una cosa: che sulla felicità c’è poco da insegnare, perché la felicità si vive e non si prescrive. La felicità è nell’oblio, appena ti ridesti vola via. E questo Seneca, magari quando s’innamorò di Giulia Livilla e finì in esilio per nove anni, lo sapeva. Ma lo volle dimenticare. Perché la felicità riguarda ciò che vola, la saggezza concerne ciò che resta.

«Il Giornale» del 24 giugno 2011

07 giugno 2011

Rinnegare le proprie idee per far cadere il Nemico

I dietrofront di Pd e Idv sull'acqua e del governo sul nucleare

di Pierluigi Battista

Ci vorrebbe spiegare l'ex liberalizzatore Bersani se è giusto cambiare così radicalmente idea sulla gestione dell'acqua solo per galvanizzarsi con il brivido della spallata referendaria al Nemico? Circola per YouTube un video imbarazzante in cui il segretario del Pd, il 18 settembre del 2008, sferzava con sarcasmo i catastrofisti che fantasticavano di un'inesistente «privatizzazione dell'acqua» per bloccare ogni ipotesi di efficiente distribuzione idrica ora sprecata e dispersa dai carrozzoni clientelari malgestiti nel nome della sacralità del «pubblico». Ecco cosa diceva Bersani: «Come faccio a fare in modo che si perda meno acqua, che si depuri bene, che si facciano investimenti in modo sensato? Devo chiamare uno che è capace di fare quel mestiere lì». E ancora: «Cerchiamo di distinguere. Stiamo dicendo che vendiamo l'acqua a qualcuno? Nooo! Stiamo dicendo che diamo via le infrastrutture? Nooo! Stiamo dicendo che facciamo una partnership industriale per rafforzare la nostra capacità di gestione». Stiamo dicendo che Bersani non può repentinamente cambiare idea? Nooo! Stiamo dicendo che Bersani non ha cambiato idea, ma è costretto a deformarla e rinnegarla per mostrare i muscoli nella guerra santa contro Berlusconi. Non è il solo ad aver contratto questa pessima abitudine italiana. Ma la sua giravolta getta nello sconforto chi aveva creduto nelle convinzioni riformiste e liberalizzatrici del leader del Pd. «Si è rimangiato la linea che aveva per inseguire posizioni movimentiste. La legge che si vuole abrogare è quella che avevamo voluto quando eravamo al governo» ha detto Francesco Rutelli a Elisa Calessi di Libero. Ma qui tutti rimangiano tutto. Per non perdere le elezioni amministrative ed evitare il referendum, il governo, come è certificato da un fuorionda del ministro dell'ambiente, Prestigiacomo, si è rimangiato tutte le promesse di colossali investimenti sul nucleare. Giusto o sbagliato che sia: non l'ha fatto per convinzione, ma solo per opportunità. Anche Fini si è rimangiato il lodevole impegno a fare di Fli una forza di destra moderna e innovatrice, rinunciando a ogni autonomia culturale e accodandosi alle «posizioni movimentiste» del Sì all'abrogazione di leggi votate dagli stessi finiani, pur di creare qualche problema in più all'ex alleato. È che nel primitivo bipolarismo italiano il merito delle questioni non conta più. Conta solo schierarsi in una guerra dove è tutto smisurato ed esagerato e dove sembra che in un normale referendum si debba votare se dare da bere agli assetati oppure no, come dice evangelicamente Di Pietro. Lo stesso Di Pietro che nel '96, da ministro dei Lavori pubblici, sollecitava imperiosamente una riforma che disciplinasse «le modalità di affidamento dei servizi idrici», a cominciare «dalla trasformazione dell'Acquedotto pugliese da ente pubblico a Spa aperta ai privati». Nooo! Sì.

«Corriere della Sera» del 6 giugno 2011

04 giugno 2011

Il macigno che distrusse l'illusione dell'edonismo

di Antonio Scurati

Ci sono date che, sebbene rimangano in principio ignorate, segnano una controstoria segreta dell’umanità. Il 5 giugno ’81 è una di quelle. Quel giorno il centro per la prevenzione delle malattie degli Usa identificò un’epidemia di pneumocistosi polmonare in 5 pazienti gay di Los Angeles. Era l’inizio dell’epidemia dell’AIDS. Ma era anche l’inizio degli anni ’80, il più lungo e intenso periodo di finta allegria dissipatrice che la storia dell’Occidente contemporaneo ricordi. Un decennio lungo trent’anni e durato fino a oggi. Anzi, fino a ieri. Trent’anni di fasulla e perfino lugubre joie de vivre sottilmente venati da un corrosivo presentimento luttuoso. Quel primo campanello d’allarme rimase a lungo inascoltato. Soltanto nel 1984 ci si renderà conto che un agente infettivo è il responsabile del diffondersi di una nuova terribile malattia, soltanto nel 1986 sarà pubblicato il primo report statunitense sull’AIDS che dichiarerà la necessità di dare informazioni sul sesso, soltanto nel 1987 l’Assemblea mondiale della Sanità approverà una prima strategia globale per fronteggiare l’epidemia. Nel frattempo, mentre l’epidemia dilaga, derubricata nell’agenda mediatica come flagello circoscritto alla comunità gay (non dimentichiamo che in un primo tempo venne definita «immunodeficienza gay-correlata»), là fuori, nella società occidentale che si autorappresenta come ricca, sana, festosa, libera e gaudente, il party sfrenato continua fino alle prime luci dell’alba. Buttati dietro le spalle gli anni ’70 degli ultimi conflitti sociali manifesti e delle ultime dure lotte politiche, si predica ovunque euforicamente il nuovo verbo della società dei consumi, il cui hard core culturale e commerciale sta proprio, non a caso, nello scatenamento dei consumi sessuali. Ogni merce, anche la meno eccitante, viene sapientemente investita da un flusso di pulsioni libidinali ad opera di una legione di pubblicitari. La «liberazione sessuale», massima conquista dei movimenti di contestazione dei decenni precedenti, viene pervertita e irradiata sull’intero spettro delle merci. L’imperativo è uno solo: consumare, spandere, godere. Tre verbi che stanno chiaramente su di un continuum temporale e semantico con l’atto ed il concetto di «scopare».
Per le donne e gli uomini della mia generazione, nati tra la fine dei ’60 e il principio dei ’70, l’AIDS fu una prima apocalittica rivelazione riguardo alla fatuità e falsità dell’ideologia edonista profusa prima dai gruppi di potere e poi dai ceti di governo proprio a cominciare dagli anni ’80. La sperimentammo sulla nostra pelle quella menzogna anzi - è proprio il caso di dirlo - nella nostra carne. Ci affacciammo, infatti, all’età biologica del godimento sessuale proprio quando l’agghiacciante consapevolezza riguardante il diffondersi della malattia proclamava che la festa era finita (sebbene alcuni uomini degli anni ’80 si siano ostinati a negarlo fino a ieri, anzi, fino a oggi). Raggiunti i sedici anni, quando, carichi di ormoni e di fantasie sessuali alimentate dalla dilagante nudità dei corpi, ci sentimmo pronti a buttarci nell’orgia scatenata dai nostri fratelli maggiori che erano passati dalle ammucchiate fricchettone alle agenzie pubblicitarie, ci dissero che l’orgia era un brodo di cultura d’infezione. Non avremmo addentato il frutto proibito, e non per timore del peccato ma perché era un frutto avvelenato. Per noi occidentali, l’AIDS infettava direttamente il cuore della nostra mitologia tardo-moderna. Era una piaga tipica della società dei consumi, strettamente correlata agli «stili di vita», recentemente elevati a suprema ideologia libertaria (l’AIDS fu la prima malattia infettiva scoperta come tale con solo metodo matematico statistico, cioè indagandone l’incidenza in gruppi sociali connotati dalle medesime abitudini), alla gioia vacanziera (il turismo sessuale ad Haiti), propensa a falcidiare gli idoli dello star system cinematografico (Rock Hudson), musicale (Freddie Mercury) e intellettuale (Michel Foucault). Se ne ebbe l’apice simbolico quando, pochi mesi prima di morire, Rock Hudson, ospite del serial Falcon Crest - emblema di quel culto fatuo della nuova, facile ricchezza - baciò sulla bocca Linda Evans per ragioni di copione, gettando così nel panico la troupe e l’intera produzione. Il linguaggio, come sempre, veicolò il contagio nell’immaginario.
Da quel momento in avanti l’amplesso amoroso venne definito «evento a rischio», il rischio fu contrastato con «campagne preventive» e il momento in cui quel rischio si esaltava, vale a dire l’atto sessuale, sottoposto all’ ipoteca di un «rapporto protetto». Quella che sarebbe dovuta finalmente essere l’espressione di un’esuberanza vitale, di una libertà conquistata, di una natura emancipata dalle proprie fatalità e costrizioni grazie alla tecnologia medico scientifica (l’invenzione della pillola), veniva ora subito sottoposta ad un protocollo di sicurezza fatto di guerre antivirali preventive e speculazioni sul rischio. Ci è stato giustamente insegnato che trasformare una malattia in metafora è gesto spesso ideologicamente perverso ma è davvero difficile non notare come l’ossessione del «rapporto protetto» sia presto diventato un paradigma per l’Occidente in crisi dei decenni successivi. Dalla metà degli anni ’80 in avanti, quasi sempre, sia che si facesse l’amore sia che si facesse la guerra, non essendo affatto propensi a rinunciare al nostro sfrenato godimento, volendo anzi continuare a lussureggiare anche in futuro, a dispetto di tutto, illudendoci di essere ancora in grado di farlo, abbiamo creduto di poter continuare ad andare a letto con lo spirito del tempo dei fatui e sciagurati anni ’80 indossando un preservativo, una piccola guaina di lattice immunizzante che ci garantisse l’orgasmo preservandoci, però, dal contatto con la realtà del mondo, dell’altro e, soprattutto, di noi stessi.

«La Stampa» del 4 giugno 2011

Giudici, la lirica morale

di Fulvio Panzeri


Se n’è andato anche un altro poeta che ha segnato un momento importante della poesia italiana del Secondo Dopoguerra, con Zanzotto, Erba, Pasolini e Raboni: Giovanni Giudici. I suoi versi chiudono con l’ermetismo per trovare una nuova dimensione prosastica che mette in luce ambiguità e suoni oscuri della contemporaneità, passata attraverso l’esperienza esistenziale del poeta in relazione al contesto di un’Italia intuita sempre in un’ottica personale.
Un’autobiografia dissimulata in una sorta di figura sociale, che ci presenta la sua vicenda di vita come se si trattasse del simbolo dell’alienazione dell’uomo, nel momento in cui si constata che ciò in cui si è creduto mostra il suo disincanto, la sua debolezza e disillusione. Il realismo poetico di Giudici diventa così una sorta di teatro, in cui la realtà agisce secondo la finzione, mettendo in scena la maschera che può riportare a una tradizione di illusa totalità, in una dimensione che si presenta sempre più incerta e ambigua. Giovanni Giudici era nato nel 1924 a Le Grazie, frazione di Porto Venere (Sp), dove oggi alle 17 si svolgeranno i funerali. Nella prima infanzia perde la madre, un lutto che gli lascia una «voragine di privazione» poi dilatata a dismisura col passare degli anni e che troverà ampio spazio anche nella sua poesia.
Ha vissuto a lungo a Roma, dove si è laureato. Inizia a pubblicare versi nel 1953, ma le sue raccolte maggiori sono L’educazione cattolica del 1963, La vita in versi (Mondadori) del 1965, Autobiologia del 1969, per giungere fino a Il ristorante dei morti del 1981 e ancora a Empie stelle (1996) e Eresia della vita (1999). Tutta la poesia di Giudici è stata raccolta nel 2000 a cura di Rodolfo Zucco in un volume dei Meridiani intitolato I versi della vita.
Molti sono gli incontri importanti che hanno influenzato il suo lavoro come poeta, ma anche come pensatore e giornalista. Innanzitutto quello con Umberto Saba a partire dal 1953: «Erano dei soliloqui. Parlava solo lui»; poi con Giacomo Noventa, che gli insegnò «che un poeta non deve aspirare ad essere abbastanza bravo. Un poeta deve aspirare alla grandezza». Fino a quando inizia la sua avventura a Ivrea, «in una Olivetti che era ancora avviata al suo destino di azienda speciale». Poi ci sono gli incontri con Geno Pampaloni e con Franco Fortini, che frequenta sempre alla fine degli anni Cinquanta a Milano, «la città di un’altra dimensione, di un’alta cultura.
Avevo già contatti con Sereni e soprattutto conobbi poi Fortini. Un incontro importante: se ho studiato un po’ lo devo a lui. Con questa idea del catechismo che ho in testa, se uno mi dice di fare una cosa io la faccio. Così se Fortini mi diceva di leggere i Manoscritti del ’44 di Marx io li leggevo. E mi piacevano pure». È con Fortini che affina una visione morale della vita, vista anche nell’ottica di un’ironia amara, una visione che ha bisogno di «una concezione unitaria del mondo non come disegno dogmatico ma come aspirazione a una totalità: questo ancora ci lascia la speranza. Una visione morale d’insieme dice che se tu fai questo ne consegue quest’altro. Obbliga alla coerenza e implica un progetto di trasformazione.
E invece hanno voluta condannarla e abolirla come fosse metafisica. Vorrebbero distruggere la dimensione stessa della progettualità, per garantirsi uno status quo perenne». Una "utopia" che si scontra con il muro di indifferenza degli ultimi anni e con una contemporaneità che non riesce a dare una visione di "speranza". Basti pensare quanto Giudici stimasse don Milani, al quale aveva dedicato una poesia e del quale, già nel 1959, aveva recensito un libro in un articolo (poi ripreso da un numero speciale dello Straniero di Goffredo Fofi) in cui Giudici si interroga su che cosa è un linguaggio democratico. Dopo aver lavorato fino al 1980 per la pubblicità alla Olivetti, svolgendo parallelamente attività di saggista e giornalista oltre che di traduttore (soprattutto con versioni da autori di lingua inglese: Donne, Milton, Dryden, Coleridge, Hopkins, Stevens, Pound, Eliot, Graves, Shapiro, Wilbur, Sylvia Plath), si era ritirato in Liguria.
Aveva tradotto anche il Pange lingua di Tommaso d’Aquino, oltre alla versione dell’Eugenio Onieghin di Puškin in versi italiani, pubblicata da Garzanti con una prefazione di Gianfranco Folena che scriveva: «Puskin soleva paragonare le traduzioni al cambio dei cavalli nelle stazioni di posta. Si può dire che questo cambio è stato fortunato, e che gli scalpitanti puledri di Giudici hanno fiato e ardore per accompagnarci nel nostro cammino».


«Avvenire» del 25 maggio 2011